Provvidenza e sale

Provvidenza e sale

Nei primi anni del 1900, un mezzadro di nome Giacomo, si era iscritto alle Leghe Bianche sorte in Veneto.
Le “Leghe Bianche” erano un sindacato del mondo rurale contadino di ispirazione Cattolica per il riscatto socio-economico della categoria contadina, che soffriva mali endemici come la malnutrizione e l’analfabetismo.
Il latifondista saputo che il suo contraente aveva aderito alla temuta lega, gli diede lo sfratto.

Sarebbe dovuto andare via entro San Martino.

Avvenne come ben descritto nel film di Ermanno Olmi, l’Albero degli Zoccoli.
Giacomo era disperato, aveva una famiglia e sei figli piccoli, e non sapeva dove sbattere la testa.
Desolato, stava seduto su un bordo di un canale con tristi pensieri, quando, improvvisamente, fu raggiunto dal parroco, che si fece spiegare l’angosciosa situazione e abbracciandolo gli disse:
“Giacomo, io sono un povero strumento della Divina Provvidenza, ed in questo caso posso aiutarti.
Se e solo se sarai sempre riconoscente a Questa e diventerai sale, facendo buone azioni di promozione umana, ti si sarà rassicurata polenta a sufficienza.

Però dovrai rispettare il riposo festivo.”

Gli indicò la possibilità di condurre un piccolo podere al margine del paese, al quale si dedicò con tutto se stesso lavorando sodo.
Riuscì anche a riscattarlo con il passare del tempo ed ebbe altri sei figli.
Non si dimenticò mai le parole del saggio sacerdote e della promessa che aveva fatto.
Diede alla chiesa due figli sacerdoti e due suore.
Amava dire che l’unica mezzadria che li piaceva era quella con nostro Signore.
Ai mendicanti, che trovavano ristoro nella sua casa, amava raccontare la sua esperienza e le raccomandazioni del prete.

A questi diceva:

“Io ti do cibo e vivande se saprai fare anche tu provvidenza con delle buone azioni!”
Fu chiamato da tutti con il soprannome di Sal (Sale in italiano) per i buoni consigli che dava, anche con l’esempio.
Per non dimenticare la promessa si faceva preparare la polenta super salata ed il resto quasi insipido.
Nessuno seppe mai se in questo stava il segreto della sua lunga vita.
Mio suocero, ultimo figlio di Giacomo, mi raccontava sempre la storia di suo padre, commuovendosi.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Amare Dio ed amare gli altri

Amare Dio ed amare gli altri
(Una leggenda irlandese)

Ci fu un tempo, dice una leggenda, in cui l’Irlanda era governata da un re che non aveva figli maschi.
Così, il sovrano inviò i suoi messi ad affiggere dei bandi sugli alberi di tutte le città del regno, per invitare ogni giovanotto che ne avesse i requisiti a presentarsi a palazzo e avere un colloquio con il re come possibile successore al trono.
Le caratteristiche richieste erano le seguenti:

“Amare Dio ed amare gli altri esseri umani.”

Il giovanotto di cui parla la leggenda vide i bandi e riflette fra sé e sé che amava Dio e gli altri esseri umani.
Tuttavia, data la sua estrema indigenza, non possedeva degli abiti che lo rendessero presentabile alla vista del re; ne disponeva dei mezzi per acquistare le vettovaglie necessario per il viaggio sino al castello.
Perciò mendicò ed ottenne dei prestiti finché non ebbe denaro a sufficienza per dei vestiti adeguati e per le provviste necessarie, e finalmente poté mettersi in viaggio alla volta del castello.
Lungo la strada, giunto quasi nei pressi della meta, incontrò un mendicante, il quale stava seduto tutto tremante, e non indossava altro che stracci; il poveretto allungò le braccia per implorare aiuto e con voce debole disse piano:

“Ho fame e ho freddo.
Mi aiuti?”

Il giovane fu così commosso dallo stato di bisogno del povero mendicante che si privò immediatamente degli abiti, facendo il cambio con gli stracci del mendicante.
Senza pensarci un attimo, inoltre, gli diede tutte le sue provviste.
Poi, benché titubante, riprese il cammino verso il castello, con indosso gli stracci e senza provviste per il viaggio di ritorno.
All’arrivo al castello, una persona al seguito del sovrano lo fece entrare e, dopo una lunga attesa, finalmente poté accedere nella sala del trono.
Quando il giovane, chinatesi profondamente davanti al sovrano, sollevò gli occhi, fu colmo di stupore:
“Voi… voi siete il mendicante che ho incontrato lungo la strada!”
“Sì!” rispose il re, “Quel mendicante ero proprio io.”
“Ma non siete un vero mendicante.
Siete il re.” esclamò il giovane.

“Sì, sono il re!” spiegò.

“Perché avete fatto questo?” chiese, allora, il giovane.
“Perché volevo scoprire se tu ami veramente, se ami Dio e gli altri esseri umani.
Sapevo che se mi fossi presentato a te come il re, saresti stato molto colpito dalla mia corona d’oro e dai miei abiti regali.
Avresti fatto qualunque cosa io chiedessi per via del mio aspetto regale; ma in questo modo non avrei mai saputo com’è realmente il tuo cuore.
Perciò mi sono presentato a te come un mendicante, senza pretese nei tuoi confronti se non quella dell’amore del tuo cuore.
Ed ho scoperto che tu ami realmente Dio e gli altri esseri umani.
Tu sarai il mio successore.
Tu avrai il mio regno!”

Brano tratto dal libro “Perché ho paura di essere pienamente me stesso. Alla scoperta della propria autoaffermazione.” di John Powell

O Dio! Fammi diventare come Giovanni!

O Dio! Fammi diventare come Giovanni!

In un centro di raccolta per barboni, un alcolizzato di nome Giovanni, considerato un ubriacone irrecuperabile, fu colpito dalla generosità dei volontari del centro e cambiò completamente.
Divenne la persona più servizievole che i collaboratori e i frequentatori del centro avessero mai conosciuto.

Giorno e notte, Giovanni si dava da fare instancabile.

Nessun lavoro era troppo umile per lui.
Sia che si trattasse di ripulire una stanza in cui qualche alcolizzato si era sentito male, o di strofinare i gabinetti insudiciati, Giovanni faceva quanto gli veniva chiesto col sorriso sulle labbra e con apparente gratitudine, perché aveva la possibilità di essere d’aiuto.
Si poteva contare su di lui quando c’era da dare da mangiare a uomini sfiniti dalla debolezza,

o quando bisognava spogliare e mettere a letto persone incapaci di farcela da sole.

Una sera, il cappellano del centro parlava alla solita folla seduta in silenzio nella sala e sottolineava la necessità di chiedere a Dio di cambiare.
Improvvisamente un uomo si alzò, percorse il corridoio fino all’altare, si buttò in ginocchio e cominciò a gridare:
“O Dio!
Fammi diventare come Giovanni!
Fammi diventare come Giovanni!”
Il cappellano si chinò verso di lui e gli disse:

“Figliolo, credo che sarebbe meglio chiedere:

Fammi diventare come Gesù!”
L’uomo guardò il cappellano con aria interrogativa e gli chiese:
“Perché, Gesù è come Giovanni?”

Brano tratto dal libro “Il segreto dei pesci rossi.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Gli abeti

Gli abeti

Una pigna gonfia e matura si staccò da un ramo di abete e rotolò giù per il costone della montagna, rimbalzò su una roccia sporgente e finì con un tonfo in un avvallamento umido e ben esposto.
Una manciata di semi venne sbalzata fuori dal suo comodo alloggio e si sparse sul terreno.
“Urrà!” gridarono i semi all’unisono, “È arrivato il nostro momento!”
Cominciarono con entusiasmo ad annidarsi nel terreno, ma scoprirono ben presto che l’essere in tanti provocava qualche difficoltà, ed esclamavano:
“Fatti un po’ più in là, per favore!”
“Attento!
Mi hai messo il germoglio in un occhio!”

E così via.

Comunque, urtandosi e sgomitando, tutti i semi si trovarono un posticino per germogliare.
Tutti meno uno.
Un seme bello e robusto dichiarò chiaramente le sue intenzioni:
“Mi sembrate un branco di inetti!
Pigiati come siete, vi rubate il terreno l’un con l’altro e crescerete rachitici e stentati.
Non voglio avere niente a che fare con voi.
Da solo potrò diventare un albero grande, nobile e imponente.

