L’importante è volersi bene e… dirselo

L’importante è volersi bene e… dirselo

“Stai dritto con la schiena.
Quante volte te lo devo dire?” disse il papà.
“Muoviti o facciamo notte!” gli disse la mamma.
“E piantala di far domande su tutto: sei stressante!” gli disse la sorella.
“Guarda come hai ridotto lo zainetto!
Se lo dovessi pagare tu…” continuò la mamma.
“Sei un mentecatto!” continuò la sorella.
Matteo credeva di essersi abituato alle parole che scandivano le sue giornate.
Si svegliava di solito al suono di:
“Sbrigati, sei in ritardo, lavati bene, hai messo tutto nello zaino?
Ma quanto sei imbranato!”

Finiva le giornate al suono di:

“Hai gli occhi che ti cadono nel piatto: ora te ne vai a dormire e non far storie come tutte le sere!
Quanto hai preso in italiano?
E spegni subito la luce!”
Ma quel giorno tutto prese una cattiva piega.
Alessandro, il suo migliore amico, gli aveva buttato in faccia:
“Ma sei diventato scemo?”
Che poi significa:
“Ti stai comportando come uno scemo!”
Titti, la maestra, l’aveva definito un “poltronaccio” e, durante la partita, Walter l’aveva chiamato “schiappa”.
Così quella sera due grossi lacrimoni gli scesero lungo le guance e finirono nel purè.
“Uh, ué, la lagna…” fece la sorella.
Matteo corse nella sua cameretta e si buttò sul letto.
Almeno lì poteva singhiozzare in pace.
Un discreto picchiettare alla finestra attirò la sua attenzione.
Corse a vedere e si trovò di fronte una creatura stranissima, ma piacevolissima.
Non si capiva bene come era fatta, ma tutto in lei era soffice, morbido, luminoso, sorridente e carezzevole.

“Chi sei?” domandò Matteo.

La risposta sbocciò come un trillo di campanelli, dolce come biscotti e Nutella:
“Sono un coccolone…
E ho visto che hai bisogno di noi.
Dammi la mano e vieni con me.”
Matteo si mosse come in un sogno.
La morbida creatura lo prese per mano e lo fece volare oltre la finestra nel cielo.
“Dove mi porti?” chiese Matteo.
“Nel paese dei coccoloni!” rispose la strana creatura.
“Dov’è?” ribadì il piccolo.
Dopo un volo leggero attraversarono tutti i colori dell’arcobaleno, che hanno un gusto squisito (il verde è alla menta, l’arancione sa di aranciata, l’indaco è tamarindo e così via), atterrarono in un paese fiorito e pieno di allegria.
Matteo vide che c’erano i bambini coccoloni, i nonni coccoloni e perfino i maestri coccoloni, naturalmente nelle scuole coccolone.

I bambini coccoloni furono i primi ad invitarlo a giocare.

Matteo ci si mise d’impegno, anche perché l’atmosfera era piacevole e amichevole.
E decisamente diversa da quella a cui era abituato.
Quando qualcuno sbagliava, c’era sempre qualcun altro che diceva:
“Coraggio. La prossima volta andrà meglio.”
E quando Matteo riuscì a fare gol, perfino il portiere avversario gli disse:
“Bravo!”
Matteo, invece di esultare, constatò amaramente che probabilmente quello era il primo “bravo” della sua vita.
Dopo la partita, i suoi nuovi amici coccoloni fecero a gara per invitarlo nelle loro case.
Matteo accettò l’invito del portiere avversario, quello che gli aveva detto “bravo”.
Era una famiglia come la sua:
mamma, papà, sorella e fratellino.
Solo che questi erano tutti coccoloni.

A tavola, Matteo ebbe il posto d’onore.

La mamma coccolona lo baciò e Matteo si sentì venire le lacrime agli occhi, perché era tanto tempo che la sua mamma non lo baciava più e lui non sapeva come fare a dirglielo.
“Ho anch’io una sorella più grande.” disse Matteo.
“Allora sai anche tu che cos’è una rottura,” disse il piccolo coccolone, “ma è così comoda per i compiti e per giocare-”
Tutti risero.
Poi tutti fecero il gioco “Racconta la tua giornata”.
Il papà, la mamma, la sorella e il fratellino raccontarono quello che avevano fatto, gli avvenimenti belli della loro giornata.
Matteo fu colpito soprattutto da una cosa: nella famiglia coccolona tutti si ascoltavano.
Si ascoltavano davvero, non si interrompevano a vicenda, non dicevano:
“Smettila un po’, mi fai venire il mal di testa!”
Si ascoltavano semplicemente.
Poi tutti gli occhi si puntarono su Matteo.
“E la tua giornata com’è stata?” chiese il papà coccolone.
Matteo raccontò tutto quello che aveva dentro e che fino a quel momento aveva confidato solo al cuscino.
Lo ascoltarono comprensivi.

Alla fine il papà coccolone gli disse:

“Vedi, l’importante è volersi bene e… dirselo”.
Gli diede un sacchetto di polvere rosa.
“Quando sarai a casa prova questa polverina.
Soffiane un po’ qua e là.
È la polvere coccolona!” gli spiegò.
In quel momento Matteo si svegliò.
“Che razza di sogno ho fatto!” pensò.
Ma…
Spalancò gli occhi e si rizzò a sedere sul letto.
Perché il suo pugno stringeva una manciata di polvere rosa.
“Ma allora è vero!” esclamò.
Mise la polverina dentro una scatoletta e poi si alzò:
“Voglio provare se funziona.”
Vide sul tavolo di cucina il caffè del papà.
Furtivamente fece cadere nella tazzina un pizzico di polverina.
Il papà, come al solito, era di corsa.

Bevve il caffè e poi disse soddisfatto:

“Buono!”
Questo non l’aveva mai fatto.
Anche la mamma se ne accorse.
Poi, incredibilmente, prima di uscire il papà fece una carezza affettuosa sulla testa di Matteo:
“Passa una bella giornata, ometto!
E dacci dentro a scuola perché stasera ti sfido a Scarabeo.”
“Urrà, funziona!” pensò Matteo, felice.
“Ne metterò una razione nel caffè della maestra”.

Di quanta polvere coccolona avremmo bisogno anche noi?

Brano tratto dal libro “Novena di Natale per i bambini.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

L’arcobaleno (L’affresco della vita)

L’arcobaleno (L’affresco della vita)

Nella nostra vita non c’è niente di preconfezionato, ogni cosa ce la dobbiamo costruire con i vari colori che formano la realtà.
Il bianco è il colore principale che servirà come base.
È la quotidianità, il voler costruire, giorno dopo giorno, pezzo dopo pezzo, la tua vita, che è unica e insostituibile.
Poi c’è il rosso che ci ricorda il sangue, la lotta, la passione, la sofferenza, i sacrifici…

Sì, lo so, che quest’ultima parola non va di moda, ma è comunque essenziale.

L’arancione che rappresenta la capacità di rinnovarsi, di affrontare le cose in modo nuovo, vincendo la noia e la ripetitività di ogni giorno.
Il giallo è il colore del successo, del benessere del pane abbondante che ci viene donato ogni giorno.
Poi c’è il verde, il colore della natura, della speranza, dei passaggi, dell’attesa, della risurrezione… della vita.
Ecco l’azzurro, che ricorda il cielo, la serenità, la gioia, la condivisione…

l’allegria dello stare insieme agli altri.

Segue l’indaco, un tipo di blu più intenso, noto anche come colore della mezzanotte, utile per la meditazione e la spiritualità, è un colore con effetto rilassante
Il viola è il colore della riflessione, del silenzio, della meditazione… del trovare noi stessi.
Ecco, prendi tutti questi colori e con essi vedi di dipingere l’affresco della tua vita.
Non pensare che sarà un lavoro semplice e nemmeno che te la caverai facilmente.

L’affresco finirà solo con la tua vita:

ma è nella sapiente combinazione di questi colori che troverai ciò che hai sempre desiderato.
Come in natura i colori si uniscono formando un unico arcobaleno, così il Dio della vita, fedele alle sue promesse dell’alleanza, ci invita a divenire uno insieme a Lui, armonizzando le nostre ricchezze, i nostri doni, le nostre diversità ed il nostro carisma.
Questo è l’affresco che siamo chiamati a dipingere.

Brano senza Autore

La leggenda delle castagne

La leggenda delle castagne

Un montanaro, durante una pausa, si stava riposando ai piedi di un maestoso e secolare albero, lamentandosi con il buon Dio del poco sostentamento che aveva a disposizione.
Riusciva a sopravvivere solo grazie ai prodotti del pascolo, latte e formaggi, ottimi ma monotoni.

Durante l’estate arricchiva la sua dieta con bacche e funghi.

Inoltre raccoglieva fin troppa legna da ardere, ma non sapeva come impiegarla, dato il poco da cuocere in suo possesso.
Si lamentava, inoltre, del fatto che in pianura avessero messi, ortaggi e frutta, non dovendo neanche sforzarsi per affrontare lunghe camminate o ripide pendenze e del fatto che avessero stagioni dal clima più temperato.
Mentre continuava a lagnarsi a voce alta per la vistosa differenza di vita toccatagli, gli cadde in testa una cosa spinosa e rotonda, mai vista prima.
Dopo aver imprecato per il dolore, si alzò e diede un violento calcio alla cosa spinosa per allontanarla.
Meraviglia delle meraviglie, il riccio spinoso si aprì e ne uscirono tre frutti tondeggianti.

Il montanaro, non sapendo comunque cosa fossero, li assaggiò.

Risultarono commestibili e, per questa ragione, provò anche a cucinarli.
Nel frattempo, il montanaro, diede un nome all’albero e ai suoi frutti, chiamandoli rispettivamente castagno e castagne.
Le castagne bollite o arrosto erano veramente saporite, anche senza alcun condimento.

Inoltre saziavano ed erano nutrienti, soprattutto durante i lunghi e rigidi inverni.

L’albero si mostrò molto generoso di frutti e poco bisognoso di cure.
Anche le api iniziarono ad impollinare i fiori di questo albero, producendo, così, il rinomato miele.
Le castagne furono apprezzate da tutti e barattate con i prodotti della campagna.
E fu così che il buon Dio, che tutto vede e a tutti provvede, prese in “castagna” il brontolone montanaro donandogli, a sorpresa, il provvidenziale “pane della montagna”.

Togliere le castagne dal fuoco e mangiarle induce allegria in ogni cuore, che sia quello di un bambino o quello di un adulto, soprattutto se accompagnate da un buon vino, sempre in lieta e festosa compagnia.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Il sogno di Rodolfo

Il sogno di Rodolfo

Anticamente, quando i genitori volevano inculcare nei figli l’idea che l’uomo, fin dall’infanzia, deve battere le vie della santità, senza lasciare le questioni della religione per la vecchiaia, erano soliti raccontare loro delle storie, come questa.
Il giovane Rodolfo, uomo forte e sano, di bell’aspetto, non immaginava che sarebbe un giorno morto o, per lo meno, pensava questo gli sarebbe accaduto dopo molti e molti anni.
In un freddo pomeriggio di ottobre del 1321, egli si inoltrò in una folta foresta, durante una passeggiata.
Ormai all’imbrunire, avvistò tra gli alberi qualcosa che gli sembrava una parete.
Stanco, si avvicinò e vide che era un’antica cappella abbandonata.
Entrò.

Tutto era in rovina:

vetrate rotte, banchi capovolti, polvere accumulata, pipistrelli, ecc.
Per lo meno, pensò, ci sono le pareti ed un tetto, è meglio che niente.
Unendo alcuni banchi, improvvisò dunque un letto e, esausto com’era, si addormentò in un baleno.
A notte fonda fu svegliato da un suono di campane.
Estremamente sorpreso, si sfregò bene gli occhi, non riuscendo a credere a quello che vedeva:
la piccola cappella era illuminata e piena di fedeli.
Sull’altare, un sacerdote stava celebrando la Messa.
Vicino al presbiterio, c’era una bara.
Era dunque una Messa funebre, concluse.
“Mi scusi, signora, ma in memoria di chi è celebrata questa Messa?” chiese.
“Allora non sa chi è morto?
È uno che si è perso in questa foresta, mentre faceva una passeggiata ed è stato trovato morto oggi…

Rodolfo ebbe un sussulto.

Con uno strano presentimento, volle sapere chi fosse quel giovane.
Si avvicinò alla bara, sollevò il velo che copriva il volto del defunto e… sentì un terribile brivido lungo la schiena.
Il morto era lui!
Era ormai invecchiato, certamente, ma non c’era alcun dubbio che era proprio lui quello che si trovava nella bara.
Lanciò un grido di spavento e… si svegliò.
Comprese allora che quel terribile sogno era un avvertimento del cielo: egli sarebbe morto esattamente di lì a 50 anni.
Uscì dalla chiesa e ritornò nella bella casa della sua agiata famiglia, dove era in corso una magnifica festa.
In mezzo all’allegria e ai divertimenti, pensò:
“50 anni è molto tempo.
Vuoi sapere una cosa?

Farò una ripartizione intelligente:

nei primi 25 anni, mi godrò la vita e nei 25 seguenti mi preparerò seriamente alla morte.
Trascorse così 25 anni in divertimenti, viaggi, feste, gite e continua allegria.
Ma… passarono molto rapidamente!
Allora, il Conte decise:
“Guarda, guarda, 25 anni è troppo tempo per prepararsi alla morte, così, i prossimi 15 anni saranno un prolungamento dei 25 anni che sono già passati.
Quando ne mancheranno solo 10, allora sì, mi preparerò seriamente!”
E così accadde… furono altri 15 anni di piaceri, che trascorsero più rapidamente dei 25 anni precedenti.
Ad ogni scadenza, il Conte faceva una nuova “ripartizione intelligente” del tempo restante, giungendo in questo modo, al suo ultimo mese di vita.
Un mese soltanto!
Era, dunque, necessario congedarsi da parenti e amici.
Mandò una lettera a tutti gli amici, invitandoli ad una grande festa.
Dopo 25 giorni, erano tutti riuniti nella sua villa.
Furono tre giorni d’intensa commemorazione.

Gli restavano ora soltanto due giorni!

“Non posso lasciar partire i miei ospiti senza un banchetto di commiato!” pensò il Conte fissando un monumentale pranzo per il 25 ottobre, suo ultimo giorno di vita!
Dopo la festicciola, sentì la necessità di riposare un poco, per poter allora fare una buona confessione.
Mentre era a letto, sentì le prime avvisaglie della morte imminente, chiamò un domestico e, con voce da oltre tomba, lo mandò a chiamare in gran fretta un prete.
Il fedele servitore corse al villaggio vicino, alla ricerca del Parroco.
Nel frattempo Rodolfo, che aveva sprecato i 50 anni di tempo che aveva per prepararsi, cominciò a vedere figure che si muovevano intorno al suo letto, come fossero in attesa del momento di condurlo all’aldilà.
Ansimante, osservava l’ampollina del tempo che stava ormai esaurendosi.
Mancavano appena cinque minuti alla mezzanotte, ed egli udì il rumore del carro che si approssimava, con il prete.

Troppo tardi!

Prima che entrasse il sacerdote, scoccò il primo rintocco delle campane, che annunciavano il nuovo giorno!
Disperato, Rodolfo emise un terribile urlo e… si svegliò veramente.
Con grande sollievo, si rese conto di trovarsi davanti al crocifisso arrugginito della cappella in rovina nel mezzo della foresta, dov’era entrato a riposare poche ore prima.
Non si era trattato che di un sogno.
Ma non di un semplice sogno, no!
Perché il giovane Rodolfo prese sul serio il misericordioso avvertimento.
Da quel momento in poi, seguì con determinazione il cammino della virtù.
Facendo un esame di coscienza quotidiano e la confessione frequente, si mantenne sempre preparato per l’ultimo e più importante giorno della sua vita:
quello del suo incontro con Dio.

Brano senza Autore.

Il volto di Cristo

Il volto di Cristo

In Sicilia, il monaco Epifanio un giorno scoprì in sé un dono del Signore:
sapeva dipingere bellissime icone.
Voleva dipingerne una che fosse il suo capolavoro:
voleva ritrarre il volto di Cristo.
Ma dove trovare un modello adatto che esprimesse insieme sofferenza e gioia, morte e risurrezione, divinità e umanità?

Epifanio non si dette più pace:

si mise in viaggio; percorse l’Europa scrutando ogni volto.
Nulla.
Il volto adatto per rappresentare Cristo non c’era.
Una sera si addormentò ripetendo le parole del salmo:
“Il tuo volto, Signore, io cerco.
Non nascondermi il tuo volto!”

Fece un sogno:

un angelo lo riportava dalle persone incontrate e gli indicava un particolare che rendeva quel volto simile a quello di Cristo:
la gioia di una giovane sposa, l’innocenza di un bambino, la forza di un contadino, la sofferenza di un malato, la paura di un condannato, la bontà di una madre, lo sgomento di un orfano, la severità di un giudice, l’allegria di un giullare, la misericordia di un confessore, il volto bendato di un lebbroso.

Epifanio tornò al suo convento e si mise al lavoro.

Dopo un anno l’icona di Cristo era pronta e la presentò all’abate e ai confratelli, che rimasero attoniti e piombarono in ginocchio.
Il volto di Cristo era meraviglioso, commovente, scrutava nell’intimo e interrogava.
Invano chiesero a Epifanio chi gli era servito da modello.
Non cercare il Cristo nel volto di un solo uomo, ma cerca in ogni uomo un frammento del volto di Cristo.

Brano tratto dal libro “A volte basta un Raggio di Sole.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Scherzo in fabbrica

Scherzo in fabbrica

Qualche anno fa gli operai entravano in fabbrica per lavorare prestissimo.
Tantissimi ragazzi giovani portavano allegria nonostante operassero su complicati macchinari e nelle catene di montaggio.
Anche in questo ambito abbiamo fatto la nostra piccola rivoluzione del 1968, insieme agli studenti, che ha portato tantissimi cambiamenti.
Cose che ora vengono date per scontate, come la settimana ridotta, le ferie, i diritti ed i rappresentanti sindacali.

Ora, la fabbrica dicono sia anonima, con lavoratori che competono con i robot.

In quel periodo lavoravo allo stampaggio di un particolare per scarponi da sci.
Il numero di pezzi da fare era 250 in 8 ore, ed i ritagli di tempo libero li impegnavo a fare schizzi ed a comporre qualche poesiola.
I sindacalisti spesso portavano moltissimi pacchetti di fogli propagandistici di scioperi o altro che finito il loro scopo, io recuperavo per il retro immacolato e ne facevo buona scorta dentro il mio tavolo di lavoro.
Un giorno decisi di prendere un pacchetto di fogli di qualche anno prima con su scritto

“Giovedì sciopero per il Mezzogiorno!”

e li misi nell’apposito spazio dove venivano distribuiti per vedere cosa succedesse.
Il giovedì seguente, tre quarti degli operai della fabbrica rimase a casa essendo sia giorno di mercato sia giorno utile per cercar funghi, dato che proprio in quel periodo abbondavano.

Quando al venerdì incrociai il direttore, temevo il peggio, ma questi mi disse solamente:

“Bravo, ci hai risolto un problema perché abbiamo un calo di lavoro per qualche giorno.
La pausa non remunerata è stata utile ma non fare più di questi scherzi nemmeno a carnevale!”

