Il pinguino colorato

Il pinguino colorato

Quando mise fuori la testa dall’uovo, fu accolto dalla felicità di tutti.
La comunità dei pinguini dell’Isola Azzurra si strinse intorno a Priscilla e Dagoberto, i suoi genitori, che avevano gli occhi luccicanti e non stavano più nel frac per l’orgoglio.
Perché Filippo era davvero un bel neonato di pinguino.
Aprì il becco ed emise un robusto vagito.
Tutti i pinguini presenti applaudirono.
“È un ottimo segno!” disse lo zio Fortebecco, “È impaziente di affrontare la vita!”
Filippo, in effetti, partì alla carica della vita con una gran dose di energia.
Appena le sue zampette furono abbastanza robuste, si allontanò dallo sguardo premuroso dei genitori per infilarsi fra i più discoli dei piccoli pinguini della comunità.

Erano tutti più anziani di lui, ma nessuno lo batteva in coraggio e temerarietà.

Fu Filippo il primo piccolo di pinguino che osò scivolare dalla punta del grande iceberg fino al mare, anche se poi non poté sedersi per due settimane a causa del bruciore sotto la coda.
Fu sempre Filippo, il coraggioso piccolo pinguino, che portò via la colazione all’enorme e spaventoso tricheco Baffodiferro.
Nella banda dei “pinguini irsuti”, chiamati così perché si rifiutavano sistematicamente di lasciarsi pettinare le piume del capo dalle loro mamme, Filippo divenne l’incontrastato boss.
“Perché sei sempre così agitato, Filippo mio?” gli chiedeva la mamma, un po’ in ansia per quel figlio che cresceva così scapestrato.
Con gli amici, Dagoberto era sinceramente preoccupato:
“Quel monello ha bisogno di una bella strigliata!”
Così spesso, alla sera, Dagoberto, Priscilla e Filippo rappresentavano, senza volerlo, la versione pinguinesca del processo di Norimberga.
“È tutta colpa tua!” diceva la mamma.
“No, tua!” esclamava il papà, “Anzi, è colpa di Filippo!”
La mamma piangeva, papà sbatteva la porta e Filippo gridava:

“Non ne posso più!”

Un giorno il pinguino Filippo se ne stava sdraiato su una roccia a picco sul mare ed osservava annoiato il formicolio dei pinguini della comunità.
Sembravano tutti felici; lui, invece si sentiva pieno di amarezza.
“Che barba!
Un posto tutto bianco, grigio e nero.
Dove nessuno si fa i fatti suoi…
Deve pur esserci un paese colorato.
Pieno di gente colorata.
Potrei diventare anch’io pieno di colori…
Non ne posso più di questa camicia bianca e di questo ridicolo frac!”
E, impulsivo com’era, si lasciò scivolare giù dalla roccia, si tuffò tra le onde e nuotò via dall’Isola Azzurra.
Approdò alla Terraferma.

Gli avevano sempre raccomandato di evitare il litorale.

I pinguini si tenevano prudentemente alla larga dagli anfratti in ombra degli scogli, dove le onde infrangevano con violenza rabbiosa, e foche, piccoli cetacei e altri predatori si acquattavano per far strage degli imprudenti.
“Adesso sono libero e faccio come mi pare!” si disse Filippo.
Si arrampicò a fatica e si incamminò sulla spiaggia.
Un forte sbattere d’ali alle sue spalle lo mise in guardia.
Un giovane cormorano aveva deciso di attaccarlo.
Ma Filippo era robusto e dotato di un becco forte e tagliente.
Lottarono per un po’, facendo volare piume da tutte le parti.
Filippo ci mise tutta la sua rabbia.
Il cormorano cominciò a perdere sangue da una ferita alla gola e si spaventò.
Si ritirò dal combattimento e volo via lamentandosi e imprecando.
“Aah!”” fece Filippo, gonfiando il petto con soddisfazione.
Alcune gocce di sangue del cormorano erano finite sulle sue piume bianche.

Il pinguino guardò le macchie rosse e disse:

“Bene! Comincio ad essere colorato!”
Ondeggiando, ma più che mai risoluto a continuare la sua esplorazione, Filippo si inoltrò tra le rocce.
“Ehi, amico!” una voce alle sue spalle lo fece voltare di scatto.
Era pronto di nuovo a combattere, ma di fronte si trovò solo un gabbiano giovane e inoffensivo.
“Ti ho visto sistemare il cormorano!” disse il gabbiano, “Sei un duro, tu!”
“Certo!” rispose Filippo.
“Ti invito a pranzo!” insinuò furbescamente il gabbiano.
“Che cosa vuoi dire?” chiese Filippo.
“Andiamo a rubare le uova dai nidi delle rondini di mare, che ne dici?
In due non oseranno farci niente!” spiegò il gabbiano.
Fecero una scorpacciata di uova.
Le povere rondini di mare tentarono invano di difendere i loro nidi.
I due briganti mulinavano ali e becchi.

Alla fine, Filippo si guardò il petto:

era tutto macchiato dal giallo e arancione dei tuorli d’uovo.
“Altri colori!” si disse, “Questa è vita!”
Dietro di lui, si sentiva solo il disperato pigolare delle rondini di mare, che piangevano i nidi e le uova distrutte.
Si installò in una grotta di ghiaccio azzurra, e ne fece il suo covo.
Un gruppetto di gabbiani e perfino un’otaria con un occhio solo lo riconobbero come capo banda.
Le scorribande del gruppetto furono ben presto temute da tutti.
Filippo veniva chiamato semplicemente “Il pinguino colorato”.
Infatti la sua elegante livrea bianca e nera era sparita sotto i segni delle imprese che aveva affrontato.
Oltre il rosso del sangue e il giallo delle uova rubate, c’erano tracce verdi, azzurre e anche ciuffi di pelo argentato, che gli erano rimasti attaccati dopo un’epica lotta contro un Husky randagio.
Ma che serviva essere diventato davvero il primo pinguino a colori, se non poteva farsi ammirare dai suoi vecchi amici e dalla sua famiglia?

Il pensiero dell’Isola Azzurra prese a torturarlo.

Anche se non voleva ammettere, sentiva un bel po’ di nostalgia dell’allegra comunità dei pinguini.
“Avere una vita colorata non è proprio come me la immaginavo!” si diceva sempre più spesso.
Quella esistenza di fughe, attacchi, lotte e brigantaggio non gli piaceva più tanto.
Un mattino riprese la via del mare e tornò a casa
I primi pinguini dell’Isola Azzurra che incontrò erano dei piccoli che giocavano sulle lastre di ghiaccio galleggianti.
Appena lo videro si misero a strillare e scapparono gridando:
“Un mostro!
Un mostro!”
Gli adulti fecero largo al suo passaggio, ma non per fargli onore.
Lo guardavano tutti con una sorta di ribrezzo.
“Ma perché?
Idioti, sono io, non mi riconoscete?” brontolava Filippo.
“Filippo, figliuolo, lo sapevo che saresti tornato!”
La mamma naturalmente lo riconobbe, ma non osò abbracciarlo.
“Ma in che stato sei!”
“Bentornato, Filippo!” gli disse anche il papà.

Ma non lo toccò.

Le comari tutt’intorno borbottavano:
“Che disgrazia!
Poveri genitori…”
Per la prima volta nella sua vita, a Filippo venne voglia di piangere.
Improvvisamente comprese che i suoi colori continuavano a tenerlo lontano; lo rendevano straniero alla comunità dell’Isola Azzurra.
Mentre lui, solo adesso, si accorgeva che soltanto lì poteva essere veramente felice.
Ma come si fa a tornare indietro?
“Papà!” chiese, “Vorrei cancellare questi colori e ricominciare, se è possibile!”
Dragoberto esitò, poi guardò Filippo negli occhi e disse:
“C’è un mezzo solo:
devi tuffarti dalla Grande Cascata.
Laggiù l’acqua è così violenta e rapida che nessun colore può resistere.
Ma è tremendamente rischioso.
Ci vorrà il tuo coraggio.
Te la senti di farlo?”
“Si, papà!” rispose Filippo.

La voce si sparse in un attimo.

Nel giro di pochi minuti c’erano tutti, grandi e piccoli, intorno alla grande cascata.
Non riuscirono a trattenere un “Oh!” sincero quando in alto, dove il fiume precipitava in mare con un fragoroso boato, apparve Filippo.
Sembrava così piccolo lassù.
Rimase un attimo fermo a concentrarsi, poi spiccò il salto.
Un salto stupendo, come se improvvisamente gli fossero spuntate le ali.
La corrente lo ghermì come un fuscello e lo scagliò violentemente nel mare ribollente e schiumante.
Il pinguino sparì nel vortice.
Tutti trattennero il fiato.
Poi ad un tratto Filippo riemerse.
La forza stessa dell’acqua lo proiettò in alto e tutti videro che le sue piume erano diventate immacolate e che i colori erano scomparsi.
Allora esplosero in un festoso:
“Urrà!” che coprì perfino il tuonare dell’acqua.

Brano tratto dal libro “Storie belle e buone.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

La chiave d’oro

La chiave d’oro

Paolino aveva alcune cose che lo soddisfacevano, come 12 (dodici) anni, un discreto dribbling, i capelli rossi e 24 (ventiquattro) lentiggini sul naso.
Altre gli piacevano un po’ meno, come dover andare a scuola, la lingua inglese e Giorgio, il suo amico-nemico dichiarato, che gli aveva affibbiato il soprannome di “ketchup” (sempre per via dei capelli).
Per il resto Paolino era un ragazzo come tanti, spesso stanco, disubbidiente Q. B. (quanto basta), gentile e affettuoso nei momenti giusti.
Ma un pomeriggio, avvenne qualcosa che cambiò, in un certo senso, la sua vita.
Era la ventesima volta che Paolino rileggeva la pagina di storia.
Ma non c’era niente da fare: non capiva nulla.
Tutti quei Francheschi, Carli, Enrichi, re ora di qua, ora di là, facevano una gran confusione nella sua testa.

Era stufo e arcistufo.

