Che cos’è il virtuale?

Che cos’è il virtuale?

Un giorno entrai di fretta e molto affamato in un ristorante.
Scelsi un tavolo lontano da tutti, poiché volevo approfittare dei pochi minuti che avevo a disposizione quel giorno, per mangiare e per continuare a programmare un sistema che stavo creando.
Avevo, inoltre, voglia di progettare le mie vacanze che, ormai, da molto tempo, non sapevo cosa fossero…
Ordinai del salmone, insalata e succo d’arancia, cercando di conciliare la mia fame con la mia dieta.
Aprì il mio notebook e nello stesso tempo mi spaventai per quella voce bassa dietro di me:
“Signore, mi dà qualche soldo?”

“Non ne ho, piccolo!” gli risposi.

“Solo qualche spicciolo per un pezzo di pane.” insistette lui.
“Va bene, te ne compro uno io!” esclamai.
Tanto per cambiare la mia casella di posta elettronica era piena di e-mail.
Rimasi un po’ distratto a leggere alcune poesie, bei messaggi, a ridere di quei banali scherzi.
Ahhh! Quella musica mi portava a Londra, ricordando un bellissimo tempo passato.
“Signore, chieda che venga messo un po’ di burro e formaggio nel mio panino!” continuò il bambino.
Lì mi accorsi che era ancora al mio fianco.
“Ok! Ma dopo mi lasci lavorare, sono molto occupato, d’accordo?” domandai.
Arrivò il mio pranzo e con esso la realtà.
Feci la richiesta del piccolo e il cameriere mi chiese se avessi voluto che il bambino fosse allontanato.
La mia coscienza mi impedì di prendere una decisione, ed alla fine risposi:
“No, va tutto bene!
Lo lasci pure stare, gli porti il suo panino e qualcos’altro di decente da mangiare.”
Allora il bambino si sedette di fronte a me e mi chiese:

“Signore, che sta facendo?”

“Leggo le e-mail!” risposi.
“E che sono le e-mail?” mi domandò.
“Sono messaggi elettronici inviati dalle persone via internet.”
Sapevo che non avrebbe capito nulla, e per evitare ulteriori domande dissi:
“È come se fosse una lettera ma si invia tramite internet.”
“Signore, lei ha internet?” mi chiese allora.
“Si ce l’ho, è essenziale nel mondo di oggi!” risposi.
“E cos’è Internet, signore?” proseguì il bambino.
“È un posto nel computer dove possiamo vedere e ascoltare molte cose, notizie, musica, conoscere gente, leggere, scrivere, sognare, lavorare, imparare.
Ha tutto, ma in un mondo virtuale.” gli spiegai.

“E cos’è il virtuale, signore?” domandò.

Decisi di dargli una spiegazione molto semplice, con la consapevolezza che capirà ben poco, ma così mi lascerà in pace e mi farà pranzare liberamente…
“Virtuale è un posto che noi immaginiamo, qualcosa che non possiamo toccare, raggiungere.
Un luogo in cui creiamo un sacco di cose che ci piacerebbe fare.
Creiamo le nostre fantasie, trasformiamo il mondo quasi in quello che vorremmo che fosse.” gli dissi.
“Che bello, mi piace!” esclamò il piccolo.
“Piccolo, hai capito cos’è il virtuale?” chiesi, allora, io.
“Si signore, vivo anche io in quel mondo virtuale.” replicò il bimbo.
“E tu hai il computer?” gli domandai

“No, ma anche il mio mondo è di quel tipo lì… virtuale!” mi disse, e poi continuò:

“Mia madre passa fuori l’intera giornata, arriva molto tardi e spesso non la vedo neanche.
Io bado a mio fratello piccolo che piange sempre perché ha fame, così io gli do un po’ d’acqua e lui pensa che sia la minestra.
Mia sorella grande esce tutto il giorno, dice che va a vendere il proprio corpo, ma io non capisco, visto che poi ritorna sempre a casa con il suo corpo.
Mio padre è in carcere da molto tempo.
Ed io immagino sempre tutta la famiglia insieme a casa, molto cibo, molti giocattoli a Natale, ed io che vado a scuola per diventare un giorno un grande medico.
Questo non è virtuale, signore?”
Chiusi il mio notebook, non prima che le mie lacrime cadessero sulla tastiera.
Aspettai che il bambino finisse letteralmente di “divorare” il suo piatto, pagai il conto e lasciai il resto al piccolo, che mi ripagò con uno dei più bei sorrisi che io abbia mai ricevuto in vita mia, dicendomi:
“Grazie signore, lei è un maestro!”
Lì, in quel momento, ebbi la più grande dimostrazione di virtualismo insensato in cui viviamo ogni giorno, circondati da una vera cruda realtà e spesso facendo finta di non percepirla!

Brano senza Autore

Il re e gli indovinelli

Il re e gli indovinelli

Un re polacco adorava gli indovinelli.
Per lui erano la massima forma di saggezza.
Un giorno, camminando con il primo ministro lungo il fiume, vide un povero contadino che lavava i panni nell’acqua gelata.
Allora il re chiese al contadino:
“Cos’è di più, cinque o sette?»”
E il contadino rispose:
“Cos’è di più, trentadue o dodici?”
Il re sorrise e gli domandò ancora:
“In casa tua hai avuto un incendio?”

Il contadino rispose:

“Sì. Ce ne sono stati cinque e ne aspetto altri due!”
Il re scosse la testa e continuò:
“Se ti mando un pollo, lo saprai spennare?”
Il contadino gli rispose:
“Mandalo e vedrai!”
Il re e il primo ministro si allontanarono e il re domandò al primo ministro se avesse capito di cosa stessero parlando.
“Sire, non ho capito nulla.
Come avrei potuto?
Avete parlato per enigmi!” esclamò il primo ministro.
Il re sembrò scontento:
“Ma come?
Tu sei il mio primo ministro.
Dovresti essere il più saggio del reame e un semplice contadino mi ha capito meglio di te?
Ti do tempo tre giorni per indovinare cosa ci siamo detti.
Se non ci riuscirai, sarò costretto a cacciarti!”
II primo ministro, disperato, convocò tutti i suoi consiglieri, ma nessuno riusciva a risolvere quegli enigmi.

Allora il primo ministro fece chiamare il contadino.

“Racconta,” gli ordinò, “cosa vi siete detti col re?”
Il contadino rispose:
“Lo farò, ma è una faccenda delicata, per cui voglio mille ducati!”
“È una vergogna!
Un furto!” esclamò il primo ministro, “Mille ducati per tre risposte?”
Il contadino fece per andarsene, ma il primo ministro lo trattenne.
“Va bene!” disse e gli consegnò il denaro, “Ed ora spiegami!”
Il contadino, con molta calma, cominciò:
“Io stavo lavando i panni nel fiume ghiacciato.
Vedendomi, il re mi ha chiesto se non mi bastassero i sette mesi caldi e dovevo lavare anche d’inverno.
Io gli ho risposto che i miei trentadue denti mangiano più di quel che riesco a guadagnare in dodici mesi.
Poi il re mi ha chiesto degli incendi, cioè se in casa mia avevo avuto dei matrimoni, perché per organizzare un matrimonio si spende ogni risparmio e si resta senza niente, come dopo un incendio.
E io gli ho risposto che avevo sposato cinque figlie e me ne restavano altre due.

Infine il re mi ha chiesto:

“Se ti mando un pollo, lo saprai spennare?”
ed io ho risposto:
“Mandalo e vedrai!”
Ecco: indovini adesso chi è il pollo?
Giudica tu se l’ho spennato per bene…
E, soprattutto, non mancare di riferirlo al re, che saprà apprezzare i dettagli!”