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

La pace verrà… se…

La pace verrà… se…
La pace verrà… se…

… tu credi che un sorriso è più forte di un’arma.
… tu credi alla forza di una mano tesa.
… tu credi che ciò che riunisce gli uomini è più importante di ciò che li divide.
… tu credi che essere diversi è una ricchezza e non un pericolo.
… tu sai scegliere tra la speranza o il timore.
… tu pensi che sei tu che devi fare il primo passo piuttosto che l’altro, allora …

La pace verrà… se…

… lo sguardo di un bambino disarma ancora il tuo cuore.
… tu sai gioire della gioia del tuo vicino.
… l’ingiustizia che colpisce gli altri ti rivolta come quella che subisci tu.
… per te lo straniero che incontri è un fratello.
… tu sai donare gratuitamente un po’ del tuo tempo per amore.
… tu sai accettare che un altro ti renda un servizio.
… tu dividi il tuo pane e sai aggiungere ad esso un pezzo del tuo cuore, allora …

La pace verrà… se…

… tu credi che il perdono ha più valore della vendetta.
… tu sai cantare la gioia degli altri e dividere la loro allegria.
… tu sai accogliere il misero che ti fa perdere tempo e guardarlo con dolcezza.
… tu sai accogliere e accettare un fare diverso dal tuo.
… tu credi che la pace è possibile, allora …

La pace verrà!

Poesia di Charles de Foucauld

A volte dimentichiamo…

A volte dimentichiamo…

A volte dimentichiamo la nostra importanza.
A volte dimentichiamo che se siamo qui, su questa terra, c’è una ragione, perché tutto ha motivo di essere; dalla forma di vita più piccola ed immobile a quella più maestosa e preponderante.
A volte dimentichiamo che la nostra vita è fatta per entrare in contatto con quella degli altri e che, attraverso gli altri, essa si evolve, cambia, si “aggiusta” per il futuro.
Quando ci sentiamo vuoti, insensati e senza speranza pensiamo a quanto la nostra vita potrebbe essere diversa se, invece di chiuderci come gabbie intorno alla nostra anima, la lasciassimo libera di portare felicità a chi incontra.
Quello che dimentichiamo più spesso è che abbiamo il diritto di essere felici ma anche il dovere di portare felicità al mondo.

Guardati intorno:

non vedi quanto bisogno c’è di portare felicità?
Tutti sono chiusi nel loro pessimismo, nei loro problemi e sono tristi, chiedendosi che senso ha la vita.
Ma tu, tu puoi dare un senso supremo alla vita, puoi scegliere di portare felicità.
Un sorriso, un gesto gentile, l’allegria e la positività di un pensiero fresco e travolgente.
Cosa ci guadagna il mondo ad esser pieno di gente che tristemente pensa solo a se stessa, ai propri problemi e vede tutto negativo?

Cosa ci guadagni tu?

Non si fa altro che generare brutti pensieri, che generano brutte azioni, che generano rassegnazione ed immobilismo.
Portare felicità al mondo, portare felicità agli altri esseri viventi, non fa altro che portare felicità anche a te stesso.
Portare felicità, con piccoli gesti, pensieri o parole positive che danno speranza, crea energia nuova e buona per il futuro.
Perché se tutti ci ricordassimo di portare felicità e positività in ogni nostro giorno, il mondo sarebbe ben diverso da come è adesso, molte persone sarebbero diverse…

sarebbero felici!

Fai dunque in modo di portare felicità; dissemina nel mondo e nel cuore della gente la “follia” dell’allegria e della positività!
“Non c’è un dovere che sottovalutiamo più del dovere di essere felici.
Quando siamo felici, seminiamo anonimi benefici sul mondo, che restano sconosciuti anche a noi stessi o, se rivelati, sorprendono più di tutti il loro benefattore.”

Brano di Robert Louis Stevenson

L’aquilone

L’aquilone

Un padre mette sempre a disposizione la sua allegria, la sua inventiva, la sua esperienza per trascorrere dei bei momenti con i propri figli.
Questo è un dono talmente meraviglioso che ogni gioco e ogni attività si trasformano per i ragazzi in appassionanti avventure.
L’aquilone, che con cannucce, carta da pacchi e colla il padre confeziona per i bambini, quando si libra nel cielo può quasi sembrare il simbolo di una situazione magica di rapporti fra padre e figli.