Sbuffò con la forza di un ippopotamo e sparò un calcio da “telebeam” al cestino della carta.
Dalla cucina filtravano le risate delle sorelline (5 e 3 anni) che guardavano i cartoni animati alla televisione.
“Diventare grandi è una rottura!” pensò per un momento, ma solo per un momento.
Stava per mandare il libro di storia a far compagnia al cestino della carta, quando qualcosa attirò la sua attenzione.
Un leggero picchiettio alla finestra.
Corse a guardare.
Sul davanzale c’era un colombo bianco.
Paolino aprì la finestra.
“Avrà fame!” pensò.
Allungò la mano piano piano:
il colombo non volò via, anzi, andò incontro alla sua mano.
Portava qualcosa di luccicante nel becco.
Con un rapido movimento del capo lo posò nel palmo della mano del ragazzo e poi in un frullo d’ali volò via.

Paolino guardò il regalo del colombo:

era una piccola chiave d’oro.
Si sentiva stranamente tranquillo, come se i colombi che vanno in giro a distribuire chiavi d’oro, fossero una cosa assolutamente normale.
Nel cassetto della scrivania trovò un laccio di cuoio, lo fece passare nell’occhiello della chiave e se lo infilò al collo.
Il giorno, dopo a scuola, tutti ammiravano il suo ciondolo.
“È nuovo?” gli chiese perfino Giorgio.
“No. È lavato con Perlana!” rispose Paolino, tanto per non smentirsi.
Qualcuno gli chiese dove l’avesse preso.
Ma non osò raccontarlo.
Il fatto strano cominciò durante l’intervallo.
Riccardo e Walter lo attaccarono pesantemente sulla diletta Juventus.
La sua squadra del cuore era stata sconfitta la domenica precedente e Paolino l’aveva presa male.
Perfidamente, i due amici cominciarono a farsi beffe di lui, e questo lo poteva sopportate, ma poi attaccarono la squadra, e questa era un’onta da lavare con i pugni.
C’era un angolino nel cortile costantemente fuori portata degli sguardi indagatori degli insegnanti.
Era là che si regolavano le sfide a botte.

Paolino era grosso e svelto:

non aveva certo paura dei suoi compagni.
Li sfidò a raggiungerlo nel cortile.
Era là che aspettava con i pugni chiusi, quando vide sul muro una serratura, lieve ma ben definita.
Chi era quel matto che disegnava serrature sul muro?
La serratura, però, non era disegnata.
Era reale.
Paolino la guardò a bocca aperta, poi capì.
Si sfilò la chiave dal collo e provò nella serratura.
Entrava perfettamente.
La girò piano piano, con il cuore che batteva.
Nel muro si aprì come uno sportello.
Dentro c’era un cielo sereno in cui spiccava nitido e colorato un magnifico arcobaleno.
Sembrava così vicino che Paolino allungò la mano:
l’arcobaleno si avvolse come una sciarpa di seta attorno alla sua mano.
In quell’istante lo sportello nel muro sparì.
Riccardo e Walter arrivarono pronti a fare a botte, ma Paolino allargò le braccia in segno di resa.
Non riusciva proprio a stringere a pugno la mano che era stata fasciata dall’arcobaleno.
Sorpresi dall’improvviso gesto di pace, Riccardo e Walter divennero subito più amichevoli e si avvicinarono a Paolino, quasi sorridenti.
“Bè, dopotutto, la Juventus non è da buttar via!” disse Walter.
La seconda volta successe a casa.
Dopo pranzo.
“Per piacere, Paolino,” disse la mamma, “oggi resta in casa e tieni d’occhio le sorelline.
Devo uscire per delle commissioni e non posso portarle con me!”

“Ma mamma!

Ho promesso di andare all’oratorio con Giorgio:
è il mio pomeriggio libero!
Porta Elena ed Evelina dalla nonna!”
“La mamma ti ha chiesto un piacere, Paolo!” ribatté con aria severa il papà, “Oggi rimani a casa, chiaro?”
“Uffa! È sempre così!
E io esco lo stesso!”
Paolino sbatté la sedia contro il tavolo con malagrazia e si rifugiò nella sua cameretta.
“Esco lo stesso!” si disse, e si infilò il giubbotto.
Era a un passo dalla porta d’ingresso, quando apparve di nuovo, sul muro del corridoio, la misteriosa serratura.
Questa volta Paolino non ebbe dubbi.
Introdusse la chiave d’oro nella serratura, che, come la prima volta, scattò morbidamente.
Lo sportello magico si aprì e, dentro il muro, come in un armadietto, Paolino vide una carezza del papà e un bacio della mamma.
Erano le due cose più belle della sua vita, le purtroppo rare carezze di papà lo riempivano di fierezza e i baci della mamma facevano passare tutto:

le delusioni, il mal di pancia, i brutti voti e le paure.

Lentamente tornò indietro, mentre lo sportello nel muro spariva.
“E va bene!” brontolò, “Farò la guardia a quei due esseri pestilenziali!”
Quella sera non era la più adatta a rialzargli l’umore, nonostante la buona azione del pomeriggio.
Il giorno dopo sarebbe quasi certamente stato interrogato in inglese e perciò gli toccava studiare proprio la materia che gli risultava più indigesta.
Ogni due verbi inglesi accendeva la radio per distrarsi un po’.
Dopo un’ora aveva studiato esattamente quattro verbi.
“Di questo passo a mezzanotte sarò ancora qui, accidenti a questa rottura!” sbuffava.
Fu così che vide la serratura per la terza volta.
Era nell’aria, dietro la lampada da tavolo.
Paolino prese la chiave d’oro e aprì il solito sportello.
Dentro, questa volta c’era lui.
Vide se stesso che saliva una scala che si perdeva nelle nuvole.
Mentre saliva, gli scalini dietro di lui scomparivano.
Per quella scala si poteva solo salire.

Era impossibile tornare indietro.

Anche questa volta Paolino capì.
Spense la radio e cominciò a studiare.
Non poteva buttare via gli “scalini”:
non li avrebbe recuperati mai più.
Così la chiave d’oro cambiò la vita di Paolino.
Apparentemente era rimasto il ragazzo di prima, con 12 anni, un discreto dribbling, i capelli rossi, 24 lentiggini sul naso e un amico-nemico che lo chiamava “ketchup”, ma in lui qualcosa era diverso.
Se ne accorse perfino il preside che un giorno, mentre Paolino si preparava a battere un “corner” durante la partita nel cortile della scuola, gli passò vicino e gli disse:
“E bravo Paolino!
Hai trovato la chiave della saggezza?”
“Proprio così!” rispose Paolino.
E tirò un magnifico “corner”.
Ma Riccardo, come al solito, “ciccò” ignobilmente il pallone.

Brano tratto dal libro “Altre storie. Per la scuola e la catechesi.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

San Bruno e le rane

San Bruno e le rane

C’era una volta un santo, tanto tanto santo, magro magro, allampanato e sempre vestito con un ampio saio bianco.
Si chiamava Bruno, ma era così buono che tutti lo chiamavano “San” Bruno.
Non mangiava mai carne né dolci e si nutriva in pratica di insalata, senza olio.
La cosa che piaceva di più a san Bruno era parlare con Dio e perciò passava il giorno e gran parte della notte in preghiera.
San Bruno si era costruito una capanna in una vallata selvaggia tappezzata di boschi e cespugli arruffati.

E, ahimè, anche di qualche stagno.

E gli stagni, come si sa, sono popolati di rane garrule e chiacchierone.
Così, quando san Bruno si immergeva nella preghiera appassionata della sera, attraverso le finestre arrivava il “cra-cra” incessante e ossessionante delle rane.
Tanto più che al gracidio si aggiungevano i ronzii di mosche e zanzare, il rumore dei becchi degli aironi, il frusciare delle foglie.
San Bruno cercava di concentrarsi nella preghiera e stringeva con feroce intensità il suo crocefisso, ma le rane instancabili si davano il cambio e non smettevano mai.
San Bruno si metteva a recitare le preghiere a voce altissima, gridando con tutte le sue forze per vincere l’irrefrenabile gracidio delle rane, ma non serviva a niente.
Sempre più irritato, allora, si affacciò alla finestra e gridò:
“Silenzio!
Sto pregando!”
Era un santo e gli ordini dei santi sono sempre ascoltati.
Immediatamente, i boschi e gli stagni piombarono nel silenzio, come un fuoco che si spegne, e la capanna di san Bruno fu avvolta da un silenzio profondo e ovattato.

“Oh, finalmente!” sospirò san Bruno.

Rospi e rane non facevano più il minimo rumore, gli aironi guardavano la finestra della capanna con il becco chiuso, le mosche e le zanzare non osavano decollare dalle foglie su cui si erano posate e perfino il venticello della sera taceva.
Soddisfatto, il santo riprese la sua preghiera.
Ma non era contento, si sentiva a disagio.
E chiara, all’interno della sua preghiera, sentì una voce che diceva:
“E se a Dio il canto delle rane piacesse più delle tue preghiere?”
Sorpreso e turbato, il santo rispose:
“Ma come può Dio trovare piacevole il gracidare delle rane o il ronzio delle zanzare?
O qualsiasi altro rumore?
E poi, perché mai Dio ha creato il rumore?”
In preda a questi interrogativi, san Bruno si affacciò di nuovo alla finestra e, pentito, disse:

“Vabbé! Fate come volete!”

Tutto ricominciò come prima.
Insetti e rane riempirono di un ritmo dolce il silenzio della notte.
Le orecchie di san Bruno non opposero più resistenza e quello che prima gli pareva un ignobile fracasso.
Gli sembrò improvvisamente una musica incantata e stupenda che avvolgeva tutto.
Pieno di stupore, il santo sentì che il suo cuore batteva all’unisono con l’universo.
E che il bosco, il cielo, i cespugli, il vento e le creature piccole e grandi della terra erano una meravigliosa preghiera.
Da quella sera, San Bruno divenne famoso come “Il santo che prega con le rane!”

Brano senza Autore

Fonte: Bollettino Salesiano, biesseonline.