Brano senza Autore

La pallina d’oro

La pallina d’oro

Molto tempo fa c’era un giovane che se ne andava in giro tra i boschi pensando a cosa dovesse fare della sua vita, quale fosse la strada giusta da imboccare e come poteva fare per guadagnarsi un pezzo di pane.
Mentre camminava sentì una voce che lo chiamava e, dopo aver guardato in giro, scoprì un fringuello su un ramo che gli parlava con voce umana:
“Bel giovane, fermati e ascolta.
Adesso canterò la mia canzone; mentre la canto dovrai prendermi e scuotermi senza farmi male.

Vedrai che dal becco mi uscirà una pallina d’oro:

raccoglila e mettila in tasca, così diventerai capace di saper sempre ciò che è bene e ciò che è male, ciò che è giusto e ciò che è ingiusto e, in ogni momento saprai che cosa è meglio per te.
Quanto a me mi addormenterò nel cavo dell’albero e tu potrai andartene per la tua strada!”
Così andarono le cose e il giovane riprese il cammino con la pallina d’oro in tasca, finché arrivò in una città con ricche botteghe e bei palazzi, dove la gente vendeva e comprava, mangiava e dormiva, leggeva e scriveva, discuteva e correva come in tutte le città del mondo.
Solo che qui tutti, grandi e piccoli, vecchi e giovani, piangevano a dirotto senza mai smettere.
Il giovane sentì che la pallina, misteriosamente, gli impediva di tirare dritto ed una vocina gli suggeriva.
“Tu devi fare qualcosa per questa gente!”
Sentendosi pieno di coraggio, andò subito dal re che singhiozzava sul suo trono e gli disse di non preoccuparsi perché era arrivato ad aiutarli.
“Ad aiutarci?” rispose il re piangendo ancora più forte, “Non sai che la nostra città è minacciata da un terribile drago che mangerà tutti noi se non gli consegniamo ad una ad una le nostre ragazze più belle?

Ne ha già prese nove e l’ultima è mia figlia!”

Il giovane sentiva che la pallina gli infondeva sempre più coraggio e con sua stessa sorpresa rispose:
“Vi do la mia parola che domani vi porterò la testa e la coda del drago, così le vostre disgrazie finiranno!”
Il re pensò che fosse pazzo:
i suoi più bravi cavalieri avevano fallito nell’impresa, come poteva un ragazzo così giovane e senza spada e armatura far meglio di loro?
Il giovane indovinò i suoi pensieri, sorrise chiese una spada e dei viveri.
Gli portarono due spade:
una di purissimo acciaio intarsiato d’oro e d’argento che mandava bagliori in tutta la sala e l’altra semplice, ordinaria e pensante che sapeva di sudore e fatica.
Il giovane stava allungando la mano per prendere la prima quando la pallina d’oro fece sentire la sua voce consigliando di prendere l’altra:
“Non tutto ciò che luccica è utile, le cose serie, il più delle volte, non hanno un aspetto attraente!”
Il giovane prese la vecchia spada e partì verso la collina.
Lassù il drago si era costruito un castello di ferro con sette porte e sette torri, circondato da un fossato pieno d’acqua sporca ed enormi coccodrilli.
Il giovane percorse il ponte ed arrivò alla prima porta, bussò e il drago aprì.
Quando lo vide e sentì le richieste del giovane che lo invitava a lasciar stare gli abitanti del paese e a restituire le ragazze, scoppio a ridere e la porta si chiuse con un terribile tonfo e il ponte dietro il giovane crollò.

Al ragazzo non restava che andare avanti.

Si avviò verso le porte e vide che ognuna portava una scritta, “Porta dei Re”, “Riservata ai Principi”, “Di qui passano i cavalieri” e così via finché sulla settima trovò scritto:
“Entrata.”
Pensò, su suggerimento della pallina, di non essere un nobile e quindi aprì la settima porta.
Si udì il grido infuriato del drago che non capiva come il giovane avesse trovato la porta giusta, infatti, dietro alle altre c’erano numerose trappole e trabocchetti e centinaia di cavalieri che vi erano caduti dentro.
Il giovane, attraversato un lungo corridoio, arrivò in un’ampia sala dove giovani e ragazzi elegantemente vestiti, ridevano, ballavano e mangiavano cibi dal profumo invitante.
Lo presero invitandolo a stare con loro e a divertirsi lasciando perdere l’idea di aiutare gli abitanti piagnoni, tanto nessuno lo avrebbe ricompensato.
Il giovane esitò, ma la pallina d’oro bruciava come fuoco.
Emise un gran sospiro e disse:
“Ho dato la mia parola!” e passò oltre.
La parete si aprì, tutti svanirono poiché erano illusioni create dal drago e il giovane si trovò davanti allo stesso drago.
Era arrivato il momento del combattimento ma il drago prima offrì al giovane un’armatura preziosa.
“Fossi matto, questa renderebbe i miei movimenti goffi e impacciati” e, così dicendo, rifiutò.
La pallina d’oro approvò la decisione, il drago era terrorizzato e con due colpi di spada il giovane gli tagliò la testa e la coda.
Dal castello uscirono una dopo l’altra le otto ragazze che teneva prigioniere, ma mancava l’ultima:

la figlia del re.

Gli raccontarono che era stata trasformata in un fringuello ed era riuscita a fuggire nel bosco.
Il giovane si ricordò dell’uccello che gli parlò con voce umana e corse nel bosco.
Addormentata sotto all’albero c’era la principessa, il giovane la svegliò e la riportò a casa insieme alle altre ragazze.
La tristezza nel paese finì e, come succede nelle fiabe, il giovane povero sposò la figlia del re.

Brano tratto dal libro “Nuove storie. Per la scuola e la catechesi.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Maria e la “croce” sul pane

Maria e la “croce” sul pane

Un giorno Maria si alzò di buon mattino e, senza calzare i sandali per non svegliare Gesù e Giuseppe che ancora dormivano, a piedi nudi e di buona lena, si diede a sfaccendare per casa.
Riattizzò dalla cenere il fuoco, spalancò la finestra, andò ad attingere acqua al pozzo, poi pensò al pane per il giorno che cominciava.
Guardò nella dispensa e non trovò che un mucchietto di farina non più grande di un pugno.
Per tre era poco, ma doveva bastare.
Quella di fare il pane era per Maria una lieta fatica.
Lo impastava con amore fino a renderlo una morbida pasta, ne faceva delle pagnottelle odorose e paffute, le portava al forno a farle dorare.
La fragranza del pane quotidiano era per lei una dolce preghiera di ringraziamento che saliva al cielo, anche quando, come in quel giorno, il pensiero di quell’unica pagnottella che doveva bastare per tutti le pesava sul cuore.
Posata la forma su un’assicella coperta di lino, prese una fascina sotto il braccio e andò al forno.

Là incontrò altre donne col pane da cuocere.

L’infornata sarebbe stata una sola.
Vedendo il poco che portava, una di loro le chiese con aria sprezzante:
“Non siete più tre in famiglia, Maria?”
“Fornaio,” disse un’altra, “attento a quando caverete il pane dal forno!
Fate in modo che qualcuno non allunghi le mani più del dovuto per fare crescere il poco che ha portato!”
Maria guardava fuori della bottega verso la sua casa lontana, sperando di vedere arrivare Gesù.
Vedendola così distratta, la donna che aveva la forma più grande prese un coltello e con due colpi fece una croce sul pane di Maria.
“Così,” disse alle altre, “quando sarà cotto si potrà riconoscere il nostro bello grosso e non confonderlo con quella pagnottella da niente!”
E accennava alla piccola forma di pasta portata da Maria.

Il fornaio mise a cuocere le forme.

“Il mio mettetelo nel cantuccio più caldo perché si rosoli bene!” raccomandò una.
Le donne, aspettando, chiacchieravano, e il fornaio dava a tratti un’occhiata al forno per voltare il pane che cuoceva.
“Ce n’è una che non smette di crescere!” disse manovrando la pala di legno.
E la donna che aveva fatto la croce sul pane di Maria pensava che quella forma fosse di sicuro la sua.
Il fornaio tornò a voltare il pane e, sempre più stupito, sbottò:
“C’è un pane che fiorisce come una rosa.
Pare che si alzi in punta di piedi!”
E la donna superba pensò fra sé:
“Eppure ho sempre adoperato lo stesso mucchio di farina degli altri giorni.”

Quando il fornaio tolse le pagnotte, ecco cosa vide:

quello segnato dalla croce sembrava moltiplicato in grandezza.
Da misera pasta era diventato il più grosso, il più dorato, il più odoroso.
Il segno tracciato dalla donna prepotente lo aveva fatto fiorire e crescere come per incanto.
C’erano lì molte donne e la notizia del prodigio, com’è naturale, si diffuse in fretta.
Da quel giorno tutti cominciarono a portare il loro pane segnato da una croce e, ancora oggi, nelle campagne, non si cuoce pane che non porti quel segno di croce come una piccola benedizione di Dio.

Leggenda medievale
Brano senza Autore

La domanda di un filosofo alla figlia

La domanda di un filosofo alla figlia

Un famoso filosofo, giorno dopo giorno, si tormentava per cercare il significato ultimo dell’esistenza.
Aveva dedicato alla soluzione di questo enigma i migliori anni di vita e di studio.

Aveva consultato i più grandi saggi dell’umanità e

non aveva trovato alcuna risposta soddisfacente alla domanda.
Una sera, nel giardino della sua casa, mettendo da parte i suoi pensieri, prese in braccio la sua bambina di cinque anni che stava giocando allegramente.
E le chiese:

“Bambina mia, perché sei qui sulla terra?”

La bambina rispose sorridendo:
“Per volerti bene, papà!”

Brano di Bruno Ferrero

Oscar ed il (Papà) gigante

Oscar ed il (Papà) gigante

Il primo ricordo di Oscar è la faccia del gigante.
Era un faccione smisurato e terribile, tutt’intorno ad una bocca larghissima piena di denti.
Il faccione aveva una strana espressione.
“Adesso mi mangia!” pensò Oscar e cominciò a strillare con tutta la forza delle sue minuscole ma tenacissime corde vocali.
La mamma accorse e il gigante sparì.
Stretto stretto al petto della mamma, Oscar spiegò affannato:
“Mammina, c’era un gigante poco fa sulla mia culla e mi voleva assaggiare!
Un gigantone spaventoso!
Con una grande bocca e tanti denti!”
Naturalmente quello che usciva dalla sua bocca era soltanto:
“Nghè! Nghé! Uè, uè!” ma la mamma aveva il traduttore automatico e capiva.

Il gigante rimase a gironzolare nei dintorni.

Una volta lo prese in mano.
Oscar stava tutto in una sola di quelle manone.
Si preparava a strillare, ma scoprì che la manona era calda, accogliente e il vocione del gigante, che rimbombava “Oh là, là!” non era poi così spaventoso. Anzi.
Così Oscar imparò a vivere con il gigante.
Non sapeva bene che cosa facesse.
Spariva parecchie ore al giorno, ma quando c’era, Oscar si sentiva felice, sicuro, protetto.
Avere un gigante al proprio servizio non è niente male, pensava Oscar.
Quando l’orribile cane del Signor Pacucci minacciò ringhiando i teneri polpacci di Oscar, il gigante lo polverizzò praticamente con la sola apparizione.
Il gigante sapeva fare le operazioni, scrivere le lettere dell’alfabeto e raccontare le storie delle sue terre, piene di orchi, fate, draghi e cavalieri.
Un giorno, arrivò con una biciclettina e insegnò ad Oscar ad usarla.
Gli stette dietro per giorni, al parco, tenendolo con un dito, finché Oscar non fu in grado di pedalare da solo.

“Tump, tump!” facevano i suoi piedoni.

Oscar scoprì che quando sentiva quel “Tump, tump!” tutte le paure svanivano.
Ma un giorno venne il nonno a prendere Oscar a scuola.
Così capì che qualcosa non andava, perché doveva esserci la mamma al suo posto.
Dovevano andare tutti fuori a cena, quella sera, per festeggiare il compleanno della loro amica Laura.
Quando il nonno disse che il gigante aveva avuto un attacco di cuore, Oscar pensò che stesse scherzando.
Ma quando si rese conto che diceva sul serio pensò che sarebbe morto anche lui.
Era troppo scioccato persino per piangere.
Si sentiva intorpidito e indifeso.
Rimase lì, pensando:
“Perché?
Eri così grande, forte e in salute.
Lavoravi ogni giorno all’aperto!”
Pensava che fosse l’ultima persona al mondo che potesse avere un attacco di cuore.
Andare in ospedale fu terribile.
Il gigante era in coma.
C’erano tantissimi tubi e macchine intorno a lui.
Non sembrava nemmeno lui.

Oscar tremava.

Voleva solo che il gigante si svegliasse da quell’orribile incubo e lo portasse a casa.
L’ospedale era pieno di persone.
Erano molto gentili con Oscar.
Il bambino non sapeva che il gigante avesse così tanti buoni amici.
C’era anche Laura, ma non si festeggiò il suo compleanno.
Dopo quel primo giorno ne seguirono altri due di angoscia, di veglia e di preghiere.
Non funzionò.
Il 26 di febbraio accadde la cosa più tragica di tutti i dieci anni di vita di Oscar, e forse anche di tutti gli anni che vivrà.
Il gigante morì.
Con marzo arrivò la festa del papà.
Oscar comprò un bel biglietto d’auguri e scrisse la sua lettera:

“Non so nemmeno se mi hai sentito, quando ti ho detto addio.
Non ero mai stato a un funerale, prima, ma mi sorprese vedere che erano venute più di mille persone.
C’erano tutti i familiari e gli amici, ma anche un sacco di persone che non conoscevo nemmeno.
Immaginai poi che fossero persone che avevi trattato nello stesso modo speciale in cui trattavi me.

Ecco perché tutti ti volevano bene.

Certo, ho sempre saputo che eri speciale, ma in fondo eri il mio papà.
In quel giorno scoprii che eri speciale anche per molte altre persone.
Anche se ormai è passato del tempo, ti penso sempre e mi manchi molto.
Alcune notti piango fino ad addormentarmi, ma cerco di non buttarmi troppo giù.
So che ho ancora molto di cui essere grato.
Tu mi hai dato più amore in dieci anni di quanto molti bambini ne ricevano in tutta la vita.
È vero, non puoi più giocare a palla con me nei fine settimana, né portarmi fuori a colazione, né raccontarmi le tue storielle o passarmi di nascosto qualche spicciolo.
Ma io so che sei ancora con me.

Sei nel mio cuore e nelle mie ossa.

Sento la tua voce, dentro di me, che mi aiuta e mi guida nella vita.
Quando non so che cosa fare, cerco di immaginare quello che mi consiglieresti tu.
Sei ancora qui, a darmi consiglio e ad aiutarmi a capire le cose.
So che qualunque cosa accada, ti vorrò sempre bene e ti ricorderò.
Ho sentito dire che quando qualcuno muore, Dio manda un arcobaleno a prendere la persona per portarla in paradiso.
Il giorno in cui sei morto è apparso in cielo un doppio arcobaleno.
Tu eri alto quasi due metri.
Probabilmente un solo arcobaleno non era abbastanza per portarti fino in paradiso.
Ti voglio bene papà.
Oscar.

Brano senza Autore

La giornata con i papà

La giornata con i papà

Indossava il vestito più bello, di un luminoso color arancione, aveva i capelli raccolti con un nastro rosso e oro, ed era pronta ad uscire per andare a scuola.
Era la “Giornata con i papà” e tutti i bambini sarebbero dovuti andare a scuola accompagnati dal proprio papà.
Lei sarebbe stata l’unica con la mamma.
La mamma le aveva suggerito di non andare, perché i suoi compagni non avrebbero capito.
Ma la bambina voleva parlare a tutti del suo papà, anche se era un po’ diverso dagli altri.
A scuola c’era una folla di papà che si salutavano un po’ imbarazzati e bambini impazienti che li tenevano per mano.
La maestra li chiamava uno dopo l’altro e ciascuno presentava a tutti il suo papà.
Alla fine, la maestra chiamò la bambina con il vestito arancione e tutti la guardarono, cercando l’uomo che non era là.

