L’aragosta

L’aragosta

Tanto tempo fa, quando il mondo era stato creato da poco, una certa aragosta decise che il Creatore aveva fatto un errore.
Così fissò un appuntamento per discutere con Lui la questione.
“Con tutto il dovuto rispetto,” disse l’aragosta “vorrei protestare per il modo in cui hai disegnato il mio guscio.
Vedi, non appena mi abituo al mio rivestimento esterno, ecco che devo abbandonarlo per un altro scomodo, e oltretutto è una perdita di tempo!”
Al che il Creatore replicò:
“Capisco, ma ti rendi conto che è proprio il lasciare un guscio che ti permette di andare a crescere dentro un altro?”
“Ma io mi piaccio così come sono!” esclamò l’aragosta.
“Hai proprio deciso così?” chiese il Creatore.

“Certo!” rispose l’aragosta.

“Molto bene,” sorrise il Creatore “da ora in poi il tuo guscio non cambierà e tu continuerai ad essere così come sei ora!”
“Molto gentile da parte Tua.” disse l’aragosta e se ne andò.
L’aragosta era molto contenta di poter continuare ad indossare lo stesso vecchio guscio, ma giorno dopo giorno quel che prima era una leggera e confortevole protezione cominciò a diventare ingombrante e scomoda.
Alla fine arrivò al punto di non riuscire neanche più a respirare dentro al vecchio guscio.
Allora, con un grosso sforzo, tornò a parlare al Creatore.
“Con tutto il rispetto,” sospirò l’aragosta “contrariamente a quello che mi avevi promesso, il mio guscio non è rimasto lo stesso.
Continua a restringersi sempre di più!”
“No di certo,” disse il Creatore “il tuo guscio potrà essere diventato più duro col passare del tempo ma è rimasto della stessa misura.

Tu sei cambiata dentro, all’interno del guscio!”

Il Creatore continuò:
“Vedi, tutto cambia continuamente.
Nessuno resta lo stesso.
E’ così che ho creato le cose.
La possibilità più interessante che tu hai è quella di poter lasciare il tuo vecchio guscio, quando cresci!”
“Ah… Capisco!” disse l’aragosta.
“Ma devi ammettere che ciò è abbastanza scomodo…”
“Si,” rispose il Creatore “ma ricorda…
Ogni crescita porta con sè la possibilità di un disagio.
Insieme alla grande gioia nello scoprire nuovi aspetti di sè stesso.

Ma non si può avere l’una senza l’altra!”

“Tutto ciò è molto saggio!” disse l’aragosta.
“Se permetti, ti dirò qualcosa ancora…” disse il Creatore.
“Te ne prego!” rispose l’aragosta.
“Ogni volta che lascerai il tuo vecchio guscio e sceglierai di crescere, costruirai una forza nuova in te.
E in questa forza troverai nuova capacità di amare te stessa e di amare coloro che ti sono accanto… di amare la vita stessa!”

Brano senza Autore, tratto dal Web

Il nuovo principe (Un granello alla volta)

Il nuovo principe
(Un granello alla volta)

In uno sperduto angolo del regno d’Etiopia, viveva un re che amava le favole più di ogni altra cosa al mondo.
Diventato vecchio, però, si annoiava perché ormai le conosceva tutte.
Così un giorno fece annunciare in tutto il Paese che avrebbe dato il titolo di principe a chiunque gli avesse saputo raccontare una favola nuova, in grado di suscitare la sua attenzione e la curiosità di conoscere il finale.
Numerosi cantastorie vennero da tutti gli angoli del reame e dai Paesi vicini, ma nessuno riuscì ad interessare le orecchie reali, sempre tristi e distratte.
Un giorno un povero contadino bussò alle porte del palazzo per raccontare al vecchio re la storia di un agricoltore che aveva ammassato nel suo granaio il raccolto più ricco della sua vita.
Ma c’era un piccolo buco nel granaio e, quando tutto il grano fu portato dentro, una formica vi entrò e portò via un chicco.

“Molto interessante, continua.” disse il re.

Il contadino proseguì:
“Il secondo giorno un’altra formica passò nel buchino e portò via un altro chicco di grano, il terzo giorno accadde la stessa cosa…”
Il re era ormai molto preso dalla storia del contadino e chiese di tagliare corto sui dettagli per sapere come andava a finire tutto quel via vai di formiche nel granaio.
“Vai avanti, non mi annoiare!” urlò il re rosso in viso.
Ma il contadino continuava.
“Basta!

Vai avanti!” ordinò il re.

Il contadino sembrava sordo e proseguiva con la sua cantilena di formiche e chicchi di grano.
Si interruppe per dire:
“Mio re, questa è la parte più importante della storia:
il granaio è ancora pieno di chicchi di grano.”

Allora il sovrano esclamò:

“Hai vinto tu!
Ho capito che bisogna saper ascoltare gli altri con pazienza e umiltà.
I racconti più belli non sono quelli che ci stupiscono con grandi eventi, ricchezze, rivoluzioni e storie d’amore impossibili.
Sono quelli che, come succede nella vita di ogni giorno, ci fanno sperare di riuscire a vedere i risultati dei nostri sforzi.”

Brano senza Autore, tratto dal Web

Ti Auguro Tempo

Ti Auguro Tempo

Non ti auguro un dono qualsiasi,
ti auguro soltanto quello che i più non hanno.
Ti auguro tempo, per divertirti e per ridere;
se lo impiegherai bene, potrai ricavarne qualcosa.
Ti auguro tempo, per il tuo fare e il tuo pensare,

non solo per te stesso, ma anche per donarlo agli altri.

Ti auguro tempo, non per affrettarti e correre,
ma tempo per essere contento.
Ti auguro tempo, non soltanto per trascorrerlo,
ti auguro tempo perché te ne resti:
tempo per stupirti e tempo per fidarti

e non soltanto per guardarlo sull’orologio.

Ti auguro tempo per contare le stelle
e tempo per crescere, per maturare.
Ti auguro tempo, per sperare nuovamente e per amare.
Non ha più senso rimandare.

Ti auguro tempo per trovare te stesso,

per vivere ogni tuo giorno, ogni tua ora come un dono.
Ti auguro tempo anche per perdonare.
Ti auguro di avere tempo,
tempo per la vita.

Poesia tratta dal libro “Dedicato a te.” di Elli Michler

La leggenda della stella alpina

La leggenda della stella alpina

Una giovane della valle aveva sposato un montanaro che, come tutti nel paese, conosceva e amava la montagna.
Saliva spesso verso i ghiacciai, per raccogliere dei profumatissimi fiori e per dare la caccia alle marmotte, delle quali vendeva poi la pelle ai viaggiatori della città.

I due sposi vivevano modestamente dei guadagni di lui, ma poiché si volevano tanto bene, erano felici come principi.

Un giorno il giovane sposo partì, come aveva fatto tante volte, per la montagna, ma non fece più ritorno.
Invano la moglie lo attese per tre giorni e tre notti: nessuno aveva più sue notizie.
Allora la povera sposa salì verso il ghiacciaio per rintracciarlo.

Esplorò tutte le cime, esaminò le valli, cercò nel fondo di tutti i crepacci e finalmente lo trovò.

Ma ahimè, giaceva morto tra due lastroni di ghiaccio!
Affranta dal dolore, la povera sposa sedette sulla sporgenza della roccia e pianse tutta la notte.
All’alba, quando il cielo cominciò a schiarire, i suoi capelli e le sue ciglia erano coperti da un velo di brina.

“Dio della montagna,” pregò la sposa,

“non ho il coraggio di staccarmi da mio marito, lasciami qui, su questa rupe, perché io possa vederlo per sempre sul suo letto di ghiaccio.”
Il Signore delle cime ebbe pietà della sposa innamorata e la trasformò nel fiore più bello di tutte le Alpi: la stella alpina!

Brano senza Autore, tratto dal Web

Ho imparato


Ho imparato

Ho imparato che nessuno è perfetto… finché non ti innamori.
Ho imparato che la vita è dura… ma io di più!
Ho imparato che le opportunità non vanno mai perse… quelle che lasci andare tu, le prende qualcun altro.
Ho imparato che quando serbi rancore e amarezza… la felicità va da un’altra parte.

Ho imparato che bisognerebbe usare sempre parole buone… perché domani forse si dovranno rimangiare.

Ho imparato che un sorriso è un modo economico per migliorare il tuo aspetto.
Ho imparato che non posso scegliere come mi sento… ma posso sempre farci qualcosa.
Ho imparato che quando tuo figlio appena nato tiene il tuo dito nel suo piccolo pugno… ti ha agganciato per la vita.
Ho imparato che bisogna godersi il viaggio e non pensare solo alla meta.
Ho imparato che è meglio dare consigli solo in due circostanze: quando sono richiesti e quando è in gioco la vita.
Ho imparato che meno tempo spreco e più cose faccio.

Ho imparato a godermi le cose!

Ho imparato ad accettare le sconfitte, le delusioni.
Ho imparato che non importa quanto sia buona una persona, ogni tanto ti ferirà. Per questo bisogna che tu la perdoni.
Ho imparato che ci vogliono anni per costruire la fiducia, e pochi secondi per distruggerla.
Ho imparato che non dobbiamo cambiare amici se comprendiamo che gli amici cambiano.
Ho imparato che le circostanze e l’ambiente hanno influenza su di noi, ma noi siamo sempre responsabili di noi stessi.

Ho imparato che la pazienza richiede molta pratica.

Ho imparato che ci sono persone che ci amano, ma semplicemente non sanno come dimostrarcelo.
Ho imparato che a volte, la persona che tu pensi ti sferrerà il colpo mortale quando cadrai, è invece una di quelle poche che ti aiuteranno ad alzarti.
Ho imparato che solo perché qualcuno non ti ama come vorresti, non significa che non ti ami con tutto se stesso.
Ho imparato che non si deve mai dire ad un bambino che i sogni sono sciocchezze, sarebbe una tragedia se lo credesse.
Ho imparato che non sempre è sufficiente essere perdonato da qualcuno, nella maggior parte dei casi sei tu a dover perdonare te stesso.
Ho imparato che non importa in quanti pezzi il tuo cuore si sia spezzato, il mondo non si ferma aspettando che lo ripari.
… E dopo tutto ciò, avrò imparato a vivere?

Brano senza Autore, tratto dal Web

Cosa ti rende felice?