La pallina d’oro

La pallina d’oro

Molto tempo fa c’era un giovane che se ne andava in giro tra i boschi pensando a cosa dovesse fare della sua vita, quale fosse la strada giusta da imboccare e come poteva fare per guadagnarsi un pezzo di pane.
Mentre camminava sentì una voce che lo chiamava e, dopo aver guardato in giro, scoprì un fringuello su un ramo che gli parlava con voce umana:
“Bel giovane, fermati e ascolta.
Adesso canterò la mia canzone; mentre la canto dovrai prendermi e scuotermi senza farmi male.

Vedrai che dal becco mi uscirà una pallina d’oro:

raccoglila e mettila in tasca, così diventerai capace di saper sempre ciò che è bene e ciò che è male, ciò che è giusto e ciò che è ingiusto e, in ogni momento saprai che cosa è meglio per te.
Quanto a me mi addormenterò nel cavo dell’albero e tu potrai andartene per la tua strada!”
Così andarono le cose e il giovane riprese il cammino con la pallina d’oro in tasca, finché arrivò in una città con ricche botteghe e bei palazzi, dove la gente vendeva e comprava, mangiava e dormiva, leggeva e scriveva, discuteva e correva come in tutte le città del mondo.
Solo che qui tutti, grandi e piccoli, vecchi e giovani, piangevano a dirotto senza mai smettere.
Il giovane sentì che la pallina, misteriosamente, gli impediva di tirare dritto ed una vocina gli suggeriva.
“Tu devi fare qualcosa per questa gente!”
Sentendosi pieno di coraggio, andò subito dal re che singhiozzava sul suo trono e gli disse di non preoccuparsi perché era arrivato ad aiutarli.
“Ad aiutarci?” rispose il re piangendo ancora più forte, “Non sai che la nostra città è minacciata da un terribile drago che mangerà tutti noi se non gli consegniamo ad una ad una le nostre ragazze più belle?

Ne ha già prese nove e l’ultima è mia figlia!”

Il giovane sentiva che la pallina gli infondeva sempre più coraggio e con sua stessa sorpresa rispose:
“Vi do la mia parola che domani vi porterò la testa e la coda del drago, così le vostre disgrazie finiranno!”
Il re pensò che fosse pazzo:
i suoi più bravi cavalieri avevano fallito nell’impresa, come poteva un ragazzo così giovane e senza spada e armatura far meglio di loro?
Il giovane indovinò i suoi pensieri, sorrise chiese una spada e dei viveri.
Gli portarono due spade:
una di purissimo acciaio intarsiato d’oro e d’argento che mandava bagliori in tutta la sala e l’altra semplice, ordinaria e pensante che sapeva di sudore e fatica.
Il giovane stava allungando la mano per prendere la prima quando la pallina d’oro fece sentire la sua voce consigliando di prendere l’altra:
“Non tutto ciò che luccica è utile, le cose serie, il più delle volte, non hanno un aspetto attraente!”
Il giovane prese la vecchia spada e partì verso la collina.
Lassù il drago si era costruito un castello di ferro con sette porte e sette torri, circondato da un fossato pieno d’acqua sporca ed enormi coccodrilli.
Il giovane percorse il ponte ed arrivò alla prima porta, bussò e il drago aprì.
Quando lo vide e sentì le richieste del giovane che lo invitava a lasciar stare gli abitanti del paese e a restituire le ragazze, scoppio a ridere e la porta si chiuse con un terribile tonfo e il ponte dietro il giovane crollò.

Al ragazzo non restava che andare avanti.

Si avviò verso le porte e vide che ognuna portava una scritta, “Porta dei Re”, “Riservata ai Principi”, “Di qui passano i cavalieri” e così via finché sulla settima trovò scritto:
“Entrata.”
Pensò, su suggerimento della pallina, di non essere un nobile e quindi aprì la settima porta.
Si udì il grido infuriato del drago che non capiva come il giovane avesse trovato la porta giusta, infatti, dietro alle altre c’erano numerose trappole e trabocchetti e centinaia di cavalieri che vi erano caduti dentro.
Il giovane, attraversato un lungo corridoio, arrivò in un’ampia sala dove giovani e ragazzi elegantemente vestiti, ridevano, ballavano e mangiavano cibi dal profumo invitante.
Lo presero invitandolo a stare con loro e a divertirsi lasciando perdere l’idea di aiutare gli abitanti piagnoni, tanto nessuno lo avrebbe ricompensato.
Il giovane esitò, ma la pallina d’oro bruciava come fuoco.
Emise un gran sospiro e disse:
“Ho dato la mia parola!” e passò oltre.
La parete si aprì, tutti svanirono poiché erano illusioni create dal drago e il giovane si trovò davanti allo stesso drago.
Era arrivato il momento del combattimento ma il drago prima offrì al giovane un’armatura preziosa.
“Fossi matto, questa renderebbe i miei movimenti goffi e impacciati” e, così dicendo, rifiutò.
La pallina d’oro approvò la decisione, il drago era terrorizzato e con due colpi di spada il giovane gli tagliò la testa e la coda.
Dal castello uscirono una dopo l’altra le otto ragazze che teneva prigioniere, ma mancava l’ultima:

la figlia del re.

Gli raccontarono che era stata trasformata in un fringuello ed era riuscita a fuggire nel bosco.
Il giovane si ricordò dell’uccello che gli parlò con voce umana e corse nel bosco.
Addormentata sotto all’albero c’era la principessa, il giovane la svegliò e la riportò a casa insieme alle altre ragazze.
La tristezza nel paese finì e, come succede nelle fiabe, il giovane povero sposò la figlia del re.

Brano tratto dal libro “Nuove storie. Per la scuola e la catechesi.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Il passero ed il girasole

Il passero ed il girasole

In una discarica abusiva, in un angolo abbandonato di una zona industriale di una città, era nato un girasole, che aveva fatto amicizia con un passero!
Il fiore era triste:
sognava un prato verde e farfalle svolazzanti.
“A che servo io qui?” si chiedeva.
Ma l’uccellino guardava il girasole, raggiante, a becco aperto:
“Come sei bello!
Sei meraviglioso!” trillava.
“Ci sono molte cose più belle!” rispondeva il saggio girasole, “Guardati intorno!”
Il buon passero si guardava diligentemente intorno, ma finiva sempre per voltarsi verso il girasole e pigolare con aria ammirata:

“Il più bello di tutti sei tu!”

Così, ogni giorno, il girasole prendeva coraggio e cresceva, tanto da troneggiare, ormai, sul mucchio di rifiuti.
La sua corona d’oro splendeva sempre di più!
Ma un giorno, al sorgere del sole, il fiore attese invano il suo piccolo amico.
Solo nel tardo pomeriggio sentì un pietoso pigolio ai suoi piedi!
Si piegò e vide il passero che si trascinava con un’ala ferita.
“Piccolo amico mio, che cosa ti è successo?” gli chiese.
“Un gabbiano mi ha colpito e da alcuni giorni non riesco a trovare niente da mangiare.
È la fine per me!” bisbigliò l’uccellino.
“No no!” urlò il girasole, “Aspetta un attimo!”
Il bel fiore scosse con vigore la sua grande corolla e una pioggia di semi scese sul passero.

“Mangiali, amico mio!

Ti daranno nuova forza!” disse il girasole.
Giorni dopo, il passero aveva ripreso vigore e, riconoscente, si voltò a guardare il girasole.
Ma fu ferito da una dolorosa sorpresa:
lo splendido fiore aveva perso i colori, le foglie penzolavano grigiastre e i petali erano terrei!
“Che cosa ti è successo bellissimo fiore?” pigolò.
“Il mio tempo è finito!” rispose il girasole.
“Ma me ne vado felice!
Per tanto tempo mi son chiesto quale crudele destino mi avesse fatto nascere in una discarica.

Ora ho capito:

sono stato un dono per te e ti ho ridato la vita!
Come tu sei stato un dono per me perché mi hai sempre incoraggiato.
Mangia tutti i semi che vuoi ma lasciane qualcuno!
Un giorno germoglieranno e, chissà, forse qui sorgerà una splendida aiuola!”

Brano senza Autore

La conchiglia e la beccaccia

La conchiglia e la beccaccia

Su di una spiaggia, una conchiglia si aprì per esporsi ai raggi del sole.
Una beccaccia passò di lì ed allungò il becco a punta con l’intenzione di cibarsi della polpa del mollusco.
La conchiglia, di fronte al pericolo, si richiuse,

imprigionando così il becco dell’uccello.

La beccaccia tentò di liberarsi dalla stretta… inutilmente!
Da parte sua la conchiglia, sempre attaccata al becco del volatile, non rischiava di abbandonare la presa.
Fu così che i due rimasero imprigionati l’uno all’altro.

L’uccello pensava:

“Cederà prima lei, per mancanza di acqua!”
La conchiglia si diceva:
“Aspetterò a liberare il becco, finché lui morirà di sete!”

Ad un certo punto, arrivò un pescatore.

S’impadronì della beccaccia e del mollusco e s’incamminò verso casa, soddisfatto del provvidenziale bottino…

Brano senza Autore

Le pernici superbe

Le pernici superbe

Una numerosa colonia di pernici argentate si era stabilita ai bordi di un bosco.
Ma un cacciatore si accorse di loro e tese le sue reti.
Una volta prigioniere delle maglie della rete, le sfortunate pernici si dibattevano invano.
Una pernice saggia e anziana radunò le pernici scampate alla cattura e cercò di insegnare loro una tattica per salvare le piume.
“Sorelle mie,” disse, “state ben attente!
Avete visto come cadono le reti del cacciatore, nel prato.
Se per disgrazia ci finite dentro, dovete semplicemente infilare la testa nelle maglie della rete e poi battere le ali con forza tutte insieme.
Riuscirete a sollevare la rete e lasciarla sui rami di un albero.”

Il giorno dopo, molte pernici incapparono nella rete del cacciatore.

Si ricordarono delle raccomandazioni della vecchia pernice, infilarono la testa nelle maglie della rete e cominciarono a sbattere le ali con tutta la loro energia.
La rete volò con loro fin sopra la chioma di un faggio.
Là, appoggiata come un vecchio straccio inutile, la trovò il cacciatore.
Qualche giorno dopo, alcune pernici razzolavano nel prato beccando insetti e teneri germogli.
Improvvisamente la rete del cacciatore calò su di loro.
“Ascoltate, sorelle!” disse una delle pernici, “Sappiamo che cosa dobbiamo fare per liberarci.
Facciamo passare le nostre teste attraverso le maglie della rete; e poi al mio tre, battiamo le ali tutte insieme.

Siete pronte? Uno, due, tr…”

“Non vedo perché devi essere tu a comandare!” interruppe bruscamente un’altra pernice, “Sono io la più forte!
Tocca a me dirigere l’operazione…”
“E allora?” strillò un’altra, “Sono io la più anziana!”
“Ma chi vi credete di essere?” sbraitò un’altra pernice, “Non ho nessuna intenzione di stare ad ascoltare voi!”
“Io ho più esperienza!” riprese la prima, “È normale che sia io a comandare.
Attente!
Al mio segnale: uno, due, tr…”

Contemporaneamente altre pernici iniziarono a gridare:

“Tocca a me!
Voglio dare io il segnale!”
“No, tocca a me!
O sentirete quant’è affilato il mio becco!”
“Provaci se hai il coraggio, grassona!”
“Per favore, ascoltatemi!” supplicò la prima pernice, “Il cacciatore non tarderà.
Al tre, battete le ali: uno, due tre!”
Ma le pernici non sentivano più niente.
Con le piume arruffate lottavano a colpi di becco, di zampe, di testate furibonde, schiamazzando e strepitando.
Tutto quel trambusto attirò il cacciatore che, ridacchiando, ficcò le pernici nel sacco, dove continuarono a colpirsi e insultarsi.

Brano senza Autore

Le oche nel cortile (Adagiarsi)

Le oche nel cortile (Adagiarsi)

Le oche del cortile avevano un rito settimanale a cui tenevano molto.
In quel giorno facevano il bagno nello stagno, si lisciavano con cura le penne, facevano abluzioni e gargarismi, si lustravano il becco e poi dondolando e ancheggiando si radunavano in un angolo dell’aia, all’ombra di un vecchio salice piangente.

Là, il reverendo e saggio “ocone”,

erede della luminosa tradizione della “Eroica Comunità delle Oche”, chiudeva gli occhi e con voce commossa rievocava i tempi in cui le oche si levavano in volo in formazione a “V” per sfidare i venti e le distanze, solcando i cieli.
Rievocava le eroiche imprese delle oche che avevano attraversato l’oceano, superando terribili tempeste, e narrava di quando le oche volavano senza riposare per giorni e giorni,

magnifiche, vigorose e resistenti.

Parlava delle oche gloriose che avevano dato la vita per la salvezza dello stormo.
Le oche del cortile si commuovevano, piangevano, battevano le ali.
Ma, appena sentivano il gorgogliare del pasto che il pastore rovesciava nella vasca,

tutte si affrettavano verso il cibo, dondolando e ancheggiando.

Beate e soddisfatte.
Senza alzarsi da terra neanche un centimetro.

Brano senza Autore

La principessa e l’uccellino marrone

La principessa e l’uccellino marrone

“Una Principessa sta per venire qui,” disse il Leone agli animali della giungla riuniti in assemblea, “come possiamo dimostrarle che siamo molto felici di averla con noi?”
“Potremmo farle dei profondi inchini,” suggerì l’ippopotamo, “ma è vero che non tutti abbiamo il fisico adatto!”
“Potremmo tutti gridare forte Benvenuta,” soggiunse l’elefante, “ma forse si spaventerebbe!”
“Potremmo danzare…” propose la Giraffa, ma il Leone guardò l’ippopotamo, scosse la testa e tutti gli animali sospirarono.
Allora l’Uccellino Marrone cinguettò timidamente: “Non potremmo fare un giardino?
Le Principesse adorano i fiori!”
Tutti lo fissarono ammirati.
“Questa sì, che è un’idea felice,” disse il Leone, “lo faremo insieme.”
Venne scelto con cura un luogo molto bello, ma il Leone osservò che andava dissodato.

“Ci penso io!” gridò l’ippopotamo.

“Pesterò la terra coi miei piedoni e con il mio grosso e pesante corpo finché diverrà fine e leggera!”
“Benissimo.” approvò il Leone, “Ora dobbiamo fare dei buchi per piantare i semi.”
“Lo faccio io con gli aculei della mia schiena.” si offrì il Porcospino.
Si appallottolò tutto e cominciò a rotolare su e giù per il campo, finché fu pieno di buchetti regolari. “Benissimo.” disse il Leone, “Ora pianteremo i semi!”
“Tocca a me,” disse la Cavalletta, “sono veloce e leggera!”
Sorvolò saltellando il terreno e in un batter d’occhio piantò tutti i semi.
“Benissimo.” disse il Leone, “Ora bisogna innaffiare il giardino.”
“Lasciate fare a me!” esclamò l’Elefante, “Userò la proboscide!”
Andò al fiume, riempì bene la proboscide e spruzzò un bel po’ d’acqua sul giardino.
“Benissimo.” disse il Leone, “E ora come faremo a impedire alla Scimmia di rovinarci tutto il giardino?”
“Sarà mio compito, farò io la guardia.” propose la Giraffa allungando il collo.
E l’Uccellino Marrone?
Avrebbe voluto essere di aiuto, ma pareva che nessuno avesse bisogno di lui.
Dopo un po’ i semi cominciarono a crescere, ma il Leone, che si era recato a controllare i progressi del giardino, scosse la testa:

“Quante erbacce!