“Dov’è il suo papà?” chiese un bambino.

“Per me non ce l’ha!” esclamò un altro.
Dal fondo, una voce brontolò:
“Sarà un altro padre troppo occupato che non ha tempo per venire!”
La bambina sorrise e salutò tutti.
Diede un’occhiata tranquilla alla gente, mentre la maestra la invitava a sbrigarsi.
Con le mani composte e la voce alta e chiara, cominciò a parlare:
“Il mio papà non è qui perché vive molto lontano!

Io, però, so che desidererebbe tanto essere qui con me:

voglio che sappiate tutto sul mio papà e su quanto mi vuole bene!
Gli piaceva raccontarmi le storie e mi insegnò ad andare in bicicletta.
Mi regalava un rosa rossa alle mie feste e mi insegnò a far volare gli aquiloni.
Mangiavamo insieme gelati enormi e, anche se non lo vedete, io non sono sola, perché il mio papà sta sempre con me, anche se viviamo lontani.
Lo so, perché me l’ha promesso lui, che sarebbe stato sempre nel mio cuore!”
Dicendo questo alzò una mano e la posò sul cuore.
La sua mamma, in mezzo alla schiera dei papà, la guardava con orgoglio, piangendo.
Abbassò la mano e terminò con una frase piena di dolcezza:
“Amo molto il mio papà!
È il mio sole e, se avesse potuto, sarebbe stato qui, ma invece è lontano in cielo…
Qualche volta però, se chiudo gli occhi, è come se non se ne fosse mai andato!”
Chiuse gli occhi e la madre, sorpresa, vide che tutti, padri e bambini, avevano chiuso gli occhi.

Che cosa vedevano?

Probabilmente il papà vicino alla bambina.
“So che sei qui con me, papà!” disse la bambina, rompendo il silenzio.
Quello che accadde dopo lasciò tutti emozionati.
Nessuno riuscì a spiegarlo, perché tutti avevano gli occhi chiusi, però sul tavolo ora c’era una magnifica e profumata rosa rossa.
E una bambina aveva ricevuto la benedizione dell’amore del suo papà e il dono di credere che il cielo non è poi così lontano!

Brano senza Autore

Il cavallo a dondolo

Il cavallo a dondolo

C’era una volta un cavallo a dondolo.
Era il più bello di tutti i giocattoli di Olta, perché era il più amato.
E lui lo sapeva.

Ma un giorno si stancò di dondolare.

“Se mi vuoi bene,” disse alla sua padroncina, “portami fuori, dove sono gli altri cavalli!”
Olta si sentì molto triste, ma prese il suo cavallo e lo portò in un campo, oltre la staccionata.
Lo salutò con un bacio sulla fronte e poi ripartì, col cuore in gola.
Il cavallo a dondolo sentì gli altri cavalli nitrire.

Provò a nitrire anche lui, ma non ci riuscì.

Poi vide gli altri che correvano e si rincorrevano.
Tentò anche lui, ma non poté muoversi.
Quando lo stalliere venne a spazzolare i puledri, il cavallo a dondolo volle lo stesso trattamento.
Ma, quando anche lui fu lavato, si accorse che il manto di legno aveva perso il suo bel colore.
Il giorno dopo, Olta ripassò dal campo perché aveva nostalgia del suo cavallo.
“Se mi vuoi bene,” le disse lui, “riportami a casa, dove mi hai insegnato a dondolare!”

Olta lo baciò sulla fronte e lo riprese con sé.

Il cavallo a dondolo, pieno di graffi e sbucciature, non luccicava più come una volta e scricchiolava al minimo movimento.
Ma adesso sapeva che ogni suo dondolio cullava un sogno di Olta.
E per lui questo sogno era più bello dei campi verdissimi oltre la staccionata.

Brano senza Autore

Gli alpinisti

Gli alpinisti

Due alpinisti si arrampicavano su una strada impervia, mentre li flagellava un vento gelido.
La tormenta stava per scatenarsi.
Raffiche turbinanti di schegge di ghiaccio sibilavano fra le rocce.

I due uomini procedevano a fatica.

Sapevano molto bene che se non avessero raggiunto in tempo il rifugio sarebbero periti nella tempesta di neve.
Mentre, con il cuore in gola per l’ansia e gli occhi quasi accecati dal nevischio, costeggiavano l’orlo di un abisso, udirono un gemito.
Un pover’uomo era caduto nella voragine e, incapace di muoversi, invocava soccorso.
Uno dei due disse:
“È il destino.
Quell’uomo è condannato a morte.
Acceleriamo il passo o faremo la sua fine.”

E si affrettò tutto curvo in avanti per opporsi alla forza del vento.

Il secondo invece si impietosì e cominciò a scendere per le pendici scoscese.
Trovò il ferito, se lo caricò sulle spalle e risalì affannosamente sulla mulattiera.
Imbruniva.
Il sentiero era sempre più oscuro.
L’alpinista che portava il ferito sulle spalle era sudato e sfinito, quando vide apparire le luci del rifugio.
Incoraggiò il ferito a resistere, ma all’improvviso inciampò in qualcosa steso di traverso sul sentiero.
Guardò e non poté reprimere l’orrore:
ai suoi piedi era steso il corpo del suo compagno di viaggio.

Il freddo lo aveva ucciso.

Lui era sfuggito alla stessa sorte solo perché si era affaticato a portare sulle spalle il poveretto che aveva salvato nel burrone.
Il suo corpo e lo sforzo avevano mantenuto il calore sufficiente, per salvargli la vita.

Brano senza Autore

La storia di un vaccino contro il coronavirus

La storia di un vaccino contro il coronavirus

Una anziana signora, nonna di diversi nipoti, influenzata dai No-Vax, era contraria a qualunque vaccino per immunizzarsi dal coronavirus (covid19), condividendo teorie complottiste, e quant’altro, inculcate dalla badante negazionista.
La nipote, incaricata di sovraintendere ai suoi bisogni, era preoccupata per il testardo diniego e, non riuscendo a convincerla con ragionamenti logici e scientifici, pensò, conoscendo la sua intima indole, ad uno stratagemma.

Le promise che, qualora avesse fatto il vaccino, sarebbe stata fotografata e postata nei social.

La nonnina era sensibilissima a questo tema poiché, fin da piccola, aveva sognato di fare l’attrice.
Aveva coltivato questa sua passione negli anni, arrivando anche a far parte di una compagnia teatrale, ma solo a livello amatoriale.
Giunto il giorno programmato per l’iniezione, la meticolosa nipote, nell’accompagnarla, spiegò allo staff medico la problematica e gli addetti si prestarono ben volentieri alla sceneggiata, anche per cambiare, per un momento, l’atmosfera triste che si respirava nell’ospedale.

In tre immortalarono con il loro smartphone il momento fatidico del vaccino,

offrendo altresì un bel mazzo di fiori alla signora, ovviamente comprato dall’amorevole nipote.
Gli occhi della nonnina, vedendo esaurito il suo desiderio da prima donna, si illuminarono per la gioia e, dopo questo istante, sopraggiunse una lacrima di felicità, poiché era stata trattata, a suo dire, come la regina Elisabetta.

Quella inaspettata reazione fece bene anche agli operatori sanitari.

Fece intravedere loro uno spiraglio di luce in fondo al tunnel della pandemia.
In tantissimi casi un gesto, che può essere considerato insignificante, può, in realtà, essere determinante a raggiungere un nobile obbiettivo, come quello di debellare l’insidioso virus.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno