I pregiudizi di un boscaiolo

I pregiudizi di un boscaiolo

Un boscaiolo non trovava più la sua ascia preferita.
Aveva girato tutta la casa, rovistato un po’ dappertutto.
Niente da fare.

L’ascia era sparita.

Cominciò a pensare che qualcuno gliel’avesse rubata.
In preda a questo pensiero si affacciò alla finestra.
Proprio in quel momento passava il figlio del suo vicino di casa.
“Ha proprio l’andatura di un ladro di asce!” pensò il boscaiolo, “E anche gli occhi da ladro di asce…

e perfino i capelli da ladro di asce!”

Qualche giorno dopo, il boscaiolo ritrovò la sua ascia preferita sotto il divano, dove lui l’aveva buttata una sera tornando dal lavoro.
Felice per il ritrovamento, si affacciò alla finestra.
Proprio in quel momento passava il figlio del suo vicino di casa.
“Non ha proprio l’andatura da ladro di asce!” pensò il boscaiolo,

“Anzi, ha gli occhi da bravo ragazzo… ed anche i capelli!”

Guardiamo il mondo come fosse un teatrino e a ciascuno diamo una parte da recitare:
quello è il bello, quella la scema, quello il cattivo, quell’altro il traditore…

Brano tratto dal libro “40 Storie nel deserto.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Salvati dai cardi

Salvati dai cardi

Il cardo non è certamente un fiore che la gente ama raccogliere.
Non è molto bello e ha le foglie coperte di spine che producono delle punture dolorose.
Ma il brutto e spinoso cardo è una pianta venerata in Scozia.
E questo perché una vecchia leggenda scozzese racconta che i cardi salvarono

un re scozzese ed i suoi sudditi dai Vichinghi.

I Vichinghi erano feroci guerrieri che venivano dalla Scandinavia.
Navigavano alla volta di terre straniere e assalivano città e castelli.
Spesso uccidevano tutti gli abitanti, rubavano tutte le ricchezze e incendiavano case, campi, pagliai, ogni cosa.
Racconta la leggenda che più di mille anni fa approdarono in Scozia alcuni Vichinghi.

Durante la notte circondarono il castello del re.

Tutti al castello dormivano profondamente e non si erano accorti che i Vichinghi si preparavano ad attaccare.
Il castello era circondato da un fossato largo e profondo che, solitamente, era pieno d’acqua; perciò i Vichinghi si levarono i calzari per attraversare a guado il fossato.
Purtroppo, a causa del buio, non avevano notato che il fossato non era pieno d’acqua:

era asciutto ed era coperto da migliaia di cardi spinosi!

Quando misero i piedi nudi sui cardi i Vichinghi urlarono di dolore.
Le loro urla svegliarono gli abitanti del castello che riuscirono a sconfiggerli e a scacciarli dalla loro terra.
Oggi il cardo è l’emblema nazionale di Scozia.

Leggenda Scozzese.
Brano senza Autore, tratto dal Web

Un padre premuroso (L’abbraccio dell’orso)

Un padre premuroso
(L’abbraccio dell’orso)

Un uomo molto giovane aveva appena avuto un figlio e viveva per la prima volta l’esperienza della paternità.
Nel suo cuore regnavano la gioia e l’amore, che scorrevano a fiumi dentro di lui.
Un giorno gli venne voglia di entrare in contatto con la natura perché, da quando era nato il suo bimbo, vedeva tutto bello e perfino il rumore di una foglia che cadeva gli sembrava musica.
Decise quindi di andare nel bosco per goderne tutta la bellezza e sentire il canto degli uccelli.
Camminava placidamente respirando l’umidità che c’è in quei posti quando, improvvisamente, vide un’aquila su un ramo, e fu sorpreso dalla sua bellezza.
Anche l’aquila aveva avuto la gioia di avere dei piccoli, ed aveva intenzione di arrivare fino al fiume più vicino, catturare un pesce,

e portarlo nel suo nido come cibo per i suoi aquilotti.