Rovineranno tutto!
Chi è capace di estirparle?”
Gli animali rimasero tutti zitti.
L’ippopotamo si giustificò:
“I miei piedi sono troppo grossi, rovinerei tutto!”
“I miei aculei danneggerebbero le foglie!” si scusò il Porcospino.
“Le erbacce sono troppo pesanti per me!” disse la Cavalletta.
“La mia proboscide spezzerebbe gli steli!” affermò l’Elefante.
“Ho il collo troppo lungo e non posso chinarmi tanto!” si lagnò la Giraffa.
“Cri-cri!” fece il grillo e se la squagliò.
Tutti quei pigroni si girarono e se ne andarono.
Allora l’Uccellino Marrone volò nel giardino.
Con il suo minuscolo becco sradicò un’erbaccia e la gettò dietro una siepe.
Le radici erano forti e spesso il becco gli doleva e dopo un po’ anche le ali gli pesavano.
Ma con pazienza, un giorno dopo l’altro, l’Uccellino Marrone ripulì il giardino finché non rimase una sola erbaccia.
Intanto una miriade di fiori rossi, azzurri e gialli mostrava graziosamente la corolla sui lunghi e sottili steli.

Il giorno dopo, la Giraffa, che era di guardia, annunciò:

“Arriva la Principessa!
La vedo!”
Gli animali si riunirono tutti nel giardino e si meravigliarono di trovarlo così in ordine.
“Forse le erbacce si sono seccate!” disse il Leone, mentre l’Uccellino Marrone appollaiato su un albero taceva.
La Principessa sorrise:
“Non ho mai visto un giardino così bello,” disse, “dovete aver lavorato sodo!”
“È vero, abbiamo lavorato sodo!” risposero in coro gli animali pieni di sé sorridendo.
“Chi di voi è così gentile da cogliere qualche bel fiore per me?” chiese la Principessa.
Il Leone si fece avanti.
“Io ho dato tutte le istruzioni, perciò tocca a me!”
“Però io ho arato la terra!” protestò l’ippopotamo.
“E io ho fatto i buchi per i semi!” aggiunse il Porcospino.
“E io ho piantato i semi!” fece la Cavalletta.
“Io ho innaffiato!” disse l’Elefante.
“Mentre io facevo la guardia!” sottolineò la Giraffa.

La Principessa sorrise.

“Chi ha tolto le erbacce?” chiese.
Tutti rimasero zitti, poi:
“Nessuno!” disse il Leone.
In quel momento la Principessa scorse due occhietti brillanti e un sottile becco che faceva capolino tra le foglie di un albero.
“L’hai fatto tu questo lavoro, Uccellino Marrone?” e l’uccellino annui.
“Allora tu coglierai i fiori per me, perché il tuo è stato il lavoro più duro e più lungo!”
L’Uccellino Marrone volò giù verso il giardino; poi con il becco sottile colse con garbo il più bel fiore e l’offrì alla Principessa.
Ne colse un altro e un altro ancora fino a mettere insieme un bel mazzolino variegato.
La Principessa baciò la sua testolina marrone e gli sorrise.
Allora l’Uccellino Marrone cantò come non aveva mai fatto prima finché il sole tramontò nel bel giardino degli animali.

Brano tratto dal libro “365 storie per l’anima.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

La volpe e la cicogna

La volpe e la cicogna

La volpe e la cicogna una volta erano buone amiche, spesso passavano insieme del tempo.
Un giorno la volpe invitò a pranzo la cicogna; per farle uno scherzo,

le servì della minestra in una scodella poco profonda:

la volpe leccava facilmente, ma la cicogna riusciva soltanto a bagnare la punta del lungo becco e dopo pranzo era più affamata di prima.
“Mi dispiace,” disse la volpe ghignando tra i denti, “la minestra non è di tuo gradimento?”

“Oh, non ti preoccupare:

spero anzi che vorrai restituirmi la visita e che verrai presto a pranzo da me.” rispose la cicogna.
Così fu stabilito il giorno in cui la volpe sarebbe andata a trovare la cicogna.
Sedettero a tavola, mai i cibi erano preparati in vasi dal collo lungo e stretto nei quali la volpe non riusciva ad infilare il muso:

tutto ciò che poté fare fu leccare l’esterno del vaso,

mentre la cicogna tuffava il becco nel brodo e mangiava con gran gusto:
“Non ti piace, cara, ciò che ho preparato?”
Fu così che la volpe burlona fu a sua volta presa in giro dalla cicogna.

Favola di Esopo