Cosa ti rende felice?

Nel corso di un seminario per coppie, chiesero a una delle mogli:
“Tuo marito ti rende felice?
Ti fa davvero felice?”
In quel momento, il marito sollevò la testa, mostrando totale sicurezza.
Sapeva che la moglie avrebbe detto sì, perché non si era mai lamentata di qualcosa durante il matrimonio.
Tuttavia, la moglie rispose con un sonoro “No!”
“No, mio marito non mi rende felice!”
A questo punto il marito stava cercando la porta di uscita più vicina.
“Mio marito non mi ha reso felice e non mi rende felice!
Sono felice!”

E continuò:

“Il fatto che io sia felice o no, non dipende da lui, ma da me.
Io sono la sola dalla quale dipende la mia felicità.
Io decido di essere felice.
In ogni situazione, ogni momento della mia vita, perché se la mia felicità dipendesse da qualche cosa, persona o circostanza sulla faccia della terra, sarei in guai seri.
Tutto ciò che esiste in questa vita è in continua evoluzione:
l’essere umano, la ricchezza, il mio corpo, il tempo, la mia testa, i piaceri, gli amici, la mia salute fisica e mentale.
E così potrei citare un elenco senza fine…
Decido di essere felice!

Se la mia casa è vuota o piena: sono felice!

Se usciamo insieme o esco da sola: sono felice!
Se il mio lavoro è ben pagato o no: sono felice!
Sono sposata, ma ero felice quando ero single.
Sono contenta per me stessa.
Le altre cose, persone, momenti o situazioni io le chiamo esperienze che possono o non possono darmi momenti di gioia e di tristezza!
Quando muore qualcuno che amo, io sono una persona felice in un inevitabile momento di tristezza.
Imparo dalle esperienze passeggere e vivo quelle che sono eterne come l’amare, perdonare, aiutare, capire, accettare, confortare…

Ci sono persone che dicono:

oggi non posso essere felice perché sto male, perché non ho soldi, perché fa molto caldo, perché qualcuno mi ha insultato, perché qualcuno ha smesso di amarmi, perché non riesce a valorizzarmi, perché mio marito non è quello che mi aspettavo, perché i miei figli non mi rendono felice, perché i miei amici non mi rendono felice, perché il mio lavoro è mediocre e così via.
Io amo la vita ma non perché la mia vita è più facile di quella degli altri.
E’ che ho deciso di essere felice e io come persona sono responsabile per la mia felicità.
Quando prendo questo obbligo, lascio liberi mio marito e chiunque altro dal pesare sulle loro spalle.
La vita di tutti è molto più leggera.
Ed in questo modo ho un matrimonio felice da molti anni!”

Brano senza Autore, tratto dal Web

L’uomo che non credeva nell’amore



L’uomo che non credeva nell’amore

Voglio raccontarvi una storia molto antica su un uomo che non credeva nell’amore.
Si trattava di un uomo comune, proprio come voi e me, ma ciò che lo rendeva speciale era il suo modo di pensare:
era convinto che l’amore non esistesse.
Naturalmente l’aveva cercato a lungo, aveva osservato le persone intorno a sé, trascorrendo gran parte della vita in cerca d’amore, solo per scoprire che l’amore non esisteva.
Dovunque andasse, diceva a tutti che l’amore è soltanto un’invenzione dei poeti e delle religioni, usata per manipolare la debole mente umana, per controllare le persone.
Diceva che l’amore non è reale, e per questo è impossibile trovarlo quando lo si cerca.
Era un uomo molto intelligente e riusciva ad essere convincente.
Lesse una quantità di libri, frequentò le migliori università e diventò un rinomato studioso.
Poteva parlare ovunque, davanti a qualunque pubblico, e la sua logica era inoppugnabile.

Diceva che l’amore è come una droga:

ti fa sentire bene, ma crea una dipendenza.
E cosa succede se una persona diventa dipendente dall’amore, e poi non riceve la sua dose quotidiana?
Quell’uomo diceva che la maggior parte dei rapporti d’amore è come il rapporto che c’è tra un tossicodipendente e il suo spacciatore.
Quello dei due che ha il bisogno maggiore è il drogato, e l’altro assume il ruolo dello spacciatore.
Quest’ultimo è quello che controlla il rapporto.
E’ una dinamica facilmente osservabile, perché in ogni relazione di solito c’è uno che ama di più e un altro che si limita a ricevere, ad approfittare di chi gli ha donato il suo cuore.
E’ facile vedere come si manipolano a vicenda, tramite le loro azioni e reazioni, proprio come un drogato e uno spacciatore.
Il tossicodipendente, quello che ha il bisogno maggiore, vive con il timore costante di non ricevere la prossima dose d’amore.
Pensa:
“Cosa farò se mi lascia?”
E tale paura lo rende possessivo.

Diventa geloso ed esigente.

Lo spacciatore comunque può sempre manipolarlo, dandogli dosi maggiori o minori, oppure negandogliele del tutto.
La persona con il bisogno maggiore si arrende ed accetta di fare qualunque cosa pur di non essere abbandonata.
L’uomo della nostra storia continuava a spiegare a tutti perché l’amore non esiste.
“Ciò che gli uomini chiamano amore è solo una relazione basata sul controllo e sulla paura.
Dov’è il rispetto?
Dov’è l’amore che dichiariamo di provare?
Non esiste.”
Le giovani coppie, davanti a un simulacro di Dio, e davanti alle loro famiglie e agli amici, si scambiano una quantità di promesse:
di vivere insieme per sempre, di amarsi e rispettarsi l’un l’altro, di restare uniti nella salute e nella malattia.
Promettono di amare e onorare l’altro… promesse e ancora promesse.
La cosa stupefacente è che credono davvero in ciò che promettono.
Ma dopo il matrimonio, dopo una settimana, un mese o alcuni mesi, le promesse vengono infrante una dopo l’altra.
Scoppia una guerra di potere, di manipolazione, per stabilire chi è il drogato e chi lo spacciatore.
Pochi mesi dopo le nozze, il rispetto che avevano giurato di mantenere l’uno per l’altra è scomparso.
Resta il risentimento, il veleno, il modo in cui si fanno male a vicenda, finché ad un certo punto, senza che se ne rendano conto, l’amore finisce.
I due restano insieme perché hanno paura di restare soli, temono i giudizi degli altri e anche i propri.

Ma dov’è l’amore?

Quell’uomo sosteneva di conoscere molte coppie anziane che avevano vissuto insieme per trenta o quarant’anni, e ne erano molto fiere.
Ma quando parlavano del loro rapporto dicevano:
“Siamo sopravvissuti al matrimonio.”
Ciò significava che uno dei due a un certo punto si era arreso all’altro.
La persona con la volontà più forte aveva vinto la guerra.
Ma dov’era la fiamma che chiamavano amore?
Si trattavano come una proprietà, l’uno dell’altro.
“Lui è mio.”
“Lei è mia.”
L’uomo spiegava senza fine tutte le ragioni per cui non credeva nell’esistenza dell’amore, e diceva:
“Io ho già vissuto situazioni del genere e non permetterò più a nessuno di manipolare la mia mente, di controllare la mia vita in nome dell’amore.”
Le sue argomentazioni erano logiche e convincevano molte persone.
Poi un giorno, mentre quell’uomo camminava in un parco, vide una bella donna in lacrime seduta su una panchina.
Si incuriosì e avvicinatosi le chiese se poteva aiutarla.
Potete immaginare la sua sorpresa quando lei rispose che piangeva perché aveva scoperto che l’amore non esiste.

L’uomo disse:

“Stupefacente.
Una donna che non crede nell’esistenza dell’amore.”
Naturalmente volle subito sapere qualcosa di più.
“Perché dici che l’amore non esiste?” chiese.
“E’ una lunga storia!” rispose lei.
“Mi sono sposata molto giovane, piena di amore e di illusioni.
Credevo che avrei condiviso tutta la vita con mio marito.
Ci giurammo reciprocamente fedeltà e rispetto e creammo una famiglia.
Ma presto tutto cambiò.
Io ero la moglie devota che si occupava della casa e dei bambini.
Mio marito continuò a seguire la sua carriera.
Il suo successo e la sua immagine esteriore per lui erano più importanti della famiglia.

Smise di rispettarmi e io smisi di rispettare lui.

Ci facemmo del male a vicenda e un giorno scoprii che non lo amavo più e che neppure lui mi amava.
Ma i bambini avevano bisogno di un padre e quella fu la scusa che adottai per non lasciarlo, facendo anzi di tutto per sostenerlo.
Ora i bambini sono diventati adulti e se ne sono andati.
Non ho più scuse per restare con lui.
Tra noi non c’è rispetto né gentilezza.
So anche che se trovassi un altro sarebbe la stessa cosa, perché l’amore non esiste.
Non ha senso cercare ciò che non esiste e per questo piango.”
L’uomo la comprendeva benissimo.
L’abbracciò e disse:
“Hai ragione, l’amore non esiste.
Lo cerchiamo, apriamo il nostro cuore, ci rendiamo vulnerabili e troviamo solo egoismo.
Questo ci fa del male anche quando pensiamo di esserne usciti indenni.

Non importa quante volte ci proviamo, accade sempre la stessa cosa.

Perché allora continuare a cercare l’amore?”
Erano così simili che diventarono grandi amici.
Il loro era un rapporto meraviglioso.
Si rispettavano e nessuno dei due cercava di prevalere sull’altro.
Ogni passo che facevano assieme li rendeva felici.
Tra loro non c’era invidia né gelosia, non c’era controllo né possesso.
La relazione continuava a crescere.
Amavano stare insieme, perché si divertivano molto.
Quando erano soli ciascuno sentiva la mancanza dell’altro.
Un giorno l’uomo, mentre era fuori città, ebbe un’idea assurda.
“Forse ciò che sento per lei è amore!” pensò.

Ma è così diverso da ciò che ho provato in passato.

Non è ciò che dicono i poeti, o la religione, perché io non mi sento responsabile per lei.
Non le chiedo nulla e non ho bisogno che si occupi di me.
Non sento la necessità di incolparla dei miei problemi.
Insieme stiamo bene e ci divertiamo.
Io rispetto il suo modo di pensare e lei non mi mette mai in imbarazzo.
Non mi sento geloso quando è con altri e non invidio i suoi successi.
Forse l’amore esiste davvero, alla fine, ma non è ciò che tutti credono che sia.”
Non vedeva l’ora di tornare a casa e parlare con la donna, per raccontarle dei suoi strani pensieri.
Appena cominciarono a parlare, lei disse:
“So esattamente a cosa ti riferisci.
Forse dopotutto l’amore esiste, ma non è ciò che pensavamo che fosse.”
I due decisero di diventare amanti e di vivere insieme, e sorprendentemente le cose tra loro non cambiarono.

Continuavano a rispettarsi e a sostenersi e l’amore cresceva sempre di più.

Anche le cose più semplici li facevano gioire, perché si amavano ed erano felici.
Il cuore dell’uomo era così pieno d’amore che una notte accadde un grande miracolo.
Era intento a guardare le stelle e ne vide una bellissima.
Il suo amore era così forte che la stella scese dal cielo e finì nelle sue mani.
Quindi accadde un altro miracolo e la sua anima si fuse con la stella.
La sua felicità era intensa, e andò subito dalla donna per mettere la stella nelle sue mani.
Non appena lo fece, lei ebbe un momento di dubbio:
quell’amore era troppo forte.
Non appena quel pensiero le attraversò la mente, la stella le cadde di mano e si ruppe in un milione di pezzi.
Ora c’è un vecchio che gira per il mondo giurando che l’amore non esiste.
E in una casa c’è una donna anziana che aspetta un uomo, versando lacrime amare per il paradiso che aveva tenuto tra le mani, perdendolo in un momento di dubbio.
Questa è la storia dell’uomo che non credeva nell’amore.

Di chi fu l’errore?

Cosa non funzionò?
Fu l’uomo a sbagliare, pensando di poter dare alla donna la sua felicità.
La sua felicità era la stella e l’errore fu quello di mettere la stella nelle mani della donna.
La felicità non viene mai dal di fuori.
L’uomo era felice per tutto l’amore che proveniva da se stesso.
La donna era felice per tutto l’amore che proveniva da lei.
Ma appena lui la rese responsabile della propria felicità, lei ruppe la stella, perché non poteva farsi carico della felicità di un altro essere.
Indipendentemente da quanto lo amasse, non avrebbe potuto renderlo felice, perché non poteva sapere ciò che lui aveva in mente, non poteva conoscere le sue aspettative, i suoi sogni.
Se prendete la vostra felicità e la mettete nelle mani di un’altra persona, prima o poi quella persona la distruggerà.

Se la felicità invece vive dentro di voi, siete voi ad esserne responsabili.

Non possiamo rendere nessuno responsabile della nostra felicità, ma quando andiamo in chiesa e ci sposiamo, la prima cosa che facciamo è quella di scambiarci gli anelli.
Mettiamo la nostra stella nelle mani dell’altro, sperando che ci renda felici e che noi renderemo felici lui, o lei.
Ma indipendentemente da quanto amate un’altra persona, non sarete mai ciò che quella persona vuole che siate.
Questo è l’errore che quasi tutti facciamo fin dall’inizio.
Basiamo la nostra felicità sul partner.
Trovate la vostra stella e tenetela nel cuore…
sarà la sua luce a trasmettere l’amore… perché…
L’amore esiste.

Brano tratto dal libro “La Padronanza dell’amore.” di Don Miguel Ruiz

L’Usignolo e la Rosa. (L’Usignolo e l’Amore)


L’Usignolo e la Rosa.
(L’Usignolo e l’Amore)

Un giovane studente si lamentava poiché nel proprio giardino non c’era una sola rosa rossa.
Ah, da quali sciocchezze dipende la felicità!
Ho letto gli scritti di tutti i sapienti, conosco tutti i segreti della filosofia, ma nonostante ciò la mancanza di una rosa rossa sconvolge la mia vita!
“La donna che amo ha detto che ballerà con me solo se le porterò delle rose rosse, ma in tutto il giardino non c’è una sola rosa rossa!”
Anche l’usignolo lo ascoltava commosso.
“Il principe dà un ballo domani sera!” singhiozzava ad alta voce l’uomo “Io e lei siamo stati invitati.
Se le porterò una rosa rossa ballerà con me fino all’alba.
Ma non v’è rosa rossa nel mio giardino, e così me ne starò tutto solo e lei mi passerà davanti senza degnarmi di uno sguardo.
Non si curerà di me e il mio cuore si spezzerà.”
“Ecco uno che sa veramente amare!” disse l’usignolo “Quello che io canto, egli lo soffre:
quello che per me è gioia, per lui è dolore.

L’amore è una cosa meravigliosa:

è più prezioso di smeraldi e diamanti.
Non si può comprare con perle e pietre preziose.
Non è venduto al mercato; non ci sono mercanti o bilance per l’amore.”
“Ballerà con tutti, ma non con me.
Perché non ho da offrire una rosa rossa!” si disperò l’uomo buttandosi nell’erba e coprendo il proprio viso con le mani.
“Perché piange?” chiese una lucertolina marrone, passandogli accanto di corsa, con la coda in aria.
“Già, perché piange?” chiese una farfalla che svolazzava dietro a un raggio di sole.
“Sì, perché?” sussurrò una primula alla sua vicina con una voce dolce, sommessa.
“Piange per una rosa rossa!” rispose l’usignolo.
“Per una rosa rossa?” esclamarono “Che cosa ridicola!”
La lucertolina, che era un po’ cinica, sghignazzò senza ritegno.
Ma l’usignolo capiva il segreto del dolore dell’uomo e se ne stette silenzioso, sulla quercia, a riflettere sul mistero del dolore.

D’un tratto spalancò le ali brune e si librò in aria.

Attraversò il boschetto come un’ombra, e come un’ombra veleggiò attraverso il giardino.
Al centro del prato c’era un bel rosaio, e quando lo vide l’usignolo si posò su uno dei suoi rami.
“Dammi una rosa rossa,” implorò “e ti canterò la più dolce delle mie canzoni!”
Il rosaio scosse i rami.
“Le mie rose sono bianche!” rispose “Bianche come la spuma del mare, e più bianche della neve sui monti.
Ma va’ da mio fratello, che cresce intorno alla vecchia meridiana, e forse lui ti darà quello che cerchi.”
Così l’usignolo volò fino al rosaio che cresceva intorno alla vecchia meridiana.
“Dammi una rosa rossa,” implorò “e ti canterò la più dolce delle mie canzoni!”
Ma il rosaio scosse i rami.
“Le mie rose sono gialle!” rispose “Gialle come l’asfodelo che fiorisce nei campi, gialle come grano.
Ma va’ da mio fratello che fiorisce sotto la finestra dell’uomo, e forse lui ti darà quello che cerchi.”
Così l’usignolo volò al rosaio che cresceva sotto la finestra dell’uomo.
“Dammi una rosa rossa,” esclamò “e ti canterò la più dolce delle mie canzoni.”

Ma il rosaio scosse i rami.

“Le mie rose sono rosse,” rispose “più rosse del corallo.
Ma l’inverno mi ha gelato le vene, la neve mi ha distrutto i germogli e la tempesta mi ha spezzato i rami: non avrò nemmeno una rosa”.
“Una rosa rossa è tutto quello che voglio!” gridò l’usignolo “Solo una rosa rossa!
Non esiste un modo per procurarmela?”
“Una maniera c’è,” rispose il rosaio “ma è così terribile che non ho il coraggio di dirtela!”
“Dimmela,” disse l’usignolo “io non ho paura”.
“Se vuoi una rosa rossa,” disse il rosaio “devi tingerla con il tuo sangue.
Devi cantare per me col petto contro una delle mie spine.
Tutta la notte devi cantare per me, e la spina deve trafiggerti il cuore,
e il tuo sangue deve scorrere nelle mie vene e diventare mio.”
“La morte è un prezzo alto da pagare per una rosa rossa!” disse l’usignolo “La vita è bella e cara tutti.
Eppure l’amore è più grande della vita.
E che cos’è mai il cuore di un uccello in confronto al cuore di un uomo?”
Si librò in volo e ritornò dall’uomo, che continuava a disperarsi.
“Sii felice!” gli gridò l’usignolo “Sii felice!

Avrai la tua rosa rossa.

La tingerò io con il sangue del mio cuore.
In cambio ti chiedo solo di essere sincero nel tuo amore.”
L’uomo alzò il capo, ma naturalmente non capiva nulla di quello che l’usignolo diceva.
Ma la quercia capì e si rattristò, perché amava molto l’usignolo che aveva costruito il proprio nido in mezzo ai suoi rami.
“Cantami un’ultima canzone,” sussurrò “sarò tanto sola quando tu non ci sarai più!”
L’usignolo cantò per la quercia e la sua voce sembrava acqua zampillante da una fonte d’argento.
L’uomo se ne andò, sbuffando:
“L’usignolo ha una bella voce, ma certamente nessun sentimento.
Pensa solo al canto, alle belle note.
Non gliene importa niente degli altri.

Sono tutti così gli artisti!”

Andò nella sua stanza, si distese sul letto e, pensando alla sua amata, si addormentò.
Quando in cielo si accese la luna, l’usignolo volò al roseto e mise il petto contro una spina.
Tutta la notte cantò, col petto contro la spina.
Anche la fredda luna di cristallo si chinò e ascoltò.
Tutta la notte cantò, e la spina gli penetrò sempre più profondamente nel petto, mentre il sangue della vita scorreva via.
Sbocciò una rosa meravigliosa, rossa come il sole d’oriente, rossa più di un rubino.
Ma la voce dell’usignolo si affievolì.
Le sue piccole ali cominciarono a tremare e un velo di dolore gli annebbiò gli occhi.
La sua voce meravigliosa si spense in un’ultima esplosione di trilli, mentre la rosa meravigliosa spalancava i petali alla fredda aria del mattino.
“Guarda, guarda!” gridò il rosaio.
“La rosa è finita ora!”
Ma l’usignolo non rispose, perché giaceva morto nell’erba alta.
A mezzogiorno, l’uomo aprì la finestra e guardò fuori.
“Ehi, ma che fortuna incredibile!” esclamò.
“Qui c’è una rosa rossa!
Non ho mai visto una rosa così in tutta la vita.
Così bella che di sicuro deve avere un lungo nome latino!”

Si spenzolò dalla finestra e la colse.

Poi corse alla casa della donna dei suoi sogni con la rosa in mano.
“Hai detto che avresti ballato con me se ti avessi portato una rosa rossa!” esclamò l’uomo.
“Ecco la rosa più rossa del mondo.
La porterai stasera sul cuore, e quando balleremo insieme ti dirò quanto ti voglio bene!”
Ma la donna si accigliò.
“Non mi serve più.
Non si intona con il mio vestito.
E poi il nipote del banchiere mi ha mandato dei gioielli veri, e tutti sanno che i gioielli costano molto più dei fiori!”
“Sei solo un’ingrata!” disse rabbioso l’uomo.
E gettò la rosa nella strada.
La rosa rossa finì in una pozzanghera e la ruota di un carro la schiacciò.
“L’amore non esiste!” concluse l’uomo.
E tornò a casa.
Si chiuse dentro la sua stanza, prese lo dallo scaffale un vecchio libro polveroso, e si mise a leggere.

Brano tratto dal libro “Il principe felice e altri racconti.” di Oscar Wilde

L’incidente


L’incidente

Una giovane donna tornava a casa dal lavoro in automobile.
Guidava con molta attenzione perché l’auto che stava usando era nuova fiammante, ritirata il giorno prima dal concessionario e comprata con i risparmi soprattutto del marito che aveva fatto parecchie rinunce per poter acquistare quel modello.
Ad un incrocio particolarmente affollato, la donna ebbe un attimo di indecisione e con il parafango andò ad urtare il paraurti di un’altra macchina.

La giovane donna scoppiò in lacrime.

Come avrebbe potuto spiegare il danno al marito?
Il conducente dell’altra auto fu comprensivo, ma spiegò che dovevano scambiarsi il numero della patente e i dati del libretto.
La donna cercò i documenti in una grande busta di plastica marrone.
Cadde fuori un pezzo di carta.
In una decisa calligrafia maschile vi erano queste parole:
“In caso di incidente… ricorda, tesoro, io amo te, non la macchina!”

Lo dovremmo ricordare tutti, sempre.

Le persone contano, non le cose.
Quanto facciamo per le cose, le macchine, le case, l’organizzazione, l’efficienza materiale!
Se dedicassimo lo stesso tempo e la stessa attenzione alle persone, il mondo sarebbe diverso.
Dovremmo ritrovare il tempo per ascoltare, guardarsi negli occhi, piangere insieme, incoraggiarsi, ridere, passeggiare…

Ed è solo questo che porteremo con noi davanti a Dio.

Noi e la nostra capacità d’amare.
Non le cose, neanche i vestiti, neanche questo corpo!

Brano tratto dal libro “A volte basta un raggio di sole.” di Bruno Ferrero

Signora, scriverebbe una poesia per me?


Signora, scriverebbe una poesia per me?

Molte persone che hanno una storia da raccontare sono capaci di metterla sulla carta, quasi tutti coloro che vorrebbero scrivere una poesia non riescono a trovare le rime o a scrivere versi che scorrano.
Ecco perché una volta redassi per una rivista una rubrica che intitolai:
“Una poesia vostra e mia.”
A tutti coloro che avevano in mente una poesia, chiedevo di comunicarmi l’idea e promettevo che avrei pubblicato la loro lettera e scritto la poesia secondo le loro richieste.
Ricevetti migliaia di lettere da persone che avevano un poema nel cuore.
Ce ne fu una che ricorderò sempre.
Era di una ragazza, una certa Mary.
Non ne ho mai saputo il cognome.
Un giorno, in un cestino colmo di posta, trovai una lettera espresso contenente un foglio di carta rigata da poco prezzo e, in mezzo al foglio, un consunto biglietto da un dollaro.
Leggendo la lettera, mi sembrava quasi di sentire la voce di Mary:
“Voi dite, signora, che scriverete una poesia per chi desidera averne una scritta e pubblicata nella rivista.
Io vorrei che me ne scriveste una e me la mandaste invece di pubblicarla.

Ecco perché accludo un dollaro.

Non voglio che vi disturbiate senza compenso.
Credo che vorrete sapere qualcosa di me.
Fui lasciata sui gradini di un orfanotrofio quand’ero in fasce, e nessuno mi adottò perché non ero bella nè molto intelligente.
Perciò rimasi all’orfanotrofio finché non ebbi l’età d’andarmene e allora mi trovarono un lavoro in una fabbrica.
Lavoravo sei giorni la settimana perché eravamo in tempo di guerra e in fabbrica c’era molto da fare, ma la domenica ero libera e andavo a passeggiare nel parco.
Una domenica un soldato mi rivolse la parola; mi chiese se ero sola, io risposi di si, ed egli disse che anche lui era solo.
Aggiunse che non era di quella città e che sperava di poter passeggiare un po’ con me.
Era un giovane in uniforme e mi parve che non ci fosse niente di male.
Cosi, passeggiando e discorrendo, mi disse che era d’una regione rurale e che era in una caserma dall’altra parte del fiume.
Mi disse che al suo paese abitava con la madre e che era figlio unico; non era sposato, e non aveva nemmeno l’innamorata, perché se la madre avesse saputo che s’interessava a qualche ragazza avrebbe fatto il diavolo a quattro.
Quindi mi chiese se quella sera volevo cenare con lui e poi andare al cinema.
Fu cosi che Mary conobbe Ross, il soldato, e fu al cinema che sentì la mano di lui cercare la sua…

E capì, senza ombra di dubbio, d’essere innamorata.

Passò un mese, e un’altra domenica, mentre erano al parco, si misero a sedere su una panchina e parlarono dell’avvenire.
Non avevo mai avuto un avvenire fino a quella domenica, perché fu allora che Ross mi disse che mi amava e che voleva sposarmi.
Naturalmente gli risposi di si, e poi Ross si rannuvolò in viso e spiegò che non osava dirlo alla madre, perciò non avrebbe potuto far assegnare a me la quota della paga destinata alla persona a carico, ne farmi beneficiaria della sua assicurazione.
Ma a me non importava.
Volevo soltanto lui e il suo amore.
Volevo soltanto qualcuno che m’appartenesse.
Quando glielo dissi, il viso gli si rischiarò.
Cosi Mary e Ross si sposarono, e appena Ross aveva un permesso andava nella camera ammobiliata di Mary.
Le comprò il primo vestito di seta della sua vita, le scarpe con il tacco alto e una vestaglia.
Ma il regalo più importante fu l’anello nuziale.
E quando Ross fu mandato oltremare, Mary gli scrisse tutte le sere ed egli rispondeva ogni volta che poteva.
Passò il tempo, e poi un giorno Mary svenne mentre era in fabbrica.
Il medico della Società le disse che avrebbe avuto un bambino.
Fu proprio mentre scriveva a Ross la più bella notizia del mondo che la sorte volle colpirla in modo crudele.

Ricevette un telegramma dalle autorità militari.

“Ne fui sconvolta, signora.” mi scrisse Mary “Mio marito era morto.
Non avrei più sentito le sue labbra sulle mie, ma avevo una consolazione.
Non ero più sola come prima.
Sebbene Ross non fosse più mio, m’aveva lasciato qualcosa che sarebbe stata mia per sempre.
Mary lavorò fin quando potè e risparmiò ogni centesimo (non aveva l’assicurazione di Ross, ricordate?)
Sulla polizza c’era il nome della madre.
Non scrisse alla madre di Ross perché, come mi disse nella sua lettera, non le avrebbe creduto.
La bambina di Mary nacque nel reparto maternità d’un ospedale e quando Mary ne usci, si trovò a dover affrontare un problema.
Adesso doveva guadagnare da vivere non soltanto per sé, ma anche per la sua creatura.
E cosi decise di mettere la bimba in un nido per l’infanzia, non in uno gratuito, ma in uno di cui i suoi mezzi le permettessero di pagare la retta.
“Tutte le mattine portavo la piccola al nido, e tutte le sere, dopo il lavoro, andavo a prenderla e la portavo a casa.

La vedevo sveglia di rado, tranne la domenica.

Siccome tutto quello che guadagnavo serviva per il vitto, per la pigione e per il nido, la piccola non aveva belle vestine o giocattoli.
Gli abitini che portava durante il giorno appartenevano al nido, e cosi i giocattoli.
Io avevo soltanto il cesto di vimini nel quale dormiva, le coperte e un sonaglio di celluloide.
Ma ero felice perché, mentre lavoravo, sapevo che l’avrei portata a casa la sera e l’avrei tenuta tra le braccia finché si fosse addormentata.
Un pomeriggio mi telefonarono dal nido e mi dissero di accorrere subito…
ma non arrivai in tempo.”
E cosi Mary si ritrovò sola come prima:
una giovane donna non molto bella, non molto intelligente, una donna che aveva soltanto la gran dote di amare e di dare.
La sua lettera finiva cosi:
“Siccome la mia piccola non aveva bei vestiti o giocattoli, o nessuna delle cose che i bimbi di solito hanno, io non avrò nulla di lei da conservare.
E temo che, con il passare degli anni, il suo ricordo svanirà, e chiudendo gli occhi non riuscirò più a vederne il viso.
Ecco perché voglio che scriviate una poesia su di lei, una poesia bella come era lei, una poesia che me la riporti vicina ogni volta che la leggerò, che mi faccia sentire ch’è ancora accanto a me, non tra le mie braccia, ma nel mio cuore.

Vi prego spedite la poesia a Mary,

Fermo Posta, e io passerò all’ufficio postale tutti i giorni finché arriverà.”
Scrivere quella poesia fu uno dei compiti più difficili che abbia mai avuto e, per quanto sembri un paradosso, uno dei più facili.
Non ne ho tenuto una copia perché temevo che, prima o poi, potessi essere tentata di pubblicarla, e allora la poesia non sarebbe più appartenuta soltanto a Mary.
Quando misi la poesia nella busta, fui sul punto di mettervi anche il biglietto da un dollaro, ma poi mi resi conto che sarebbe stata una crudeltà.
Mi resi conto che Mary comprava un ultimo regalo per la sua creatura.
Sì, cercai di rintracciare Mary, ma non fu possibile; aveva ritirato la lettera, e poi era scomparsa.
Sebbene questo sia accaduto parecchio tempo fa, conservo ancora il dollaro, nella speranza che un giorno, non so dove, mi capiti d’incontrare Mary.
Se m’avverrà d’incontrarla, le darò il dollaro e le spiegherò che un ricordo non si può comprare.
Deve essere sempre un dono.

Brano di Margaret Elizabeth Sangster