Uno Scoglio d’Isola rappresentò per varie estati la realizzazione dei nostri sogni di ragazzi, quando dall’obbligo e dalla fatica della scuola la nostra immaginazione correva alla libertà delle vacanze.

Ma una di quelle estati, tutte belle, fu per noi specialmente splendida:

l’estate in cui nostro padre, che di solito stava con noi per pochi giorni, decise di prendersi anche lui una vacanza completa.
Diventava un nostro compagno maggiore, la nostra guida; noi ci affidavamo a lui, come una vela s’affida al vento favorevole, come una squadra s’affida al suo capo geniale.
La casetta in cui abitavamo, si trasformava in certi giorni in una officina; i campi delle nostre gesta erano il gran prato sopra lo scoglio e lo specchio di mare davanti ad esso.
Un giorno papà veniva a casa con un mazzo di canne palustri e da queste, con arte, egli ricavava per noi fischietti, piccoli zufoli e schizzetti:
per una settimana, con disperazione della mamma, noi assordavamo l’aria di fischi e nessun passaggio all’aperto era più al sicuro dai nostri spruzzi.
Un altro giorno vedevamo papà manipolare misteriosamente ogni sorta di stracci; noi eravamo stati sguinzagliati a procurargliene e non gli bastavano mai:
ne venne fuori, con nostra gioia e sorpresa, una bella palla vibrata, cucita solidamente, con un forte manico di stoffa.

Non appena il sole declinava un poco, eravamo sul prato,

divisi in due squadre opposte, a lanciarci la palla e a farci sotto per afferrarla a volo; e che urti, certe volte, da stramazzare a terra!
I primi giorni, nell’entusiasmo, il sole tramontava e noi eravamo ancora sudati e pesti ad accanirci nel gioco, senza neppure udire i ripetuti richiami che ci invitavano a rientrare in casa per la cena.
Quell’anno delle meraviglie fu anche Panno delle nasse.
Papà, che era andato a Trieste, tornò una sera con due strane gabbie di fil di ferro lucido; noi, andati a prenderlo al vaporetto, gli saltammo intorno inebriati dalla novità e dietro a noi gli altri ragazzi dell’isola, curiosi di vedere e di toccare quelle belle nasse (antichi attrezzi da pesca), fiammeggianti, di tipo tanto diverso dalle vecchie di vimini a cui erano abituati.
Il giorno dopo, visto il tramonto, prese tutte le precauzioni e determinato ben bene il posto davanti allo Scoglio, dalla barca calammo a fondo le nasse.
Quella notte non dormimmo, nell’attesa dell’alba, per tirarle di nuovo su.
Fu veramente un entusiasmo di gioia quando, nel risollevarle a bordo, vedemmo dentro quelle gabbie dibattersi un mucchio di pesci fra i quali molte bellissime varietà di sarago ed un’orata di un quarto di chilo.

Ma il divertimento delle nasse durò ben poco.

Un brutto giorno, cerca e ricerca, perdemmo due ore a scandagliare il fondo inutilmente:
le nasse, che facevano troppa gola anche ai pescatori, ci erano state rubate.
A consolare il nostro dolore venne presto un’altra trovata di nostro padre.
Una mattina lo vedemmo davanti la casa, affaccendato con grandi fogli di carta d’impacco, con lunghe stecche ricavate da canne con barattoli di colla, di farina, con gomitoli di spago.
Fu una giornata indimenticabile; il lavoro durò ininterrotto per ore ed ore.
Il risultato fu un aquilone spettacolare, robusto come un aeroplano, con una coda lunghissima e, per reggerlo, un gomitolo di spago sforzino che non ci stava nelle mani.
Trasportammo il drago sul prato, come un trofeo.
I nostri cuori battevano, quando papà ci dette tutte le istruzioni per il via.
Noi dovevamo sollevare quel drago enorme quanto più in alto potessimo, reggergli la lunghissima coda e, a un suo ordine, mollare tutto,
Lui, che teneva il grosso gomitolo dello spago, dopo aver spiato il vento prese a un tratto la rincorsa in direzione opposta e ci gridò di mollare.
Trepidanti seguimmo il mostro, che barcollò, poi trasportato dal vento, cominciò a salire, salire e ad allontanarsi nel cielo.
Fra lo stupore commosso di tutti noi, si levò più su del campanile.
Lo vedevamo piccolo come un falchetto, superbo nel volo, e il filo vibrava e noi facevamo fatica a trattenerlo.
Il nostro aquilone fu per parecchi giorni la meraviglia d’Isola e tutti venivano sullo Scoglio a vederlo.

Brano di Giani Stuparich

Il volo di Gea

Il volo di Gea

L’uccellino cinguettava “ciu ciiiiuciu ciu” e i clienti del bar del Signor Antonio entravano volentieri a prendere un caffè nella terrazza per ascoltare il suo canto delicato e trillante come tanti campanellini.
La sua voce argentina sembrava intonare un canto allegro e spensierato per la gioia dei clienti del bar che lo ascoltavano distratti e non vedevano la tristezza e la solitudine nei suoi piccoli occhi di uccellino.
Lui invece cantava ma non di allegria, il suo canto aveva parole tristi e malinconiche che gli ricordavano la sensazione del vento tra le piume delle ali e lo spettacolo magnifico delle chiome degli alberi viste da lassù, volando.

Mentre cantava riusciva a non pensare alle sbarre della gabbietta e alla noia delle giornate che si ripetevano monotone.

Un giorno però successe qualcosa, una bambina entrando nel bar per comprare un gelato ascoltò il suo canto e si sentì improvvisamente triste senza sapere bene il perché.
Allora guardò negli occhi il piccolo uccellino, si accorse che la tristezza veniva proprio da quel canto e si avvicinò alla gabbia.
“Perché sei triste?” sussurrò la bimba.
“Ciu ciiiu ciu!” trillò l’uccellino.
Gea, così si chiamava la bambina, aveva un segreto per capire gli altri anche quando le parole non erano d’aiuto:
si immaginava di essere al loro posto, si metteva nei panni degli altri per capire le loro emozioni.
E così fece, si immaginò di vivere chiusa in una piccola gabbia senza poter correre e giocare con gli amici.
Chiuse gli occhi per concentrarsi e all’improvviso sentì un formicolio alle gambe, come quando stava molto tempo nella stessa posizione:

“Forse è proprio quello che sente quest’uccellino:

di certo gli formicolano le ali per non poterle aprire e forse è triste perché non è libero di volare come gli altri uccelli”, pensò.
Per un momento le sembrò quasi che le fossero spuntate le ali e sentì un forte desiderio di volare in alto nel cielo.
Senza pensarci due volte Gea aprì la piccola gabbia sperando che nessuno la vedesse e l’uccellino la guardò cercando di capire perché quella bambina gli aveva dato la libertà.
Avrebbe voluto dimostrarle la sua gratitudine ma non sapeva come fare, allora fece un ultimo cinguettio di addio e seguì il suo istinto che gli diceva di aprire le ali e volare via.
I clienti del bar senza capire cosa fosse successo si fermarono un istante,

fu una frazione di secondo in cui sembrava che il tempo si fosse fermato.

Nessun cucchiaino suonava contro il bordo della tazza, i ragazzi che scherzavano interruppero le loro risate e persino i cellulari per un attimo smisero di suonare.
In silenzio Gea usci dal bar mangiando il suo gelato e si ritrovò a camminare per strada con lo sguardo rivolto verso il cielo, cercando distrattamente quell’uccellino dallo sguardo triste.
All’improvviso cominciò a sentire il fruscio del vento tra le dita, l’aria fresca le accarezza il viso e il rumore del traffico si sentiva in lontananza, ovattato.
Chiuse gli occhi per assaporare quella sensazione di libertà e, con gli occhi chiusi, vide la città dall’alto, il porto con le barche dei pescatori e le colline alle spalle.
Capi che era il regalo d’addio dell’uccellino, il suo modo di dirle grazie:
stava volando con lui e osservando il mondo con i suoi occhi.

Brano tratto dal libro “Chi ha paura del lupo?” di Viola Mariani