Era una responsabilità molto grande allevare e formare i suoi piccoli, affrontando le sfide che la vita offre.
Nel notare la presenza dell’uomo, l’aquila lo guardò e gli chiese:
“Dove vai buon uomo?
Vedo nei tuoi occhi la gioia.”
L’uomo le rispose:
“Sai mi è nato un figlio e sono venuto nel bosco perché sono felice.
D’ora in poi lo proteggerò sempre, gli darò da mangiare, e non permetterò mai che soffra il freddo.
Giorno dopo giorno lo difenderò dai nemici che avrà e non lascerò mai affrontare situazioni difficili.
Non permetterò che mio figlio abbia le stesse difficoltà che ho avuto io, non dovrà mai sforzarsi per nessuna cosa.
Come padre, sarò forte come un orso, e con la potenza delle mie braccia lo circonderò, l’abbraccerò e non permetterò mai che niente e nessuno possa turbarlo.”
L’aquila lo ascoltava attonita, senza riuscire a credere a ciò che udiva.

Poi lo guardò e gli disse:

“Ascoltami bene.
Quando la natura mi ha dato l’ordine di covare le mie uova, di costruirmi un nido, confortevole, sicuro, protetto dai predatori, mi ha detto anche di mettere dei rami con molte spine, e sai perché?
Perché quando i miei piccoli saranno forti per volare, farò sparire tutta la comodità delle piume.
Non resistendo sulle spine, si vedranno costretti a costruirsi il proprio nido.
Tutta la valle sarà per loro, a patto che realizzino con i loro sforzi l’aspirazione di conquistarla.
Se li abbracciassi, la loro aspirazione verrebbe frenata, e questo distruggerebbe in maniera irreversibile la loro individualità, ne farebbe degli individui indolenti senza coraggio di lottare, né gioia di vivere.

Prima o poi piangerei per il mio errore,

perché vedrei i miei aquilotti trasformati in ridicoli rappresentanti della loro specie, e mi riempirei di rimorso e gran vergogna nel vedere l’impossibilità di gioire per i loro trionfi.
Io, amico mio,” disse l’aquila, “amo i miei figli più d’ogni altra cosa, però non sarò mai complice della loro superficialità e immaturità!”
L’aquila tacque, poi, con maestosità si alzò in volo per perdersi all’orizzonte.
L’uomo tornandosene a casa, meditò sul terribile errore che avrebbe commesso dando a suo figlio l’abbraccio dell’orso.
Giunto a casa abbracciò il suo bimbo per alcuni secondi, poi si rese conto che il piccolo cominciava a muovere le gambe e braccia come per dimostrare il suo bisogno di libertà, senza che nessun orso protettivo lo ostacolasse.
Da quel giorno l’uomo cominciò a prepararsi per diventare il migliore dei padri.

Brano tratto dal libro “Guida per genitori; PNL con i bambini.” di Eric de la Parra Paz

Bella giornata, non è vero?

Bella giornata, non è vero?

Il giorno era cominciato male e stava finendo peggio.
Come al solito, l’autobus era molto affollato.
Mentre venivo sballottata in tutte le direzioni, la tristezza cresceva.
Poi sentii una voce profonda provenire dalla parte anteriore dell’autobus:

“Bella giornata, non è vero?”

A causa della folla non riuscivo a vedere l’uomo, ma lo sentivo descrivere il paesaggio estivo, richiamando l’attenzione sulle cose che si avvicinavano:
la chiesa, il parco, il cimitero, la caserma dei pompieri.
Di lì a poco tutti i passeggeri guardavano fuori dal finestrino.
L’entusiasmo era cosi contagioso che mi misi a sorridere per la prima volta nella giornata.

Arrivammo alla mia fermata.

Dirigendomi con difficoltà verso la porta, diedi un’occhiata alla nostra guida: una figura grassottella con la barba nera, gli occhiali da sole, con in mano un bastone bianco.
Era cieco!
Scesi dall’autobus e, all’improvviso, tutta la mia tensione era svanita.

Dio nella sua saggezza aveva mandato un cieco che mi aiutasse a vedere:

a vedere che, sebbene a volte le cose vadano male, quando tutto sembra scuro e triste, il mondo continua ad essere bello.
Canticchiando un motivetto salii le scale del mio appartamento.
Non vedevo l’ora di salutare mio marito con le parole:
“Bella giornata, non è vero?”

Brano tratto dal libro “A volte basta un raggio di sole.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Un cerchio di gioia (Il grappolo d’uva)

Un cerchio di gioia
(Il grappolo d’uva)

Un giorno, non molto tempo fa, un contadino si presentò alla porta di un convento e bussò energicamente.
Quando il frate portinaio aprì la pesante porta di quercia, il contadino gli mostrò, sorridendo, un magnifico grappolo d’uva.
“Frate portinaio,” disse il contadino, “sai a chi voglio regalare questo grappolo d’uva che è il più bello della mia vigna?”
“Forse all’Abate o a qualche frate del convento!” rispose il frate.

“No, a te!” esclamò il contadino.

“A me?” il frate portinaio arrossì tutto per la gioia, “Lo vuoi dare proprio a me?”
“Certo, perché mi hai sempre trattato con amicizia e mi hai aiutato quando te lo chiedevo.
Voglio che questo grappolo d’uva ti dia un po’ di gioia!”
La gioia semplice e schietta che vedeva sul volto del frate portinaio illuminava anche lui.
Il frate portinaio mise il grappolo d’uva bene in vista e lo rimirò per tutta la mattina.
Era veramente un grappolo stupendo.

Ad un certo punto gli venne un’idea:

“Perché non porto questo grappolo all’Abate per dare un po’ di gioia anche a lui?”
Prese il grappolo e lo portò all’Abate.
L’Abate ne fu sinceramente felice.
Ma si ricordò che c’era nel convento un vecchio frate ammalato e pensò:
“Porterò a lui il grappolo, così si solleverà un poco!”
Così il grappolo d’uva emigrò di nuovo.

Ma non rimase a lungo nella cella del frate ammalato.

Costui pensò infatti che il grappolo avrebbe fatto la gioia del frate cuoco, che passava le giornate ai fornelli, e glielo mandò.
Ma il frate cuoco lo diede al frate sacrestano (per dare un po’ di gioia anche a lui), questi lo portò al frate più giovane del convento, che lo portò ad un altro, che pensò bene di darlo ad un altro.
Finché, di frate in frate il grappolo d’uva tornò dal frate portinaio (per portargli un po’ di gioia).
Così fu chiuso il cerchio.
Un cerchio di gioia.

Brano tratto dal libro “40 storie nel deserto.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Il cigno e la rana vanitosa

Il cigno e la rana vanitosa

C’era una volta, in un verde stagno, una verde ranocchia convinta di essere l’animale più bello tra tutti gli animali.
Tutto il giorno stava a pavoneggiarsi e gonfiava il petto orgogliosa del suo aspetto.
Un giorno nello stagno le si avvicinò un cigno, dal collo lungo e dalle piume candide come la neve.

La rana impertinente gli disse:

“Spostati! Che mi fai ombra e non riesco a vedere la mia suprema bellezza riflessa nello stagno!”
Il cigno, un po’ perplesso si spostò un po’ più in là e si mise ad osservare cosa faceva la ranocchia.
Questa stava tutto il tempo a rimirare la sua immagine riflessa nell’acqua e a dire:
“Sono bella, sono bellissima, sono la più bella creatura del creato, e sono verde, verdissima, la più verde delle creature e guarda come si gonfia il mio petto!”

Il cigno davvero incredulo le si avvicinò un’altra volta e le chiese con molta cortesia:

“Scusami rana, ma credo che tu stia un pochino esagerando; certo sei bella tra le rane, ma di sicuro non sei la più bella tra le creature del creato.”
La rana indispettita sfidò il cigno:
“Credi questo?
Pensi di essere più bello di me?
Allora faremo una gara di bellezza e vedremo chi è il più bello tra noi due!”
Il cigno cercò in ogni modo di rifiutare, persino chiese scusa alla rana, certo non intendeva offenderla, ma tanto insistette la creatura vanitosa che al fine il cigno cedette.
Così chiamarono a raccolta tutti gli animali dello stagno e d iniziarono ad interrogarli:

“Chi è il più bello tra noi due?”

Naturalmente tutti dicevano che più bello era il cigno, ma la rana non potendo accettare la sconfitta continuava a gonfiare il petto, credendo di apparire più bella.
Si gonfiò tanto, ma tanto che alla fine esplose!
Il cigno che era buono e che mai avrebbe voluto concludere a quel modo la gara decise allora di seppellire il povero animale straziato e sulla sua tomba scrisse:
“Qui giace la rana più bella che io abbia mai visto.”

Brano tratto dal libro “40 Racconti di Animali.” Edizione Rusconi Libri.

L’asinello vanitoso

L’asinello vanitoso

C’era una volta in un paesello in collina un asinello bianco che si chiamava Isaia.
Era un asinello assolutamente comune, uguale a tutti gli altri non più alto non più basso di tutti gli altri asinelli, ma data la disponibilità e gentilezza del suo padrone ogni anno Isaia veniva scelto per portare la statua del santo in processione per il paese.
Anche quell’anno gli fu affidato quel compito e subito Isaia iniziò a vantarsi con gli altri animali della fattoria:
“Sono il più bello di tutti gli animali del paese e per questo tutti mi guardano e mi ammirano!”
Il giorno della processione sulla groppa dell’asinello fu posizionata la statua del santo e il cammino per le strade del paese iniziò, ma iniziò anche Isaia a vantarsi:

“Tutti mi guardano perché sono il più bello.

Le donne del paese mi lanciano petali di fiori quando passo.
I bambini si inchinano.
Gli uomini mi aprono la strada ossequiosi.”
Gli altri animali non ne potevano davvero più, tutto il giorno a vantarsi, ed in più Isaia, convinto della sua superiorità non voleva più saperne di lavorare come tutti gli altri.
Il padrone si rese conto del gran disagio che si stava creando e così decise di parlare al suo asino vanitoso:
“Isaia, durante la processione la gente non guarda te, ma guarda il Santo!”

“Non è possibile!

Io sono l’animale più bello del paese!” replicò l’asino.
“Basta Isaia,” disse il padrone, “questa storia deve finire!”
Così quando arrivò il giorno della processione il padrone, senza nulla dire, prese il maiale, lo pulì per bene e ci caricò in groppa la statua del Santo.
La gente del paese lo guardava ammirata, le donne gli lanciavano petali di fiori, i bambini si inchinavano e gli uomini gli aprivano la strada ossequiosi.

Allora Isaia capì.

Non era lui che la gente guardava e ammirava.
Da quel giorno l’asinello imparò a essere meno vanitoso e a rispettare gli altri animali della fattoria.

Brano senza Autore, tratto dal Web

L’albero e la siepe

L’albero e la siepe

Non era tanto bello.
Aveva un tronco rugoso, dei rami un po’ rachitici che producevano delle mele aspre che nessuno voleva.
Ma la cosa peggiore era il carattere.
Albero non faceva che lamentarsi.
La cosa dava fastidio soprattutto a Siepe, che era cresciuta proprio accanto ad Albero.
Era primavera e Albero continuava a mugugnare:
“Vedrai che stasera pioverà e magari anche domani.
E poi soffierà il vento e mi spezzerà qualche ramo!”
“Ma è così soave il vento di primavera!” diceva Siepe.
Albero non ascoltava neanche:
“Quegli orribili uccelli, poi!
Mi faranno il nido addosso e mi mangeranno i germogli!”

Albero continuava a lamentarsi per ore:

il campo si sarebbe riempito di fango, le mucche e i conigli gli avrebbero rovinato la corteccia, l’erba alta gli avrebbe fatto il solletico e così via.
Per Siepe era un vero supplizio.
Decise perciò che doveva far qualcosa per impedire il continuo mugugno di quel brontolone d’Albero.
Dovete sapere che il miglior amico di Siepe era il vecchio Corvo, che si appollaiava spesso tra i suoi rami dopo pranzo e dopo cena per far quattro chiacchiere.
Siepe spiegò a Corvo il problema:
“Come faccio a far smettere Albero di lamentarsi?”
Corvo si mise a pensare, poi disse:
“Albero non ha una vera ragione di vita, ecco perché si lamenta sempre!”
“Ma dove si trova questa ragione?” chiese Siepe.
“Di solito, proprio sotto il naso!” replicò Corvo.
La primavera lasciò il posto all’estate e Siepe si riempì di verde.
Come sempre, Caprifoglio le si attorcigliò alle foglie, adornandola con i suoi fiori profumati.

Le api ronzavano nella calda aria estiva.

“Albero,” chiese Siepe un bel giorno, “qual è la cosa più brutta della tua vita?”
Albero ci pensò un po’ e poi sussurrò con voce triste:
“La cosa peggiore è che non piaccio a nessuno.
Perché sono brutto.
La mia fioritura dura solo pochi giorni, le mie foglie non sono belle e le mie mele selvatiche hanno un sapore orribile!”
“Ma a questo si può rimediare facilmente!” esclamò Siepe.
“Potrei chiedere a Caprifoglio di crescere lungo il tuo tronco e sui tuoi rami, e così saresti ricoperto di fiori profumati e di foglie verdi per la maggior par te dell’anno.
L’unica difficoltà è che…
Caprifoglio non vuole: dice che ti lamenti troppo!”
Albero rimase in silenzio.
Poi disse:
“Se io prometto di lamentarmi di meno, potresti convincerlo a crescere sopra di me?”

“Se non ti lamentassi per un anno intero forse accetterebbe!” rispose Siepe.

Così, per un anno intero, Albero non si lamentò neppure una volta.
Nemmeno quando arrivò la siccità, né quando arrivò una nevicata mai vista e neppure quando le lepri rosicchiavano le radici.
E un bel giorno della primavera seguente, Caprifoglio mise fuori un timido germoglio.
Si attorcigliò al tronco di Albero e si intrecciò ai suoi rami.
Quando il vento di giugno fece volar via i boccioli di Albero, Caprifoglio dischiuse i suoi fiori profumati gialli e rosa, e Albero divenne il più bello tra tutti gli alberi del campo.
Da quel giorno non si lamentò più.
Nemmeno una volta.
Mai più.
Un pomeriggio d’inverno, Corvo andò da Siepe.
“Non ho più sentito Albero lamentarsi.
Deve aver trovato una ragione di vita.
Qual è?”
“Chiedilo a lui!” rispose Siepe.
Corvo volò da Albero e gli chiese che ragione di vita avesse trovato.
“Non posso parlare ora, Corvo, devo proteggere Caprifoglio dal vento!”
“Ma è tutto marrone e avvizzito ora che è inverno!”

“Ora è così!” rispose Albero.

“Ma si appoggia a me perché io lo protegga fino a primavera.
E allora sboccerà di nuovo più folto e più bello dell’anno passato!”
Il vecchio Corvo e Siepe furono molto contenti nel sentirlo parlare così.
Albero aveva trovato la sua ragione di vita.
E non si sarebbe lamentato mai più.
Albero rappresenta quel tipo di persona che si incontra spesso:
colui che non trova mai nulla di buono, che trova difetti in tutto e in tutti, che non ha mai detto nulla nella sua vita!
“Questo è bello! Magnifico! Bravo!”
Sono molte le persone che, “brontolando” sempre, rendono la vita infelice agli altri e soprattutto a se stessi.
“Trovare una vera ragione di vita,” dice il racconto “è trovare la felicità!”
Uno scopo, un ideale, una missione, una mèta: non bisogna mai dimenticare che questo è un elemento insostituibile della felicità.
Solo l’uomo che ha un senso e una direzione si sente realizzato.

Brano senza Autore, tratto dal Web

Il paese delle ombre

Il paese delle ombre

C’era una volta uno strano piccolo paese addossato ad una montagna altissima.
Un paesino per tanti aspetti come tutti, ma a renderlo unico nel suo genere era il fatto che gli abitanti, sindaco in testa, erano assillati da un problema che poteva sembrare ridicolo, eppure era reale e praticamente irrisolvibile:
eliminare le ombre!
Come fossero arrivati a farsi un problema delle ombre, non si sa:
ne succedono tante nel mondo!
Fatto sta che la cosa era diventata tanto preoccupante che tutti ne erano ossessionati.

Le ombre erano onnipresenti, di tutte le dimensioni!

Si fece persino un museo delle ombre, con dipinti e fotografie; si allestì anche una biblioteca.
Furono chiamati oratori famosi e grandi studiosi per analizzare il più profondamente possibile la grave situazione.
In concreto non si arrivò a nessuna conclusione pratica, a parte qualche tentativo, rivelatosi inutile, come quello di organizzare un gruppetto di pittori che, con pennelli e un secchio di calce pronti, dovevano eliminare le ombre con una mano di bianco.
Era veramente ridicolo vedere per il paese questi onnipresenti pittori alle prese con l’ombra di tutti.
Dove sorgeva un’ombra nuova si precipitavano e tutte le case e le mura erano ormai imbiancate.
Figurarsi quando arrivava uno straniero, era lavoro doppio!
Gli abitanti infatti da tempo, durante il giorno, per non creare nuove ombre rimanevano tappati in casa!
Alcuni poi cercarono, presi dalla mania collettiva, di risolvere il problema per conto proprio:
un vecchietto, per esempio, ogni mattina quando le ombre erano più lunghe, si affannava, spalle al sole, con un grosso piccone a distruggere la propria ombra.

Ma tutto era inutile:

l’ombra era una realtà indistruttibile!
Il peggio fu che, poco a poco, ogni altro problema vero fu lasciato da parte e il paese cadde nel più completo abbandono.
Nessuno più veniva ad abitarvi e tutti si guardavano bene dal prendere iniziative che creassero nuove ombre.
Solo verso sera il paese sembrava entrare nella normalità.
Era quando la grande ombra della montagna scendeva e ricopriva tutto.
Non c’erano più ombre perché c’era un’unica grande ombra, che sembrava estesa quanto il cielo.
Allora il paese si rianimava.
I pittori prendevano un po’ di fiato e di riposo.
Ma presto, con il calare della notte, tutto si immergeva nel silenzio e non si accendevano luci perché esse creavano ombre ancora più fastidiose, per cui in breve tutti si mettevano a letto, pensando al guaio grande di vivere in un paese zeppo di ombre.
Un giorno passò di là un poveraccio, saggio della saggezza di chi aveva camminato tutta una vita e ne aveva visto di tutti i colori in giro per il mondo.
Egli, al vedere quanto succedeva in quel paese, in un primo momento non seppe contenersi dalle risa:
si divertiva soprattutto a far correre i pittori nei punti più svariati del paese, erigendo di nascosto cartelli e sagome varie per creare ombre improvvise, sempre nuove e strane.
Il gioco non durò a lungo.

Egli fu fermato e ammonito:

non si poteva scherzare sui problemi seri, su sforzi estenuanti di anni di ricerca e di tentativi.
Sulle prime il nostro forestiero fu tentato di andarsene.
Però quella gente gli faceva pena:
era sorta in lui una strana curiosità, un interesse che per la prima volta lo teneva bloccato nel suo vagabondare.
Man mano che passavano i giorni, il problema dell’ombra diventò anche per lui un’ossessione.
E fu proprio per scrollarsi di dosso questo incubo che un giorno si inerpicò tutto solo fin sulla vetta della montagna e di lassù vide il paesino illuminato dal sole, in tutta la sua pittoresca realtà.
Altro che ombre!
E’ il paese che esiste!
Il paese da lassù era un paese di case, di alberi, di persone che con la luce si rivelano.
Non era per niente un paese di ombre!
Aveva capito ciò in cui profondamente aveva sempre creduto in fondo al suo cuore e che gli abitanti di quel paese avevano, presi da una strana follia, dimenticato.
Scese di corsa e tutto trafelato andò dal sindaco e gli espose la sua intuizione, ma fu accolto con un sorriso ironico:
in un paese di pazzi il savio passa per matto.
“Sole o non sole, cose o non cose,” gli disse il sindaco “le ombre ci sono e questo è il nostro concreto.

Le ombre sono terribilmente ovunque e questo è evidente.

Tentare di risolvere il problema è il compito più importante che ci siamo assunti; in fondo è fare un servizio alla luce!”
Ormai si era prodotta una così grande distorsione mentale che si pensava alla luce in termini di ombra, come se si volesse decidere di fare il bene solamente cercando di eliminare il male.
Anche il parroco con le sue benedizioni non riusciva ad allontanare le ombre…
Il pover’uomo tornò alla sua capanna in fondo al paese un po’ meravigliato e un po’ sconsolato.
Però si sentiva come guarito da una malattia.
Non guardava più le ombre, anzi ricominciò a fare quello che aveva sempre fatto, ma ora con una grande gioia interiore:
accarezzava con lo sguardo tutte le cose che la luce rivelava.
Tutto era bello, nuovo, sembrava nascere allora.
Anche le ombre erano a loro modo belle perché contribuivano a delineare sempre meglio i contorni delle cose.
Non frequentò più il paese, anche perché quei poveri pittori, guardiani dell’ombra, un’istituzione benemerita, gli facevano pena.

Camminava solo per le strade dei prati o per i sentieri del monte.

Se parlava con qualcuno era per rivolgersi ai piccoli, perché i bambini credono a tutti.
Anzi ne aveva sempre intorno qualcuno che lo ascoltava nel suo raccontare di tante cose e nel dire soprattutto che le cose sono belle per quello che sono; che le ombre ci sono perché ci sono le case illuminate e che la luce è l’unica cosa bella perché ci fa vedere il volto delle persone, altro che l’ossessione di quel paese, dove si riconoscevano per l’ombra anziché per il volto!
I bambini che sono semplici e non capiscono i discorsi e i problemi dei grandi, tanto meno il problema delle ombre, crebbero con spontaneità e diventarono giovani un po’ contestatori, perché non badavano più alle ombre e si davano da fare per rinnovare il paese.
Gli anziani restarono sconcertati:
“Come si fa a ragionare con questa gioventù con idee così diverse!” si confidavano con amarezza e anche con segreta curiosità; e diffidavano chiunque dall’incontrare il forestiero.

Ma ormai il sortilegio era rotto.

A poco a poco il contagio dell’ombra passò.
Tutti cominciarono a guardare le cose per quello che erano e anche il paese delle ombre diventò un paese normale, il paese della realtà come tutti i paesi del mondo.
Il povero saggio da tempo si era rimesso in viaggio.
Il paese era guarito, e a lui era rimasta nel cuore una nuova profonda saggezza:
quando vedeva la sua ombra che fedelissima lo accompagnava, pensava al paese delle ombre e sorrideva dicendo tra sé:
“Se si guarda solo l’ombra, il male, non si vive più!
L’ombra e anche il male sono per la luce, per la vita, per il bene!” e dava un calcio alla propria ombra, un calcio all’aria, contento di vivere nella realtà.

Brano senza Autore, tratto dal Web