Da solo!”

Con l’aiuto della pioggia e del vento, il seme riuscì ad allontanarsi dai suoi fratelli e piantò le radici, solitario, sul crinale della montagna.
Dopo qualche stagione, grazie alla neve, alla pioggia e al sole divenne un magnifico giovane abete che dominava la valletta in cui i suoi fratelli erano invece diventati un bel bosco che offriva ombra e fresco riposo ai viandanti e agli animali della montagna.
Anche se i problemi non mancavano:
“Stai fermo con quei rami!
Mi fai cadere gli aghi!”

“Mi rubi il sole!

Fatti più in là!”
“La smetti di scompigliarmi la chioma?”
L’abete solitario li guardava ironico e superbo.
Lui aveva tutto il sole e lo spazio che desiderava.
Ma una notte di fine agosto, le stelle e la luna sparirono sotto una cavalcata di nuvoloni minacciosi.
Sibilando e turbinando il vento scaricò una serie di raffiche sempre più violente, finché devastante sulla montagna si abbatté la bufera.
Gli abeti nel bosco si strinsero l’un l’altro, tremando, ma proteggendosi e sostenendosi a vicenda.
Quando la tempesta si placò, gli abeti erano estenuati per la lunga lotta, ma erano salvi.
Del superbo abete solitario non restava che un mozzicone scheggiato e malinconico sul crinale della montagna.

Brano tratto dal libro “C’è ancora qualcuno che danza.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Sorridi…

Sorridi…

… al sole che illumina la terra e fa germogliare la vita.
… al passero che si posa sul tuo davanzale in cerca di poche briciole.
… al vecchio che ti regala i suoi saggi consigli e aiuta la sua mano tremante, ti benedirà.

Sorridi…

… all’amico quando cerca il tuo sguardo, ti chiede aiuto e sicurezza.
… all’ammalato senza speranza, il tuo sorriso sarà per lui la medicina più preziosa.
… al sorgere di ogni nuovo giorno perché è un dono di Dio.

Sorridi…

… al timido bocciolo di un fiore, anch’esso ti annuncia il miracolo della vita.
… al frastuono dei bimbi, essi sono la speranza di un mondo migliore.
… all’amore in qualunque forma si manifesti, esso vince il tempo e lo spazio.

Sorridi…

… davanti alle meschinità della gente senz’anima, il tuo sorriso forse le farà ricredere.
… quando ascolti note armoniose, la musica è linguaggio universale.
… al tuo fratello dalla pelle più colorata, è in tutto simile a te.
… e troverai la pace nel tuo cuore e in quello degli altri.

Brano di Ishak Alioui

Le scarpe di Natale

Le scarpe di Natale

C’era una volta una città i cui abitanti amavano sopra ogni cosa l’ordine e la tranquillità.
Avevano fatto delle leggi molto precise, che regolavano con severità ogni dettaglio della vita quotidiana.
Tutte le fantasie, tutto quello che non rientrava nelle solite abitudini era mal visto o considerato una stranezza.
E per ogni stranezza era prevista la prigione.
Gli abitanti della città non si dicevano mai “buongiorno” per la strada; nessuno diceva mai “per piacere”:
quasi tutti avevano paura degli altri e si guardavano sospettosamente.
C’erano anche quelli che denunciavano i vicini, se trovavano un po’ troppo bizzarro il loro comportamento.
Il commissario Leonardi, capo della polizia, non aveva mai abbastanza poliziotti per condurre inchieste, sorvegliare, arrestare, punire…
Già nella scuola materna, i bambini imparavano a stare ben attenti alle loro chiavi.

E c’erano chiavi per ogni cosa:

per le porte, per l’armadietto, per la cartella, per la scatola dei giochi e perfino per la scatola delle caramelle!
La sera, la gente aveva paura.
Rientravano tutti a casa correndo e poi sprangavano le porte e chiudevano ben bene le finestre.
Erano rimasti tuttavia dei ragazzi che sapevano ancora scambiarsi qualche strizzata d’occhi e anche degli insegnanti che li incoraggiavano…
Ma, soprattutto, c’era Cristiana.
Cristiana aveva i capelli biondi come il sole, gli occhi scintillanti come laghetti di montagna e non pensava mai:
“Chissà che cosa dirà la gente!”
Nella città si facevano molte dicerie sul suo conto.
Perché Cristiana aiutava tutti quelli che avevano bisogno di aiuto, consolava i bambini che piangevano e anche i vecchietti rimasti soli, perché accoglieva tutti coloro che chiedevano un po’ di denaro o anche solo qualche parola di speranza.

Tutto questo era scandaloso per la città.

Non potevano proprio sopportare ulteriormente quel modo di vivere così diverso dal loro.
E un giorno il commissario Leonardi, con venti poliziotti, andò ad arrestare Cristiana, o Cri-Cri, come l’avevano soprannominata gli amici.
E per essere sicuro che non combinasse altre stranezze, la fece mettere in prigione.
Questo accadde qualche giorno prima di Natale.
Natale era una festa, ma molti non sapevano più di chi o di che cosa.
Sapevano soltanto che in quei giorni si doveva mangiare bene e bere meglio.
Ma senza esagerare, per non prendersi qualche malattia…
Soprattutto, la sera della vigilia di Natale, tutti dovevano mettere le proprie scarpe davanti al camino, per trovarle piene di doni il giorno dopo.
Una cosa questa che, nella città, facevano tutti, ma proprio tutti.

Così fu anche quel Natale.

All’alba, tutti si precipitarono dove avevano messo le scarpe, per trovare i loro regali.
Ma… che cosa era successo?
Non c’era l’ombra di un regalo.
Neanche un torrone o un cioccolatino!
E poi… le scarpe!
In tutta la città, le scarpe risultavano spaiate.
Il commendator Bomboni si trovò con una scarpina da ballo, una vecchia ottantenne aveva una scarpa bullonata da calcio, un bambino di cinque anni aveva una scarpa numero 43, e così di seguito.
Non c’erano due scarpe uguali in tutta la città!
Allora si aprirono porte e finestre e tutti gli abitanti scesero in strada.
Ciascuno brandiva la scarpa non sua e cercava quella giusta.
Era una confusione allegra e festosa.
Quando i possessori delle scarpe scambiate si trovavano, avevano voglia di ridere e di abbracciarsi.
Si vide il commendator Bomboni pagare la cioccolata a una bambina che non aveva mai visto e una vecchietta a braccetto con un ragazzino.
Solo qualche finestra restava ostinatamente chiusa.
Come quella del commissario Leonardi.
Quando però il commissario sentì il gran trambusto che veniva dalla strada, pensò a una rivoluzione e corse a prendere le armi che teneva sul camino.
Immediatamente il suo sguardo cadde sulle scarpe che aveva collocato davanti al camino.

E anche lui si bloccò, sorpreso.

Accanto alla sua pesante scarpa nera c’era… una pantofola rossa di Cri-Cri.
Stringendo la pantofola rossa in mano, il commissario corse alla prigione.
La cella dove aveva rinchiuso Cri-Cri era ancora ben chiusa a chiave.
Ma la ragazza non c’era.
Ai piedi del tavolaccio, perfettamente allineate c’erano l’altra scarpa del commissario e l’altra pantofola rossa.
Dal finestrino, protetto da una grossa inferriata, proveniva una strana luce.
Il commissario si affacciò.
Nella strada la gente continuava a scambiarsi le scarpe e ad abbracciarsi.
Con un insolita commozione, il commissario si accorse che la luce che veniva dal finestrino era bionda e calda come il sole e aveva dei luccichii azzurri, come succede nei laghetti di montagna.
E incominciò a capire.

Brano senza Autore.

La principessa e l’uccellino marrone

La principessa e l’uccellino marrone

“Una Principessa sta per venire qui,” disse il Leone agli animali della giungla riuniti in assemblea, “come possiamo dimostrarle che siamo molto felici di averla con noi?”
“Potremmo farle dei profondi inchini,” suggerì l’ippopotamo, “ma è vero che non tutti abbiamo il fisico adatto!”
“Potremmo tutti gridare forte Benvenuta,” soggiunse l’elefante, “ma forse si spaventerebbe!”
“Potremmo danzare…” propose la Giraffa, ma il Leone guardò l’ippopotamo, scosse la testa e tutti gli animali sospirarono.
Allora l’Uccellino Marrone cinguettò timidamente: “Non potremmo fare un giardino?
Le Principesse adorano i fiori!”
Tutti lo fissarono ammirati.
“Questa sì, che è un’idea felice,” disse il Leone, “lo faremo insieme.”
Venne scelto con cura un luogo molto bello, ma il Leone osservò che andava dissodato.

“Ci penso io!” gridò l’ippopotamo.

“Pesterò la terra coi miei piedoni e con il mio grosso e pesante corpo finché diverrà fine e leggera!”
“Benissimo.” approvò il Leone, “Ora dobbiamo fare dei buchi per piantare i semi.”
“Lo faccio io con gli aculei della mia schiena.” si offrì il Porcospino.
Si appallottolò tutto e cominciò a rotolare su e giù per il campo, finché fu pieno di buchetti regolari. “Benissimo.” disse il Leone, “Ora pianteremo i semi!”
“Tocca a me,” disse la Cavalletta, “sono veloce e leggera!”
Sorvolò saltellando il terreno e in un batter d’occhio piantò tutti i semi.
“Benissimo.” disse il Leone, “Ora bisogna innaffiare il giardino.”
“Lasciate fare a me!” esclamò l’Elefante, “Userò la proboscide!”
Andò al fiume, riempì bene la proboscide e spruzzò un bel po’ d’acqua sul giardino.
“Benissimo.” disse il Leone, “E ora come faremo a impedire alla Scimmia di rovinarci tutto il giardino?”
“Sarà mio compito, farò io la guardia.” propose la Giraffa allungando il collo.
E l’Uccellino Marrone?
Avrebbe voluto essere di aiuto, ma pareva che nessuno avesse bisogno di lui.
Dopo un po’ i semi cominciarono a crescere, ma il Leone, che si era recato a controllare i progressi del giardino, scosse la testa:

“Quante erbacce!

Rovineranno tutto!
Chi è capace di estirparle?”
Gli animali rimasero tutti zitti.
L’ippopotamo si giustificò:
“I miei piedi sono troppo grossi, rovinerei tutto!”
“I miei aculei danneggerebbero le foglie!” si scusò il Porcospino.
“Le erbacce sono troppo pesanti per me!” disse la Cavalletta.
“La mia proboscide spezzerebbe gli steli!” affermò l’Elefante.
“Ho il collo troppo lungo e non posso chinarmi tanto!” si lagnò la Giraffa.
“Cri-cri!” fece il grillo e se la squagliò.
Tutti quei pigroni si girarono e se ne andarono.
Allora l’Uccellino Marrone volò nel giardino.
Con il suo minuscolo becco sradicò un’erbaccia e la gettò dietro una siepe.
Le radici erano forti e spesso il becco gli doleva e dopo un po’ anche le ali gli pesavano.
Ma con pazienza, un giorno dopo l’altro, l’Uccellino Marrone ripulì il giardino finché non rimase una sola erbaccia.
Intanto una miriade di fiori rossi, azzurri e gialli mostrava graziosamente la corolla sui lunghi e sottili steli.

Il giorno dopo, la Giraffa, che era di guardia, annunciò:

“Arriva la Principessa!
La vedo!”
Gli animali si riunirono tutti nel giardino e si meravigliarono di trovarlo così in ordine.
“Forse le erbacce si sono seccate!” disse il Leone, mentre l’Uccellino Marrone appollaiato su un albero taceva.
La Principessa sorrise:
“Non ho mai visto un giardino così bello,” disse, “dovete aver lavorato sodo!”
“È vero, abbiamo lavorato sodo!” risposero in coro gli animali pieni di sé sorridendo.
“Chi di voi è così gentile da cogliere qualche bel fiore per me?” chiese la Principessa.
Il Leone si fece avanti.
“Io ho dato tutte le istruzioni, perciò tocca a me!”
“Però io ho arato la terra!” protestò l’ippopotamo.
“E io ho fatto i buchi per i semi!” aggiunse il Porcospino.
“E io ho piantato i semi!” fece la Cavalletta.
“Io ho innaffiato!” disse l’Elefante.
“Mentre io facevo la guardia!” sottolineò la Giraffa.

La Principessa sorrise.

“Chi ha tolto le erbacce?” chiese.
Tutti rimasero zitti, poi:
“Nessuno!” disse il Leone.
In quel momento la Principessa scorse due occhietti brillanti e un sottile becco che faceva capolino tra le foglie di un albero.
“L’hai fatto tu questo lavoro, Uccellino Marrone?” e l’uccellino annui.
“Allora tu coglierai i fiori per me, perché il tuo è stato il lavoro più duro e più lungo!”
L’Uccellino Marrone volò giù verso il giardino; poi con il becco sottile colse con garbo il più bel fiore e l’offrì alla Principessa.
Ne colse un altro e un altro ancora fino a mettere insieme un bel mazzolino variegato.
La Principessa baciò la sua testolina marrone e gli sorrise.
Allora l’Uccellino Marrone cantò come non aveva mai fatto prima finché il sole tramontò nel bel giardino degli animali.

Brano tratto dal libro “365 storie per l’anima.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Il bambino che spostò un armadio con un dito

Il bambino che spostò un armadio con un dito

Seduto e in silenzio, Gesù guardava con tenerezza un bambino che cercava di spostare un grosso armadio, molto pesante, di casa sua.
Spingeva da un lato, poi spingeva da un altro, sbuffando e stringendo i denti, ma niente… il grosso armadio non si spostava neanche di un millimetro.
Il bambino voleva spostare l’armadio per fare contenti i suoi genitori.
Loro avevano molto bisogno di spostare l’armadio, ma non trovavano mai il tempo e la voglia di farlo.
Certo, poveretti, tornavano a casa sempre stanchi del lavoro!

Questo il bambino lo capiva.

Quello che non capiva era perché litigavano sempre per colpa di quell’armadio.
La mamma rimproverava il papà di non fare assolutamente nulla per spostarlo.
Il papà accusava la mamma di non volere togliere tutta la roba che era dentro l’armadio per renderlo più leggero e permettergli di spostarlo.
In casa c’era sempre tensione e sembrava che andasse sempre peggio.
Così il bambino si sforzava di spostare l’armadio, e ci provava in tutti i modi.
Niente!
L’armadio era sempre al suo posto.
Il bambino era tutto sudato e anche molto stanco.
Ci aveva messo tutta la sua forza.
“Hai usato proprio tutte le tue forze?” gli chiese Gesù con un tono di voce molto delicato.
“Si!” rispose il bambino, cercando di riprendere fiato.
“Non mi sembra,” ribatté Gesù, “anzi, direi proprio di no…

Pensaci bene.

Hai fatto proprio tutto quello che potevi fare per spostarlo?”
“Si!” rispose deluso e convinto il bambino.
“Guarda che non hai ancora usato la tua forza più grande!” disse Gesù con un bellissimo sorriso.
“Quale forza?” domandò il bambino con gli occhi spalancati per la meraviglia.
“Non mi hai chiesto di aiutarti.” disse dolcemente Gesù, “Io sono la tua forza più grande!”
Il bambino cominciò a pregare, e pregare, e pregare.
L’armadio non si spostò.
Ma il papà una sera, rientrando a casa, sembrava più sereno.
E, senza dire una parola, si mise a svuotare i cassetti dell’armadio.
La mamma lo vide e, dopo un po’, andò da lui dicendo:

“Aspetta che ti aiuto!”

Insieme vuotarono l’armadio cominciando a ridere di tutti gli episodi che quelle cose gli ricordavano.
Poi insieme spinsero l’armadio fuori della loro stanza da letto.
Insieme prepararono la cena, e insieme andarono a riposarsi sul divano, abbracciati l’uno all’altro.
Il bambino si tuffò felice in mezzo a loro.
Da quel giorno imparò non a spingere gli armadi, ma a spingere i suoi genitori ad andare insieme a Messa la domenica, perché anche loro potessero ricevere la forza di Gesù.
Passò ancora un po’ di tempo.
I genitori ed il bambino cominciarono a sentire il bisogno e il gusto di pregare insieme.
Ci si sentiva un po’ strani all’inizio su quel divano con la televisione spenta, ma poi era diventato il momento più bello della giornata.
Ci si sentiva uno dentro l’altro.
Ci si sentiva stanchi ma contenti, in una semplice e dolce pace.
Una colomba aveva preso l’abitudine di posarsi sul davanzale della loro finestra proprio mentre pregavano, chissà perché…
E fu così che, dopo qualche anno, in quella casa, gli armadi si spostavano con un solo dito.

Brano senza Autore

Le castagne nei ricci

Le castagne nei ricci

C’erano una volta due fratelli che vivevano in campagna con la loro famiglia.
Il più grande un giorno decise di andare a raccogliere delle castagne.
Arrivato nel bosco sotto gli alberi di castagno iniziò a vedere i primi ricci contenenti questo frutto prelibato.
Contò tre castagne in un riccio e dopo essersi messo i guanti per non pungersi, aprì la sua busta in tela ed iniziò a riempirla con i ricci di castagna.

Alla fine del pomeriggio, prima di rientrare a casa contò di aver raccolto 200 ricci.

Appena rientrato a casa invitò tutti i suoi amici per la sera, per far loro assaggiare le sue castagne.
Prima che la serata iniziasse, chiese aiuto al fratello minore per sgusciare i ricci, aprire le castagne e metterle sul fuoco, mentre lui preparava la serata.
Il fratello più piccolo in poco meno di 30 minuti preparò tutte le castagne e iniziò a cucinarle.
Quando gli amici del fratello più grande iniziarono ad arrivare, il più piccolo era seduto di fronte al camino che cuoceva sulla brace le castagne, usando una grande padella.
Appena pronte, le servì agli amici che nel frattempo erano tutti arrivati.

C’erano più di 20 persone sedute intorno al tavolo:

le castagne terminarono in pochissimi minuti, prima di quanto il fratello maggiore avesse previsto.
“Che cosa hai combinato con tutte le castagne che ti ho portato?” esclamò arrabbiato il fratello grande verso il più piccolo.
“Le ho preparate tutte, come mi hai chiesto!” rispose.
“Non è possibile!” esclamò il primo.
“Erano oltre 600 castagne! Siamo in 20.
Avrebbero dovuto esserci almeno 30 castagne per ognuno, invece sono finite subito.
E io nemmeno le ho assaggiate!”

Il più piccolo ribatté spazientito:

“Come fai a dire che mi hai portato 600 castagne? Io ne ho contate meno di 200.”
“Non è possibile!” replicò il fratello maggiore “Ho aperto un riccio e c’erano ben 3 castagne!”
Il più piccolo sorrise e rispose:
“Se tu avessi aperto anche gli altri 199 ricci ti saresti accorto che solo pochissimi contenevano 3 castagne; qualcuno conteneva 2 castagne; la maggior parte ne conteneva solo una; c’erano anche ricci vuoti e altri che contenevano una castagna marcia!”
Il maggiore dei due fratelli rimase a bocca aperta, riflettendo sul suo errore, cercando le parole da rivolgere ai suoi invitati delusi, per scusarsi con loro.

Brano senza Autore, tratto dal Web

Il ritorno della memoria

Il ritorno della memoria

Un contadino facendo grandi sacrifici riuscì a mandare il suo unico figlio a studiare in una lontana città.
Il ragazzo, dopo alcuni anni, tornò con fare e modi fin troppo urbani, ignorando volutamente usi, costumi e termini agricoli.
Un giorno il padre lo invitò a collaborare all’orto di casa, ma alla richiesta di prendere zappa e vanga si sentì rispondere cosa fossero,

esasperando così il padre.

Lo studente, mentre stava aiutando il padre, calpestò in maniera maldestra il rastrello e questo in automatico si alzò.
Il ragazzo venne colpito dal manico del rastrello sulla fronte, provocandosi un evidente ematoma che gli fece imprecare:

“Maledetto rastrello!”

Il padre replicò felice:
“Mi dispiace molto per la botta in testa, ma mi rallegro perché in questo modo ti è tornata la memoria!”

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno