Aspetta un attimo, tesoro! (Samuele e la mamma)

Aspetta un attimo, tesoro! (Samuele e la mamma)

Ultimamente la fretta ha preso il sopravvento e la mia frase più frequente è:
“Aspetta un attimo, tesoro!”
Lo dico a mio figlio mentre accudisco la sua sorellina; lo dico a mia figlia mentre aiuta suo fratello e lo dico persino al mio paziente marito.
Mi ritrovo a pronunciare questa frase in una serie infinita di circostanze.
Alcune settimane fa, mio figlio mi ha chiesto di preparargli la merenda e io, naturalmente, gli ho risposto:

“Aspetta un attimo, tesoro!”

Mi sono affrettata a finire quello che stavo facendo e poi sono corsa a preparargli la merenda.
Lui si è seduto al tavolo e ha cominciato a mangiare di gusto mentre io già pensavo di tornare a occuparmi delle mie faccende, ma poi ho deciso di prendermi una pausa e di sedermi insieme a lui.
“Grazie per avere aspettato che finissi di riporre i piatti, prima di prepararti la merenda.
Sei stato davvero molto paziente!”
Lui annuì e continuò a riempirsi la bocca di Nutella.
“Sai una cosa, Samuele, ultimamente sono davvero molto indaffarata.
Ti devo chiedere sempre di aspettare un minuto prima di soddisfare le tue richieste.
Capisci, vero, perché qualche volta devi aspettare?”

Lui mi guardò con un’espressione buffa sul viso:

“Sì!” mi dici, “Un secondo, Samuele!” così mi puoi ascoltare con tutti e due le orecchie.
Se ti parlo mentre stai facendo qualcos’altro, mi puoi sentire soltanto con un orecchio.
Ma se aspetto con pazienza poi tu mi puoi sentire meglio!” mi disse annuendo solennemente.
Rimasi di stucco.
Il mio bambino, che non aveva ancora compiuto i cinque anni, aveva già trovato una spiegazione più che plausibile alla situazione.
Capii che quando gli dicevo:
“Aspetta un secondo!” lui interpretava quella frase come una dimostrazione d’affetto.
Era come se io gli dicessi:
“Aspetta un secondo, così ti potrò rivolgere tutta la mia attenzione!” o “Quello che stai dicendo è molto importante per me, voglio sentirlo con entrambe le orecchie!”
“Samuele, hai assolutamente ragione!” gli risposi, “Ti voglio tanto bene e mi piace tanto trascorrere il mio tempo con te.
Voglio sentire quello che mi dici con entrambe le orecchie perché tu sei molto importante nella mia vita!” aggiunsi abbracciandolo forte.
Quella sera, mentre rimboccavo le coperte a Samuele, lui mi prese la faccia fra le mani e cominciò a soffiarmi prima dentro un orecchio poi dentro l’altro.
Non capii che cosa stesse facendo e gli chiesi spiegazione del suo comportamento.
“Voglio essere sicuro che le tue orecchie siano pulite, mamma!”

Mi tirò a sé e mi sussurrò:

“Volevo essere certo che mi sentissi con tutti e due le orecchie mentre ti dicevo che ti voglio bene più del mondo intero!”
Sentii le lacrime salirmi agli occhi mentre gli rispondevo:
“Oh, tesoro, ti voglio tanto bene, anch’io più del mondo intero!”
“Ed io ancora un briciolo di più!” confermò lui con la sua adorabile vocina.

Brano senza Autore

La piccola vite

La piccola vite

Nello scafo di una gigantesca nave c’era una piccola vite, minuscola e insignificante, che insieme con altre viti, piccole e insignificanti come lei, teneva insieme due piastre d’acciaio.
Durante un viaggio in mezzo all’Oceano Indiano la piccola vite decise di averne abbastanza di quella sua esistenza oscura e mal ripagata (in tanti anni mai nessuno le aveva detto “grazie” per quello che faceva) e sbottò:

“Me ne vado!

Ho deciso!”
“Se te ne vai tu, ce ne andiamo anche noi!” dissero le altre viti.
Infatti, appena la piccola vite cominciò a ballare nel suo alloggiamento, anche le altre presero a traballare.
Ad ogni ondata, un po’ di più.

