La quercia e la rosa

La quercia e la rosa

In un giardino vivevano, in mezzi ad altri alberi, cespugli, fiori e profumate aiuole, una quercia ed una rosa.
La quercia era un albero maestoso e i suoi rami poderosi sembravano una corona,

che si allargava possessiva sulle umili piante del giardino.

La rosa era uno stelo con poche foglie verdi e molte acuminate spine scure.
Aveva un’aria anemica e sembrava sempre sul punto di appassire.
La quercia prosperosa si divertiva ad umiliarla:

“Sei solo un patetico ramoscello spinoso!”

Quando soffiava il vento, il grande albero aveva imparato a far vibrare le sue innumerevoli foglie per modulare suoni, sibili vagamente esotici e graziose armonie.
Tutto questo riempiva d’orgoglio la quercia.
“Io sono un’orchestra!” tuonava, “Riempio il cielo di sublimi sinfonie!
Non come questo squallido stecco che non sa far nulla!

A che serve una rosa?”

Ma quando venne maggio, la rosa fiorì.
E tutto il giardino scoppiò in un lungo, sincero e caloroso applauso.

Brano senza Autore

L’angelo e le preghiere della sera

L’angelo e le preghiere della sera

Nel cuore di una vallata di campi, prati e boschi, in una casetta a due piani, viveva una famigliola felice.
Erano in tre per il momento:
una mamma, un papà e un bambino biondo di sei anni.
Al centro della valle scorreva un torrente “allegro” e “tortuoso”.
La casetta sorgeva un po’ isolata dal paese e così, la domenica, la famigliola saliva in un’auto piccolina e andava a Messa nella Chiesa parrocchiale.
La sera, prima di addormentarsi, tutti insieme pregavano.
Un Angelo del Signore, tutte le sere, raccoglieva le preghiere e le portava in cielo.
Un inverno piovve per molti giorni.
Il torrente si gonfiò di acqua scura.
La valle cominciò ad essere sommersa dall’acqua.

Il papà svegliò la mamma e il bambino.

Si strinsero spaventati perché l’acqua aveva invaso il pian terreno della casetta.
E continuava a salire.
Sempre più scura, sempre più veloce.
“Saliamo sul tetto!” esclamò il papà.
Prese il bambino e salì in soffitta e di là sul tetto, mentre la mamma li seguiva.
Sul tetto si sentirono come naufraghi su un’isoletta che diventava sempre più piccola.
Perché l’acqua che continuava a salire arrivò implacabile fino alle ginocchia del papà.
Il papà si sistemò ben saldo sul tetto, abbracciò la mamma e le disse:
“Prendi il bambino in braccio e sali sulle mie spalle!”
Mamma e bambino salirono sulle spalle del papà, che continuò:
“Mettiti in piedi sulle mie spalle e alza il bambino sulle tue, non avere paura!
Qualunque cosa capiti, io non ti lascerò!”

La mamma baciò il bambino e disse:

“Sali sulle mie spalle e non avere paura.
Qualunque cosa capiti, io non ti lascerò!”
L’acqua continuava ad alzarsi.
Sommerse il papà e le sue braccia tese a tenere la mamma, poi inghiottì la mamma e le sue braccia tese a tenere il bambino.
Ma il papà non mollò la presa e neanche la mamma.
L’acqua continuò a salire.
Arrivò alla bocca del bambino, agli occhi ed infine alla fronte.
L’Angelo del Signore, che era venuto a prendere le preghiere della sera, vide solo un ciuffetto biondo spuntare dall’acqua torbida.
Con mossa leggera afferrò il ciuffo biondo e tirò.
Attaccato ai capelli biondi venne su il bambino e, attaccata al bambino, venne su la mamma e, attaccato alla mamma, venne su il papà.
Nessuno aveva mollato la presa!
L’Angelo spiccò il volo e posò con dolcezza l’originale “catena” sulla collina più alta dove l’acqua non sarebbe mai arrivata.

Papà, mamma e bambino “ruzzolarono” sull’erba:

poi si abbracciarono, piangendo e ridendo.
Invece delle preghiere, quella sera, l’Angelo portò in cielo il loro amore.
E tutte le “schiere celesti” scoppiarono in un fragoroso applauso!

Brano senza Autore

Il cucchiaio

Il cucchiaio

Un noto scrittore, autore di best seller di fama internazionale, andò a mangiare in un caratteristico ristorante nel ridente asolano, dove venivano servite le specialità povere tipiche del Veneto, improvvisamente tornate di moda.
Alle pareti del ristorante erano appese le fotografie dei personaggi famosi che avevano visitato il locale, tra cui un premio Nobel e, conseguentemente, anche la sua foto sarebbe dovuta finire insieme alle altre.
Lo scrittore era molto proficuo nello scrivere, ma avaro di parole e, quando fu il momento della comanda, quando gli chiesero cosa desiderasse, rispose semplicemente:

“La specialità della casa.”

Il titolare, desiderando fare bella figura con l’illustre intellettuale, riservò per lui un cameriere, quello con la maggiore esperienza, nonché sommelier.
Gli venne servita un’invitante “Soppa Coada”, detta anche “zuppa Covata”, che altro non è che un piatto povero, fatto di avanzi di pane raffermo, verdure, brodo caldo e piccione.
Lo scrittore guardò benevolo il caratteristico piatto, ma dopo un attimo di riflessione scuotendo la testa disse:

“Questo non la posso mangiare.”

Il cameriere sottrasse subito il piatto pensando fosse vegetariano e di gran corsa lo sostituì con un fumante minestrone di fagioli.
Accolse il piatto con un largo sorriso accennando un applauso, ma ripeté:
“Anche questo non lo posso mangiare.”

Il cameriere, affranto e tutto rosso in viso, chiese:

“Perché?”
La risposta dell’intellettuale fu:
“Perché non mi avete portato il cucchiaio.”

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Dio è come lo zucchero

Dio è come lo zucchero

Mancavano cinque minuti alle 16:00.
Trenta bambini, tutti della quinta elementare, quel pomeriggio, erano eccezionalmente irrequieti, agitati, emozionati, chiassosi, rumorosi.

Alle 16:00 in punto arrivò la maestra per iniziare l’esame scritto di religione.

Immediatamente un silenzio generale piombò nella sala dove erano seduti i bambini in attesa delle domande.

1° Domanda: “Chi mi sa dire con parole sue chi è Dio?” cominciò a dettare la maestra.
2° Domanda: “Come fate a sapere che Dio esiste, se nessuno l’ha mai visto?”

Dopo 20 minuti, tutti avevano consegnate le risposte.
La maestra lesse ad una ad una le prime 29; erano più o meno ripetizioni di parole dette e ascoltate molte volte:

“Dio è nostro Padre.

Ha fatto la terra, il mare e tutto ciò che esiste.”
Le risposte erano esatte, per cui si erano guadagnati la promozione.
Poi chiamò Ernestino, un piccolo e vispo bambino biondo, lo fece avvicinare al suo tavolo e gli consegnò il suo foglietto, dicendogli di leggerlo ad alta voce davanti a tutti i suoi compagni.
Ernestino, temendo una pesante umiliazione davanti a tutta la classe, con la conseguente bocciatura, cominciò a piangere.
La maestra lo rassicurò e lo incoraggiò.

Singhiozzando Ernestino lesse:

“Dio è come lo zucchero che la mamma ogni mattina scioglie nel latte per prepararmi la colazione.
Io non vedo lo zucchero nella tazza, ma se la mamma non lo mette, ne sento subito la mancanza.
Ecco, Dio è così, anche se non lo vediamo.
Se Lui non c’è la nostra vita è amara, è senza gusto.”
Un applauso forte riempì l’aula e la maestra ringraziò Ernestino per le risposte così originali, semplici e vere.
Poi completò:
“Vedete bambini, ciò che ci fa saggi non è il sapere molte cose, ma l’essere convinti che Dio fa parte della nostra vita.”

Brano tratto dal libro “La Zattera: Regole per vivere in armonia.” di Carlo Gaudio

I bergamaschi

I bergamaschi

Gli anni che la vita ci riserva sono tutti unici e preziosi, e quello che trascorsi da militare è ben vivo nella mia memoria.
Lo considerai un anno sabbatico, lontano da casa e da impegni.
Lo passai molto serenamente, mai in ozio, frequentando tutti i corsi proposti.
Ad esempio, conseguì la licenza di terza media, che ancora non avevo, vivendo comunque i miei 20 anni.

La caserma era come un alveare, tutti avevano una mansione.

Mi assegnarono l’incarico di autista di camion e questo mi permetteva di avere tanto tempo libero.
Tempo che dedicavo alla lettura, leggendo libri che mi venivano prestati dal cappellano militare.
Ebbi modo di conoscere ed apprezzare due bravi ragazzi bergamaschi, che mi onoravano della loro amicizia.
Ci ritrovammo nella stessa camerata, con i letti vicini, ed io, vedendoli veramente stanchi la sera, rifacevo anche i loro.
Il loro incarico fu quello di effettuare la manutenzione ordinaria della caserma ed il loro lavoro lo presero veramente sul serio, svolgendo tutto in maniera ammirevole,

con riparazioni e manutenzioni fatte a regola d’arte.

La caserma era una base missilistica, soggetta a costanti controlli Nato ed era, anche grazie a loro, sempre in ordine.
Mi confermarono così la nomea che per lavoro i bergamaschi non hanno pari e, per questo, a mio avviso, vennero un po’ sfruttati.
Gli unici due privilegi loro concessi furono quello di non fare la fila alla mensa e quello di non dover fare turni di guardia, essendo sempre impegnati.
Pochi giorni prima del nostro congedo si ruppe il sistema fognario e le competenze, ed il lavoro, dei due bergamaschi risultarono indispensabili.

Vennero trattenuti con una punizione.

Restammo tutti sorpresi poiché, a nostro avviso, dovevano essere premiati con il grado di caporali.
Ma, nonostante questo, con nostra grande meraviglia, li vedemmo lavorare alacremente senza lamentarsi, anzi quasi felici di farlo per il bene collettivo.
Diedero a tutti una grande lezione, come tantissimi italiani che, in seguito, apprezzai per aver fatto grande l’Italia con il loro operare silenzioso.

In questo momento di difficoltà, un grande abbraccio virtuale va a tutti i cittadini italiani, in particolare ai bresciani ed ai bergamaschi, i più colpiti dal coronavirus.
Ed un grande applauso ai dottori, agli infermieri ed alle forze dell’ordine.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno