Il filo d’oro

Il filo d’oro

Massimo era un ragazzino davvero strano:
gli piaceva tantissimo sognare ad occhi aperti.
Soprattutto a scuola, quando la lezione non gli interessava molto.
Il maestro, che lo considerava intelligente ma svogliato, gli chiese un giorno, un po’ seccato:
“A cosa stai pensando, Massimo?
Perché non stai attento?”
“Sto cercando di immaginare cosa farò da grande!” rispose il ragazzino.
“Oh, non è una bella cosa!” replicò il maestro, “Cerca di godere quest’età meravigliosa e spensierata e spera che gli anni della giovinezza scorrano lentamente!”
Massimo non riusciva a capire le parole del maestro.

A lui non piaceva aspettare.

Infatti, quando era inverno e pattinava sul ghiaccio, non vedeva l’ora che arrivasse l’estate per poter nuotare; quando poi arrivava la tanto sospirata estate, desiderava l’autunno per poter giocare con il suo aquilone sul grande prato dei giardini pubblici.
Insomma, se qualcuno chiedeva a Massimo quale fosse la cosa che più desiderasse al mondo, riceveva una risposta ben precisa:
“Io vorrei che il tempo passasse in fretta…”
Un giorno d’estate, Massimo si fermò a riposare dopo una corsa sulla panchina del parco.
All’improvviso si sentì chiamare:
si voltò di scatto e vide una vecchietta che lo osservava con dolcezza.
La vecchietta mostrò al ragazzo una scatoletta d’argento con un forellino da cui usciva un filo d’oro e gli disse:
“Guarda, Massimo.
Questo filo sottile è il filo della tua vita.
Se proprio desideri che il tempo per te trascorra velocemente, non devi far altro che tirare un po’ il filo.
Un piccolissimo pezzo di filo corrisponde ad un’ora di vita.
Soltanto, ricordati di non dire a nessuno che possiedi questa scatoletta, altrimenti morirai il giorno stesso!

Tienila, e buona fortuna!”

La vecchietta consegnò al ragazzo la scatoletta e scomparve.
Massimo, tornò a casa, saltellando, con la scatoletta in tasca.
Il giorno dopo, a scuola, il maestro si accorse che Massimo era più distratto del solito e gli fece una bella lavata di capo:
“Ecco!
Sei sempre con la testa fra le nuvole!
Finirai bocciato, te lo posso garantire, se continui così…”
Massimo era veramente stanco di sentir predicozzi e pensò di usare il filo per accorciare le giornate di scuola.
In pratica quasi ogni mattina, tirava un pezzettino di filo e così, appena entrato in classe, sentiva la voce del maestro che diceva:
“Le lezioni sono finite.
Potete andare a casa!”
Il ragazzo era felicissimo:
la vita era un susseguirsi di giornate di vacanza e di giochi all’aria aperta.
Trascorsi un po’ di giorni, però, Massimo cominciò ad annoiarsi e pensò:

“Oh, come sarebbe bello aver già finito la scuola e poter lavorare!”

Una notte in cui non riusciva ad addormentarsi, Massimo decise di dare una bella tiratina al filo e così, la mattina seguente, si svegliò che aveva i baffi, faceva l’ingegnere e aveva messo su una bella fabbrica.
Era molto felice del suo mestiere e per un po’ tirò il filo con moderazione, giusto solo per far arrivare in fretta i soldi a fine mese.
Un giorno, però, un particolare turbò Massimo per un momento:
la sua mamma era invecchiata, aveva già molti capelli grigi.
Si pentì di aver tirato così spesso il filo magico e promise a se stesso che, ora che era grande, non l’avrebbe fatto più.
“Sembra anche a te che tutto sia passato in un soffio?” gli chiedeva la mamma.
Massimo non poteva rispondere e si sentiva molto triste.
Un giorno che sonnecchiava nel parco, sulla solita panchina, il vecchio Massimo si sentì chiamare.
Aprì gli occhi e vide la vecchina che, tanti e tanti anni prima, gli aveva regalato la scatoletta con il filo magico.

“Allora Massimo, com’è andata?

Il filo magico ti ha procurato una vita felice, secondo i tuoi desideri?” gli chiese.
“Non saprei…
Grazie a quel filo non ho mai dovuto attendere o soffrire troppo nella mia vita, ma ora mi accorgo che è passato tutto così in fretta ed eccomi qui, vecchio e debole…” spiegò lui.
“Ah, sì?” disse la vecchina, “E che cosa vorresti, allora?”
“Vorrei tornare ragazzino!” esclamò disse Massimo con un po’ di vergogna, “E poter rivivere la mia vita senza il filo magico.
Vivere come tutte le altre persone e accettare tutto quello che la vita mi riserva, senza più essere impaziente!”
“Lo desideri davvero?” domandò allora l’anziana signora.
“Sì!” disse Massimo senza esitare un attimo, “Quello che ho passato in questi anni mi è servito di lezione e sono sicuro che non ricadrei più negli stessi errori!”
“Se è così, sono davvero felice.
Vedrai che ora gusterai di più la vita e sarai in grado di apprezzarne anche i momenti di fatica e di sconforto che senz’altro incontrerai nel tuo cammino.
Ora non ti resta che restituirmi la scatoletta e…

Buona fortuna, Massimo!”

Appena Massimo pose nella mano della vecchina la scatoletta, cadde in un sonno profondo.
“Ehi, dormiglione!
Sveglia!”
Massimo aprì gli occhi e si trovò nel suo letto, con la mamma (giovane e bella) che lo guardava dolcemente.
Corse allo specchio e vide il suo solito volto paffuto da ragazzino.
Baciò e abbracciò la mamma come fossero cent’anni che non la vedeva più.
Si lavò e si vestì in un baleno, mangiò la colazione come un fulmine e partì per la scuola.
Per la strada incontrò Marta, che era anche lei la solita bambina bionda.
La prese per mano e mentre correvano sul marciapiede le disse:
“Ho un sacco di cose da raccontarti…
Ma tu lo sapevi che la nostra età è la più bella?”

Brano senza Autore

La lepre ed il ghiacciolo

La lepre ed il ghiacciolo

Sui verdi fianchi di una balza delle Alpi, sotto un roccione sporgente, c’era la tana di una lepre di montagna.
Quella lepre ogni tanto faceva capolino.
Come tutti gli animali selvatici, era povera in canna e viveva nutrendosi di ogni sorta di erbaggi.
Aveva però due vestiti, un lusso che la natura le concedeva gratuitamente e senza pericolo di farla diventare ambiziosa.
I fiori, che vedevano la lepre d’estate, conoscevano bene il suo giubbetto color grigio-bruno con la gran toppa bianca sul petto.
I ghiacci e le nevi che la vedevano d’inverno, conoscevano invece il suo candido, attillato pastrano.
Anche i ghiaccioli, che pendevano numerosi e impettiti dall’ingresso della tana, stavano ad ammirarla un po’ invidiosi per ore e ore, mentre dormiva avvolta nella sua bianca pelliccia.
I fiori che segnavano il tempo di primavera e d’estate non consideravano la lepre un personaggio importante, pensando che avesse, come tutti gli altri animali, un solo vestito; ma le rocce e gli alberi, che la vedevano in tutte le stagioni, sapevano benissimo che i suoi vestiti erano due, e avevano di lei grande stima, perché la ritenevano una bestia facoltosa e tuttavia sempre umile, riservata e gentile.
Sul finire di un inverno, mentre la lepre si preparava a cambiare vestito perché l’aria si era fatta meno cruda e ormai le nevi avevano preso congedo, sul roccione sovrastante la tana si vide un ghiacciolo ostinatamente aggrappato all’orlo della fenditura.

“Non ti decidi ad andartene?” gli chiese un giorno l’abete più vicino.

“I tuoi fratelli sono già partiti da un pezzo!
Finirai col non riuscire a raggiungerli!”
“Andarmene, io?
Io non me ne vado: rimango!
Durante l’inverno non ho fatto altro che sentir decantare la primavera con i suoi colori, l’estate con la sua luce e il vento che sembra una carezza, e la gioia dei fiori e dell’erba, e il cielo tutto lucido e pulito.
Perfino le lepri so che mutano d’abito, come per prepararsi ad una festa.
Perché proprio io non dovrei conoscere tante belle cose, se sono belle davvero?
Ho deciso perciò di restare fino alla primavera, magari fino all’estate!”
“Resta pure, se ci riesci!” replicò l’abete.
“Questo, amico bello, è affar mio!” concluse il ghiacciolo.
Quando l’aria cominciò a intiepidire, il ghiacciolo volle mettersi al riparo dal sole.
Si staccò dalla fenditura e si lasciò cadere in un’incavatura della roccia nella quale il sole non batteva e da cui avrebbe potuto assistere comodamente allo spettacolo atteso.
Ma quando si fu fermato, sentì che era caduto addosso a qualcosa.
“Che maniera villana di presentarsi!” brontolò quel qualcosa.
“Sono veramente mortificato!” esclamò il ghiacciolo, “Non avevo visto che c’era lei.

Se permette, anzi, mi presento:

io sono il ghiacciolo, l’ultimo ghiacciolo dell’inverno!”
“Bene, tanto piacere.
Io sono la cartuccia, una cartuccia di fucile da caccia!” spiegò la cartuccia.
“Ma come si trova qui, signora cartuccia?
È carica o scarica?
Che pensa della primavera e dell’estate?
Che programmi ha per il futuro?” domandò il ghiacciolo.
“Ragazzo, non prendiamoci confidenze!” replicò la cartuccia
Era una cartuccia molto dura e superba, e vedeva tutte le cose dal punto di vista delle cartucce.
“Sono di ottima marca, e… carica, naturalmente.
“E se mi trovo qui è solo a causa di uno spiacevole contrattempo.
Durante una battuta, il mio padrone mi ha smarrita, povero sciocco!
Andava a caccia della lepre, e io ero l’ultima cartuccia che gli restava.
La lepre può ringraziare il cielo:
se avesse avuto a che fare con me, non sarebbe scappata di certo.
Con me non si scherza!”

“Ma che le ha fatto la lepre?” chiese il ghiacciolo.

“Niente mi ha fatto.
Ma non doveva nascere lepre.
Se la trovo, l’accoppo!” esclamò la cartuccia.
“Via, c’è posto per tutti a questo mondo…” disse, sicuro, il ghiacciolo.
“Tu non immischiarti nei miei affari privati.
Spero solo che il cacciatore ripassi di qua e che mi veda.
Al resto penserò io!” conclusa la cartuccia.
L’aria si era fatta ormai mite e la lepre vagava nei dintorni in cerca di nutrimento.
Quanto al ghiacciolo, esso faceva una gran fatica a non sciogliersi, e cercava di aderire all’incavatura della roccia nel punto più profondo e più fresco.
Voleva a tutti i costi vedere i fiori dei rododendri, le stelle alpine, il tenero dell’erba novella, il cielo lucido e pulito nello sfolgorio della sua luce cilestrina.
Ormai non doveva attendere molto.
Ma un mattino, svegliandosi, non vide più la cartuccia.
Orme d’uomo, recenti, erano impresse nel suolo ai piedi del roccione.
Il cacciatore era passato di là?
La cartuccia aveva ritrovato il fucile?
Bisognava avvertire la lepre del pericolo, subito!
“Lepre! Lepre! Ehi, lepre!” si mise a gridare il ghiacciolo, “Non uscire!
C’è gente che ti minaccia qua intorno!”

Nessuno rispose.

La lepre certamente era fuori dalla tana.
Al ghiacciolo non rimase che starsene rincattucciato nell’incavatura della roccia a rimuginare pensieri uno più triste dell’altro.
Verso sera, trascinandosi a stento, la lepre fece ritorno alla tana.
Era malconcia, grondava sangue, aveva la febbre.
“Oh, poveretta, poveretta!” esclamò commosso il ghiacciolo che, in fondo, non aveva un cuore di ghiaccio, “Che ti è successo?
Chi è stato?
Quella sciagurata cartuccia?”
“Non so!” rispose la lepre con un filo di voce, cadendo sfinita sulla soglia della tana, “Ho visto una vampa.
Ho udito un sibilo.
Sono ferita.
Ho tanta sete…”
Il ghiacciolo non volle udire altro.
Si rotolò fin sul margine dell’incavatura, sulla roccia ancor calda dal sole, e cominciò rapidamente a sciogliersi.
Cadde in gocce fitte e refrigeranti sulle ferite della lepre, in gocce ristoratrici sulle labbra riarse.
“Chi piange lassù?” balbettò la lepre stupita, riavendosi a poco a poco.
Ma il ghiacciolo non poté più rispondere.
Si era ormai sciolto del tutto, senza neppur pensare che le stelle alpine e i rododendri non erano ancora fioriti, che il cielo non era ancora terso e azzurro.
Tutte cose che dovevano essere belle, oh molto belle, a vedersi.

Brano tratto dal libro “Tutte storie. Per la catechesi, le omelie e la scuola di religione.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

Lavorare troppo poco

Lavorare troppo poco

Nel 1984 mi trovai senza lavoro per il fallimento della fabbrica dove ero stato assunto.
Il riposo forzato durò solo otto giorni dato che degli amici universitari mi invitarono ad andare con loro a Cortina, visto che dovettero andare a cercare lavoro per la seguente stagione estiva.
Mentre attendevo il loro ritorno in macchina, improvvisamente mi vennero a chiamare.
In quell’albergo erano alla ricerca di un giardiniere tuttofare, ed insistettero affinché mi proponessi.

Alla fine venni assunto.

Il nuovo lavoro consisteva nel curare un piccolo giardino e nell’innaffiarlo.
Sfortunatamente l’estate piovosa rendeva tutto inutile, ma venivo comunque lodato per la bellezza momentanea del giardino.
Dovevo altresì aiutare il facchino a portare le valigie quando era oberato di lavoro, compito che svolgevo volentieri.
Siccome mi vergognavo, mi dileguavo subito dopo aver portato le valigie, senza attendere la mancia.
Gli ospiti quando mi incontravano, in un secondo momento,

insistevano affinché la accettassi.

La mancia era quasi sempre il doppio di quella del facchino che, diversamente da me, tendeva la mano.
Diventò geloso di quello che stava accadendo e mi chiamava sempre di meno.
Abituato al lavoro duro e costante della fabbrica, chiesi al direttore di farmi lavorare di più perché mi annoiavo.
Questi mi disse di mettermi nella hall dell’albergo e di stare con le mani dietro la schiena con la mia bella divisa per fare scena, compito che risultò essere di una sofferenza inaudita per me.

Allora decisi di inventarmi il lavoro, da solo.

Andavo in qualche stanza a svitare le lampadine e aspettavo che mi chiamassero per risolvere il problema; per la direzione divenni un bravo elettricista.
Un’altra invenzione che ebbe successo fu quella di appendere nell’ascensore, dopo averlo battuto a macchina, l’oroscopo del giorno, che copiavo con larga licenza da vecchi giornali, scrivendo solo belle parole per tutti i segni.
In alcuni momenti pensavo di essere anch’io un ospite del rinomato albergo e mi stupivo del fatto che mi pagassero.
Alla scadenza del mese, non ci crederete, mi licenziai, visto che mi facevano lavorare troppo poco, ed anche perché facevo le “notti piccole”, coinvolto nelle serate della mitica e tentacolare Cortina.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno