Un Fiore Stupendo

Un Fiore Stupendo

In un caldo pomeriggio di un paio di estati fa, insieme ad un compagno di avventure, mentre stavamo terminando una missione, la mia attenzione fu rapita da un fiore stupendo, che diventava straordinario quando veniva colpito dal sole.
Era un fiore che non avevo mai notato prima di quel momento, con una forma particolare.
Era composto da una rosa, da cui spuntava un tulipano e tutto intorno tanti petali di margherita, tutto rigorosamente di colore giallo oro.

Solo a vederlo lasciava tutti senza fiato,

ma in quel momento non mi potei avvicinare.
Questo strano fiore mi aveva colpito, e più volte ripensai al fatto che sarei dovuto tornare a vederlo.
Passò del tempo, forse un anno e mezzo se non di più, ed avevo impressa l’immagine viva del fiore nella mia mente, ma nonostante ritornai più volte in quello stesso luogo, non riuscii più a rivedere quel fiore, ma non persi la speranza.

Finché un paio di mesi fa,

ritornato nello stesso luogo per l’ennesima volta, rividi il fiore, che finalmente si trovava nuovamente li.
Mi avvicinai, lo ammirai ancora, pensai di prenderlo ma poi decisi di lasciarlo nel luogo in cui lo avevo trovato.
Ogni qual volta avevo tempo, ritornavo in quel luogo dove andavo ad ammirare il fiore, e in alcuni momenti anche lui sembrava che mi guardasse, davamo l’idea di essere stati fatti per stare insieme.
Ma un bel giorno, quando ritornai, il fiore si stava appassendo.

Rivederlo in quelle condizioni, non era più la stessa cosa.

Avevo comunicato con lui, era sempre stato bello da guardare, ma dopo il tempo passato ad ammirarlo, era giunto il momento di non ritornare più in quel luogo.
Tante volte avrei voluto portarlo con me, ma lo avrei strappato dal suo territorio contro la sua volontà, anche se…
Il ricordo della lucentezza del fiore era impresso nella mia mente, niente me lo avrebbe potuto portare via, ma purtroppo era uno degli ultimi ricordi che avevo di lui.

Brano di Michele Bruno Salerno
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.

Il re e la montagna di rose

Il re e la montagna di rose

C’era una volta un re che abitava una montagna dove migliaia di rose di tutti i colori crescevano rigogliose per tutto l’anno.
In quel regno uomini, donne e bambini vivevano in pace tra loro e con i paesi confinanti.

Un giorno arrivarono nel Regno delle rose dei messaggeri che portarono cattive notizie.

Il re di un paese lontano aveva cominciato un lungo e terrificante viaggio con i suoi eserciti, alla conquista di tutti i regni che incontravano sul loro cammino.
Gli uomini dell’imperatore conquistatore proposero al re delle rose di arrendersi.
“Mai,” rispose lui, “il mio regno dovrà restare libero da ogni schiavitù o imperialismo!”
Purtroppo dopo pochi giorni arrivarono i cavalieri stranieri che iniziarono a distruggere i roseti e le case che incontravano sulla via per la fortezza.
Il re che voleva difendere il suo regno, fu fatto prigioniero e portato in una terra lontana.

Riuscito a fuggire, tornò al suo regno.

Sulla strada del ritorno, da lontano, riusciva a vedere la montagna, ma niente altro.
Infatti l’imperatore aveva distrutto tutte le piante di rose.
Per vendicarsi, il re decise che avrebbe ricostruito tutto come era prima.
Ora che aveva sconfitto il potente imperatore e aveva scatenato contro di lui i popoli conquistati, non rimaneva che ricominciare.
Il re ripensò allo splendore del suo giardino di rose sotto il sole e comprese che cosa aveva attirato gli stranieri sulla sua montagna.

Erano state la serenità e la gioia di un paese bello e semplice come un fiore.

Ma invece di arrendersi al grigio di una natura nascosta, il re volle accrescere l’abbondanza di colori e di vita del suo giardino.
All’arrivo della bella stagione, la montagna era tornata la patria della felicità.
Ormai i roseti arrivavano fino ai piedi dell’altura, non si fermavano come prima della guerra, intorno al castello.
Da tutti i popoli confinanti, quella era conosciuta come la “Montagna di rose!”

Brano senza Autore, tratto dal Web

Il Re, il mendicante e la mela

Il Re, il mendicante e la mela

Ogni mattina, il potente e ricchissimo re di Bengodi riceveva l’omaggio dei suoi sudditi.
Aveva conquistato tutto il conquistabile e si annoiava un po’.
In mezzo agli altri, puntuale ogni mattina, arrivava anche un silenzioso mendicante, che porgeva al re una mela.

Poi, sempre in silenzio, si ritirava.

Il re, abituato a ricevere ben altri regali, con un gesto un po’ infastidito, accettava il dono, ma appena il mendicante voltava le spalle cominciava a deriderlo, imitato da tutta la corte.
Il mendicante non si scoraggiava.
Tornava ogni mattina a consegnare nelle mani del re il suo dono.
Il re lo prendeva e lo deponeva macchinalmente in una cesta posta accanto al trono.

La cesta conteneva tutte le mele portate dal mendicante con gentilezza e pazienza.

E ormai straripava.
Un giorno, la scimmia prediletta del re prese uno di quei frutti e gli diede un morso, poi lo gettò sputacchiando ai piedi del re.
Il sovrano, sorpreso, vide apparire nel cuore della mela una perla iridescente.
Fece subito aprire tutti i frutti accumulati nella cesta e trovò all’interno di ogni mela una perla.

Meravigliato, il re fece chiamare lo strano mendicante e lo interrogò.

“Ti ho portato questi doni, sire,” rispose l’uomo, “per farti comprendere che la vita ti offre ogni mattina un regalo straordinario, che tu dimentichi e butti via, perché sei circondato da troppe ricchezze.
Questo regalo è il nuovo giorno che comincia!”

Brano tratto dal libro “Cerchi nell’acqua” di Bruno Ferrero

Il piccolo re solitario

Il piccolo re solitario

Lontano, lontano da qui, in un mare dal nome strano, c’era una piccola isola, con le spiagge bianche e le colline verdi.
Sull’isola c’era un castello e nel castello viveva un piccolo re.
Era un re abbastanza strano, perché non aveva sudditi.
Nemmeno uno.
Ogni mattina il piccolo re, dopo aver sbadigliato ed essersi stiracchiato, si lavava le orecchie e si spazzolava i denti; poi si calcava in testa la corona e cominciava la sua giornata.
Se splendeva il sole, il piccolo re correva sulla spiaggia a fare sport.
Era un grande sportivo.

Deteneva infatti tutti i record del regno:

da quello dei cento metri di corsa sulla sabbia, al lancio della pietra, a tutte le specialità di nuoto, eccetto lo sci acquatico, perché non trovava nessuno che guidasse il reale motoscafo.
E dopo ogni gara, il re si premiava con la medaglia d’oro.
Ne aveva ormai tre stanze piene.
Ogni volta che si appuntava la medaglia sul petto, si rispondeva con garbo:
“Grazie, maestà!”
Nel castello c’era una biblioteca, e gli scaffali erano pieni di libri.
Al re piacevano molto i fumetti d’avventure.
Un po’ meno le fiabe, perché nelle fiabe tutti i re avevano dei sudditi.

“E io neanche uno!” si diceva il re, “Ma come dice il proverbio:

è meglio essere soli che male accompagnati.”
E quando faceva i compiti, si dava sempre dei bellissimi voti.
“Con i complimenti di sua maestà!” si dichiarava.
Una sera, però, sentì un certo nonsoché che lo rendeva malinconico; camminò fino alla spiaggia, deciso a cercare qualche suddito, e pensava:
“Se solo avessi cento sudditi!”
Allora proseguì sulla spiaggia verso destra, ma la riva era completamente deserta.
“Se solo avessi cinquanta sudditi!” disse il re; tornò indietro e camminò sulla spiaggia verso sinistra fino a che poté, ma la riva era ugualmente deserta.
Il re si sedette su uno scoglio ed era un po’ triste; e di conseguenza non si accorse nemmeno che quella sera c’era un magnifico tramonto.

“Se solo avessi dieci sudditi, probabilmente sarei più felice!”

Notò lontano sul mare alcuni pescatori sulle loro barche e si rallegrò.
“Sudditi,” gridò il re, “sudditi, da questa parte, ecco il re, urrà!”
Ma i pescatori non lo sentirono, e tutto quel gridare rese rauco il re.
Tornò a casa e scivolò sotto la sua bella trapunta colorata; si addormentò e sognò un milione di sudditi che gridavano “urrà” nel momento in cui lo vedevano.
Non dormì a lungo.
Un vociare forte e disordinato lo svegliò.
Il piccolo re non aveva sudditi, ma aveva dei nemici accaniti.

Erano i pirati del terribile Barbarossa.

Sembravano sbucare dall’orizzonte, con la loro nave irta di cannoni, con i loro baffi spioventi e il ghigno feroce, e i coltellacci fra i denti.
“All’arrembaggio!” gridava Barbarossa, il più feroce di tutti.
E i trentotto pirati entravano urlando nel castello e facevano man bassa di tutto quello che trovavano.
A forza di scorrerie, nel castello era rimasto ben poco di asportabile, così i pirati avevano preso l’abitudine di riportare qualcosa ogni volta per poterlo rubare nella scorreria successiva.
Il piccolo re aveva una paura tremenda dei pirati e soprattutto del crudele Barbarossa che ogni volta sbraitava:
“Se prendo il re, lo appendo all’albero della nave!”
Così, quando sentiva arrivare i pirati, si nascondeva in uno dei tanti nascondigli segreti del castello. Dentro, rannicchiato nel buio, aspettava la partenza dei pirati.

Era così da tanto tempo ormai, e il piccolo re non si sentiva affatto un fifone.

“Se avessi un esercito,” pensava, “Barbarossa e la sua ciurma non la passerebbero liscia!”
Un mattino, il re si svegliò a un suono completamente nuovo.
Lo ascoltò e si rese conto che non aveva mai udito un suono simile.
“Forse sono arrivati i miei sudditi!” pensò il re, e andò ad aprire la porta.
Sul gradino della porta sedeva un enorme gatto arancione.
“Buongiorno,” disse il re con grande dignità, “io sono il re, urrà!”
“E io sono il gatto!” disse il gatto.

“Tu sei mio suddito!” disse il re.

“Lasciami entrare,” ribatté il gatto, “ho fame e ho freddo!”
Il re lasciò entrare il gatto nella sua casa, e il gatto fece un giro intorno e vide quanto era grande e confortevole:
“Che bellissima casa hai!”
“Sì, non è male!” disse il re; e improvvisamente si accorse di tutte le cose che non aveva mai visto in molti anni.
“E’ perché io sono il re!” disse il re; ed era molto soddisfatto.
“Io resterò qui!” decise il gatto, e si sistemò nella casa per vivere con il re; e il re fu felice perché ora aveva finalmente un suddito.
“Dammi del cibo!” disse il gatto, e il re corse via immediatamente per andare a prendere cibo per il gatto.
“Fammi un letto!” disse il gatto; e il re corse alla ricerca di una trapunta e di un cuscino.
“Ho freddo!” disse il gatto; e il re accese un fuoco affinché il gatto potesse scaldarsi.

“Ecco fatto, signor Suddito!” disse il re al gatto.

E il gatto rispose: “Grazie, signor Re!”
E il re non notò neppure che, sebbene fosse il re, serviva il gatto.
Il tempo passava e il re era felice in compagnia del gatto, e il gatto mostrava al re ogni cosa che il re nella sua solitudine era riuscito a dimenticare:
il tramonto, la rugiada del mattino, le conchiglie colorate e la luna che scivolava attraverso il cielo come la barca dei pescatori sul mare.
Qualche volta accadeva al re di passare davanti a uno specchio, e quando vedeva la sua immagine diceva:
“Il re, urrà.”
E si salutava.

Non era più il campione assoluto dell’isola.

Il gatto lo batteva nel salto in alto, in lungo e nell’arrampicata sugli alberi; ma il re continuava a eccellere nel nuoto e nel lancio della pietra.
Un mattino, il re sentì bussare alla porta del castello.
Corse ad aprire, pensando:
“Arrivano i sudditi!”
Si trovò davanti un piccoletto con la faccia allegra.
Era un pinguino, con la camicia bianca e il frac di un bel nero lucente.
“Buongiorno,” disse il re con grande dignità, “io sono il re, urrà.”
“E io sono un pinguino!” disse il pinguino.
“Tu sei mio suddito!” disse il re.

“Lasciami entrare,” ribatté il pinguino, “ho fame e ho i piedi congelati.

Sono stufo di abitare su un iceberg!”
Il re lasciò entrare il pinguino nella sua casa e gli presentò il gatto, che fu molto felice di fare conoscenza con il pinguino.
“Penso che mi fermerò qui con voi.” disse il pinguino.
Il re ne fu felicissimo.
Adesso aveva due sudditi.
Corse a preparare una buona cenetta per il pinguino, mentre il gatto portava al nuovo ospite due soffici pantofole.
“Io farò il maggiordomo.
Mi ci sento portato!” dichiarò il pinguino, “Terrò in ordine il castello e servirò gli aperitivi in terrazza!”

Così furono in tre a guardare i tramonti.

Ed era ancora meglio che in due.
Il re non vinceva più molte gare sportive, perché il pinguino lo batteva nel nuoto e nei tuffi.
Scoprì, sorprendentemente, che si può essere contenti anche se non si vince sempre.
Ma una sera, lontano all’orizzonte, apparve la nave del pirata Barbarossa.
“Presto scappiamo a nasconderci!” gridò il re.
“Neanche per sogno!” disse il gatto, “Siamo in tre e possiamo battere quei prepotenti!”
“Certo!” ribatté il pinguino, “Basta avere un piano!”
“Nell’armeria del castello c’è l’armatura del gigante Latus!” disse il re.
“Bene!” disse il gatto, “Ci infileremo nell’armatura e affronteremo i pirati!”
“Il gatto si metterà sulle mie spalle, e il re sul gatto, così potrà brandire la spada.” continuò il pinguino.

“Approvo il piano!” concluse il re.

Così fecero.
Quando approdarono alla spiaggia, i pirati rimasero paralizzati dalla sorpresa.
Verso di loro, a grandi passi ondeggianti, avanzava un gigante che brandiva un enorme e minaccioso spadone.
“È tornato il gigante Latus!” gridarono, “Si salvi chi può!”
E si buttarono in acqua per raggiungere la nave.
Da allora nessuno li vide mai più.
Sulla spiaggia dell’isola il piccolo re, il gatto e il pinguino si abbracciarono ridendo.
Poi il gatto e il pinguino sollevarono il re e lo gettarono in aria gridando:
“Re è il migliore amico che c’è, urrà!”

Brano tratto dal libro “Nuove storie. Per la scuola e la catechesi.” di Bruno Ferrero

Il club del novantanove

Il club del novantanove

C’era una volta un re molto triste che aveva un servo molto felice che circolava sempre con un grande sorriso sul volto.
“Paggio,” gli chiese un giorno il re, “qual è il segreto della tua allegria?”
“Non ho nessun segreto.
Signore, non ho motivo di essere triste.
Sono felice di servirvi.
Con mia moglie e i miei figli vivo nella casa che ci è stata assegnata dalla corte.
Ho cibo e vestiti e qualche moneta di mancia ogni tanto.”
Il re chiamò il più saggio dei suoi consiglieri:
“Voglio il segreto della felicità del paggio!”
“Non puoi capire il segreto della sua felicità.
Ma se vuoi, puoi sottrargliela!” esclamò il saggio.

“Come?” chiese il re.

“Facendo entrare il tuo paggio nel giro del novantanove.” rispose il saggio.
“Che cosa significa?” domandò il sovrano.
“Fa’ quello che ti dico…” concluse il saggio
Seguendo le indicazioni del consigliere, il re preparò una borsa che conteneva novantanove monete d’oro e la fece dare al paggio con un messaggio che diceva:
“Questo tesoro è tuo.
Goditelo e non dire a nessuno come lo hai trovato!”
Il paggio non aveva mai visto tanto denaro e pieno di eccitazione cominciò a contarle:
dieci, venti, trenta, quaranta, cinquanta, sessanta… novantanove!
Deluso, indugiò con lo sguardo sopra il tavolo, alla ricerca della moneta mancante.

“Sono stato derubato!” gridò, “Sono stato derubato! Maledetti!”

Cercò di nuovo sopra il tavolo, per terra, nella borsa, tra i vestiti, nelle tasche, sotto i mobili…
Ma non trovò quello che cercava.
Sopra il tavolo, quasi a prendersi gioco di lui, un mucchietto di monete splendenti gli ricordava che aveva novantanove monete d’oro.
Soltanto novantanove.
“Novantanove monete.
Sono tanti soldi,” pensò, “ma mi manca una moneta.
Novantanove non è un numero completo!” pensava, “Cento è un numero completo, novantanove no!”

La faccia del paggio non era più la stessa.

Aveva la fonte corrugata e i lineamenti irrigiditi.
Stringeva gli occhi e la bocca gli si contraeva in una orribile smorfia, mostrando i denti.
Calcolò quanto tempo avrebbe dovuto lavorare per guadagnare la centesima moneta, avrebbe fatto lavorare sua moglie e i suoi figli.
Dieci dodici anni, ma ce l’avrebbe fatta!
Il paggio era entrato nel giro del novantanove…
Non passò molto tempo che il re lo licenziò.
Non era piacevole avere un paggio sempre di cattivo umore.

Se ci rendessimo conto, così di colpo, che le nostre novantanove monete sono il cento per cento del tesoro?
E che non ci manca nulla, nessuno ci ha portato via nulla, il numero cento non è più rotondo del novantanove.
È soltanto un tranello, una carota che ci hanno messo davanti al naso per renderci stupidi, per farci tirare il carretto, stanchi, di malumore, infelici e rassegnati.
Un tranello per non farci mai smettere di spingere.

Brano tratto dal libro “Ma noi abbiamo le ali.” di Bruno Ferrero

L’imperatore ed il tempo

L’imperatore ed il tempo

Un imperatore, in punto di morte, convocò i suoi fidati generali, per dettare loro le sue ultime volontà.
Ho tre precisi desideri da esprimervi, disse:

1) che la mia bara sia trasportata a spalle, da nessun altro se non dai medici che non hanno saputo guarirmi;

2) che i tesori, gli ori e le pietre preziose conquistate ai nemici vengano sparse e disseminate a vantaggio del popolo, lungo la strada che porta alla mia tomba;
3) che le mie mani siano lasciate penzolare fuori della bara, alla chiara vista di tutti.

Uno dei generali, scioccato da queste strane ed inaudite ultime volontà del grande condottiero, chiese:

“Sire, qual è mai il motivo di tutto questo?”
L’imperatore, con la voce ormai bassa e tremula, gli rispose:

1) voglio solo i medici a portarmi all’ultima mia dimora, per dimostrare a tutti che non hanno alcun potere di fronte alla malattia e alla morte;

2) voglio il suolo pubblico ricoperto dai miei tesori, perché la gente umile ne tragga qualche vantaggio, ma soprattutto per ricordare a tutti che i beni materiali, qui conquistati, qui restano;
3) voglio le mie mani penzolanti al vento, perché la gente capisca che a mani vuote veniamo e a mani vuote andiamo via.

Brano senza Autore, tratto dal Web

Ti Auguro Tempo

Ti Auguro Tempo

Non ti auguro un dono qualsiasi,
ti auguro soltanto quello che i più non hanno.
Ti auguro tempo, per divertirti e per ridere;
se lo impiegherai bene, potrai ricavarne qualcosa.
Ti auguro tempo, per il tuo fare e il tuo pensare,

non solo per te stesso, ma anche per donarlo agli altri.

Ti auguro tempo, non per affrettarti e correre,
ma tempo per essere contento.
Ti auguro tempo, non soltanto per trascorrerlo,
ti auguro tempo perché te ne resti:
tempo per stupirti e tempo per fidarti

e non soltanto per guardarlo sull’orologio.

Ti auguro tempo per contare le stelle
e tempo per crescere, per maturare.
Ti auguro tempo, per sperare nuovamente e per amare.
Non ha più senso rimandare.

Ti auguro tempo per trovare te stesso,

per vivere ogni tuo giorno, ogni tua ora come un dono.
Ti auguro tempo anche per perdonare.
Ti auguro di avere tempo,
tempo per la vita.

Poesia tratta dal libro “Dedicato a te.” di Elli Michler

Elli Michler

Elli Michler autrice del Brano “Ti Auguro Tempo.” tratto dal libro “Dedicato a te.” Elli Michler – Wikipedia ▶Home Bruno Ferrero Michele Bruno Salerno Autori…

Qual è la cosa più importante che hai imparato nella vita?

Qual è la cosa più importante che hai imparato nella vita?

Ho imparato che le lacrime aiutano a crescere.

Che i ricordi non si dissolvono mai.

Che le parole feriscono.

Ho imparato che più dai e meno ricevi; che ignorare i fatti non cambia i fatti;

che i vuoti non sempre possono essere colmati;

che le grandi cose si vedono dalle piccole cose.

Ho imparato che la ruota gira,

ma quando ormai non te ne frega più niente.

Ho imparato che non si finisce mai di imparare.

Brano senza Autore, tratto dal Web

La persona ideale

La persona ideale

Mulla Nasrudin era seduto nel negozio del tè quando arrivò un vicino per parlare con lui.
“Sto per sposarmi, Mulla,” gli disse l’amico, “e sono molto eccitato.
Tu non hai mai pensato di sposarti?”

Nasrudin rispose:

“Sì, ci ho pensato.
Quand’ero giovane lo desideravo molto.
Volevo trovare la moglie perfetta.
Mi sono messo in viaggio per cercarla e sono andato a Damasco.
Là ho incontrato una bella donna piena di grazia, gentile e molto spirituale, ma che non conosceva il mondo.

Allora mi sono rimesso in viaggio e sono andato a Isphahan.

Là ho incontrato una donna che era sia spirituale che mondana, bella sotto molti punti di vista, ma non riuscivamo a comunicare.
Alla fine sono andato al Cairo e dopo molte ricerche l’ho trovata.
Era profonda di spirito, piena di grazia, bella sotto tutti i punti di vista, a suo agio sia nel mondo che nei regni che lo trascendono.
Sentivo di aver trovato la moglie ideale!”

L’amico gli fece un’altra domanda:

“Allora perché non l’hai sposata, Mulla?
“Ahimè,” disse Nasrudin scuotendo la testa, “anche lei stava cercando il marito ideale!”

Brano tratto dal libro “Il segreto dei pesci rossi.” di Bruno Ferrero