I chiodi che stringevano il fasciame della nave protestarono:

“Così anche noi siamo costretti a lasciare il nostro posto…”
“Per amor del cielo, fermati!” gridarono alla vite le piastre d’acciaio, “Se non c’è più nessuno che ci tiene insieme, per noi è finita!”
L’intenzione della piccola vite di lasciare il suo posto si propagò in un attimo per tutto il gigantesco scafo della nave.
L’intera struttura, che prima sfidava le onde con tanta sicurezza, cominciò a cigolare penosamente e a tremare.
Tutte le piastre, le nervature, le assi, le viti e anche i piccoli chiodi della nave decisero allora di mandare un messaggio alla vite perché rinunciasse al suo proposito:

“Tutta la nave si sfascerà, affonderà e nessuno di noi rivedrà la patria!”

La piccola vite si sentì lusingata da queste parole e scoprì improvvisamente di essere molto più importante di quanto pensava.
Allora mandò a dire a tutti che sarebbe rimasta al suo posto.

Brano tratto dal libro “365 piccole storie per l’anima.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

Il passero ed il girasole

Il passero ed il girasole

In una discarica abusiva, in un angolo abbandonato di una zona industriale di una città, era nato un girasole, che aveva fatto amicizia con un passero!
Il fiore era triste:
sognava un prato verde e farfalle svolazzanti.
“A che servo io qui?” si chiedeva.
Ma l’uccellino guardava il girasole, raggiante, a becco aperto:
“Come sei bello!
Sei meraviglioso!” trillava.
“Ci sono molte cose più belle!” rispondeva il saggio girasole, “Guardati intorno!”
Il buon passero si guardava diligentemente intorno, ma finiva sempre per voltarsi verso il girasole e pigolare con aria ammirata:

“Il più bello di tutti sei tu!”

Così, ogni giorno, il girasole prendeva coraggio e cresceva, tanto da troneggiare, ormai, sul mucchio di rifiuti.
La sua corona d’oro splendeva sempre di più!
Ma un giorno, al sorgere del sole, il fiore attese invano il suo piccolo amico.
Solo nel tardo pomeriggio sentì un pietoso pigolio ai suoi piedi!
Si piegò e vide il passero che si trascinava con un’ala ferita.
“Piccolo amico mio, che cosa ti è successo?” gli chiese.
“Un gabbiano mi ha colpito e da alcuni giorni non riesco a trovare niente da mangiare.
È la fine per me!” bisbigliò l’uccellino.
“No no!” urlò il girasole, “Aspetta un attimo!”
Il bel fiore scosse con vigore la sua grande corolla e una pioggia di semi scese sul passero.

“Mangiali, amico mio!

Ti daranno nuova forza!” disse il girasole.
Giorni dopo, il passero aveva ripreso vigore e, riconoscente, si voltò a guardare il girasole.
Ma fu ferito da una dolorosa sorpresa:
lo splendido fiore aveva perso i colori, le foglie penzolavano grigiastre e i petali erano terrei!
“Che cosa ti è successo bellissimo fiore?” pigolò.
“Il mio tempo è finito!” rispose il girasole.
“Ma me ne vado felice!
Per tanto tempo mi son chiesto quale crudele destino mi avesse fatto nascere in una discarica.

Ora ho capito:

sono stato un dono per te e ti ho ridato la vita!
Come tu sei stato un dono per me perché mi hai sempre incoraggiato.
Mangia tutti i semi che vuoi ma lasciane qualcuno!
Un giorno germoglieranno e, chissà, forse qui sorgerà una splendida aiuola!”

Brano senza Autore

Donarsi a Gesù

Donarsi a Gesù

Faceva un freddo pungente.
I pastori si scaldavano attorno al fuoco.
La notizia della nascita di un nuovo re, rivelata proprio a loro dalle luminose creature alate, li aveva sconvolti.

Volevano andare a vederlo e venerarlo e implorare da lui salute e pace.

Anche Filippo, il ragazzino che faceva da apprendista nel gruppo di pastori, aveva sentito l’annuncio degli angeli e stava già pensando a che cosa portare in dono al Bambino di Betlemme.
Ma se tutti i pastori si allontanavano, chi avrebbe badato alle pecore?
Non potevano certo lasciarle da sole!
Nessuno di loro voleva rinunciare a vedere il neonato Re.

Uno dei pastori ebbe un’idea:

sarebbe rimasto a custodire le pecore quello di loro che portava il dono più leggero.
Portarono la bilancia vicino al fuoco.
Il primo pose sulla bilancia una grossa anfora piena di latte e aggiunse una pesante forma di formaggio.
Il secondo portò una enorme cesta piena di mele.
Il terzo, a fatica, collocò sulla bilancia un voluminoso fascio di rami e ceppi d’albero, che sarebbero serviti per scaldare la stalla per un bel po′ di tempo.
Rimaneva solo Filippo.
Tristemente il ragazzo guardava la sua piccola lanterna, l’unica ricchezza che possedeva.
Era il dono che voleva portare al Bambino Re.
Ma pesava così poco.
Esitò un attimo.
Poi decisamente si sedette sulla bilancia con la lanterna in mano e disse:

“Sono io il regalo per il Re!

Un bambino appena nato ha certamente bisogno di qualcuno che porti la lampada per lui!”
Intorno al fuoco si fece un profondo silenzio.
I pastori guardavano il ragazzo sulla bilancia, colpiti dalle sue parole.
Una cosa era certa:
in nessun caso Filippo sarebbe rimasto al campo a custodire le pecore.

Brano tratto dal libro “I fiori semplicemente fioriscono.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

La formichina e la forza dell’amore

La formichina e la forza dell’amore

Il Re Salomone, un giorno, gironzolando per il deserto fu attratto da un formicaio!
Tutte le formiche si precipitarono ad ossequiare le sante impronte del Re.

Una sola non si curò minimamente della sua presenza!

Continuò, imperturbabile, a lavorare con invariata alacrità senza fermarsi un attimo.
Stava ai piedi di una duna di sabbia ed il Re si chinò su di lei, chiedendo:
“Che cosa fai, formichina?”
Senza distrarsi un attimo dal lavoro la formica gli rispose:
“Vedi, Re dei Re, un granello dopo l’altro io porto altrove questa duna!”

“Formichina generosa!”

le disse Salomone, “Non è un lavoro sproporzionato per le tue forze?
Questa duna è così alta che neanche riesci a vederne la cima.
Neanche con la longevità di Matusalemme, e la pazienza di Giobbe, potresti sperare di spostare questa duna!”
“Gran Re!” riprese la formica, “Faccio questo per amore della mia amata!

Questa duna mi separa da lei.

Niente e nessuno mi potrà impedire di abbatterla!
E se quest’opera dovesse consumare tutte le mie forze, almeno morirò nella misteriosa e felice follia della speranza!”
Così parlò la formica innamorata.
In questo modo il Re Salomone scoprì, sul sentiero del deserto, quanto può essere forte e coraggioso l’amore!

Brano senza Autore

La pioggia e Dio (Il perdono)

La pioggia e Dio
(Il perdono)

Era un pomeriggio piovoso e una signora stava percorrendo in auto una delle strade principali della città, facendo particolare attenzione poiché la strada era bagnata e scivolosa.
All’improvviso il figlio, seduto sul sedile accanto, disse:

“Sai mamma, sto pensando ad una cosa.”

La donna era curiosa di sapere quello che aveva scoperto con la sua testolina il bambino di sette anni:
“Cosa hai pensato?”

“La pioggia,” iniziò a spiegare,

“è come il peccato e i tergicristalli sono come Dio, che spazza via i nostri peccati.”
Superato lo stupore, la mamma chiese:
“Hai notato che la pioggia continua a cadere?

Cosa significa secondo te?”

Il bambino non esitò un attimo a rispondere:
“Noi continuiamo a peccare e Dio continua a perdonarci”.

Brano tratto dal libro “La vita è tutto quello che abbiamo.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Il cucchiaio

Il cucchiaio

Un noto scrittore, autore di best seller di fama internazionale, andò a mangiare in un caratteristico ristorante nel ridente asolano, dove venivano servite le specialità povere tipiche del Veneto, improvvisamente tornate di moda.
Alle pareti del ristorante erano appese le fotografie dei personaggi famosi che avevano visitato il locale, tra cui un premio Nobel e, conseguentemente, anche la sua foto sarebbe dovuta finire insieme alle altre.
Lo scrittore era molto proficuo nello scrivere, ma avaro di parole e, quando fu il momento della comanda, quando gli chiesero cosa desiderasse, rispose semplicemente:

“La specialità della casa.”

Il titolare, desiderando fare bella figura con l’illustre intellettuale, riservò per lui un cameriere, quello con la maggiore esperienza, nonché sommelier.
Gli venne servita un’invitante “Soppa Coada”, detta anche “zuppa Covata”, che altro non è che un piatto povero, fatto di avanzi di pane raffermo, verdure, brodo caldo e piccione.
Lo scrittore guardò benevolo il caratteristico piatto, ma dopo un attimo di riflessione scuotendo la testa disse:

“Questo non la posso mangiare.”

Il cameriere sottrasse subito il piatto pensando fosse vegetariano e di gran corsa lo sostituì con un fumante minestrone di fagioli.
Accolse il piatto con un largo sorriso accennando un applauso, ma ripeté:
“Anche questo non lo posso mangiare.”

Il cameriere, affranto e tutto rosso in viso, chiese:

“Perché?”
La risposta dell’intellettuale fu:
“Perché non mi avete portato il cucchiaio.”

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

La candela che non voleva bruciare

La candela che non voleva bruciare

Questo non si era mai visto:
una candela che rifiuta di accendersi.
Tutte le candele dell’armadio inorridirono.
Una candela che non voleva accendersi era una cosa inaudita!
Mancavano pochi giorni a Natale e tutte le candele erano eccitate all’idea di essere protagoniste della festa, con la luce, il profumo, la bellezza che irradiavano e comunicavano a tutti.
Eccetto quella giovane candela rossa e dorata che ripeteva ostinatamente:

“No e poi no!

Io non voglio bruciare.
Quando veniamo accese, in un attimo ci consumiamo.
Io voglio rimanere così come sono:
elegante, bella e soprattutto intera!”
“Se non bruci è come se fossi già morta senza essere vissuta!” replicò un grosso cero, che aveva già visto due Natali, “Tu sei fatta di cera e stoppino ma questo è niente.
Quando bruci sei veramente tu e sei completamente felice.”

“No, grazie tante,”

rispose la candela rossa, “ammetto che il buio, il freddo e la solitudine sono orribili, ma è sempre meglio che soffrire per una fiamma che brucia.”
“La vita non è fatta di parole e non si può capire con le parole, bisogna passarci dentro,” continuò il cero, “solo chi impegna il proprio essere cambia il mondo e allo stesso tempo cambia se stesso.
Se lasci che la solitudine, il buio e il freddo avanzino, avvolgeranno il mondo!”
“Vuoi dire che noi serviamo a combattere il freddo, le tenebre e la solitudine?” chiese la candela.
“Certo,” ribadì il cero, “ci consumiamo e perdiamo eleganza e colori, ma diventiamo utili e stimati.
Siamo i cavalieri della luce.”
“Ma ci consumiamo e perdiamo forma e colore?”

domandò ancora la candela.

“Sì, ma siamo più forti della notte e del gelo del mondo!” concluse il cero.
Così anche la candela rossa e dorata si lasciò accendere.
Brillò nella notte con tutto il suo cuore e trasformò in luce la sua bellezza, come se dovesse sconfiggere da sola tutto il freddo e il buio del mondo.
La cera e lo stoppino si consumarono piano piano, ma la luce della candela continuò a splendere a lungo negli occhi e nel cuore degli uomini per i quali era bruciata.

Brano di Bruno Ferrero

Cacciatori di scimmie

Cacciatori di scimmie

I cacciatori di scimmie hanno escogitato un metodo geniale e infallibile per catturarle.
Quando hanno scoperto la zona della foresta in cui più spesso si radunano,

affondano nel terreno dei vasi con il collo lungo e stretto.

Con molta attenzione coprono di terra i vasi, lasciando libera solo l’apertura a pelo d’erba.
Poi mettono nel vaso una manciata di riso e bacche, di cui le scimmie sono molto ghiotte.

Quando i cacciatori si sono allontanati, le scimmie ritornano.

Curiose per natura, esaminano i vasi e, quando si accorgono delle ghiottonerie che contengono, infilano le mani dentro a abbrancano una grossa manata di cibo, la più grossa possibile.
Ma il collo dei vasi è molto stretto.
Una mano vuota vi scivola dentro, quando è piena non può assolutamente venire fuori.

Allora le scimmie tirano, tirano.

È il momento che i cacciatori, nascosti nei paraggi, aspettano.
Si precipitano sulle scimmie e le catturano facilmente.
Perché esse si dibattono violentemente, ma non le sfiora neppure per un attimo il pensiero di aprire la mano e abbandonare ciò che stringono in pugno.

Brano tratto dal libro “Il canto del grillo.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.