L’albero della cuccagna

L’albero della cuccagna

A San Giovanni di Valdobbiadene, tanti anni fa, sono stato partecipe, e testimone, di una bellissima sagra paesana, dove il ricavato andava a sostenere l’asilo gestito dalle suore.
I primi giochi “paesani” furono la corsa coi sacchi e la spaghettata, cioè una gara in cui ogni partecipante, con le mani legate, avesse mangiato più rapidamente un piatto di spaghetti.

Il divertimento più bello e atteso fu, però, l’albero della cuccagna,

con sopra ricchi premi come salumi, formaggi e bottiglie di prosecco.
Diversi baldi giovani provarono a salire sul palo impregnato di grasso, ma tutti i tentativi andarono a vuoto.
Durante il gioco dell’albero della cuccagna, sopraggiunse sul più bello un mio amico, il cui soprannome era il “gatto”, per la sua abilità nel salire sui pali della luce a mani nude per puro divertimento, presentandosi con il miglior vestito della festa ma tutti, conoscendolo, lo acclamarono, insistendo affinché facesse un tentativo.

Una famiglia lì vicino gli fornì camicia e pantaloni adatti per il gioco.

I pantaloni, però, erano di una taglia inferiore alla sua e gli stavano strettissimi.
Dopo i primi tentativi di salita si ruppe la cucitura dei pantaloni, ed il mio amico mostrò a tutti le proprie parti intime.
Le suore, con le mani agli occhi, insieme a tante altre persone iniziarono a gridare scandalizzate “giù”, mentre l’altra metà dei partecipanti urlava divertita su.

Mai cuccagna fu così singolare e allegorica.

Il mio amico riusi a raggiungere l’obiettivo con l’abilità che gli era propria e, capito il motivo delle grida del “su” e del “giù”, non senza un po’ di rossore, regalò alle suore, per farsi perdonare, i ricchi premi, riservandosi il vino che condivise con gli amici.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

L’espediente dello champagne

L’espediente dello champagne

Quando avevo trent’anni, come già raccontato, andai a lavorare durante la stagione estiva, per un mese, in un importante albergo di lusso nella perla delle Dolomiti, qual è Cortina.
Fu un’esperienza unica, anche se mi licenziai rapidamente, dato che mi facevano lavorare troppo poco essendo abituato al ritmo ed alla modalità della fabbrica.

Alle diciotto finivo il mio turno di lavoro ed avevo tutta la sera e la notte da vivere, nella tentacolare Cortina.

Optai subito per ciò che culturalmente Cortina offriva, quale mia esigenza personale di allora, come andare alla presentazione di libri, saggi e romanzi da parte di autori importanti, allora perlopiù emergenti, che mi onoro di aver incontrato.
Di alcuni di essi conservo ancora le opere autografate.
Le ville private, in prevalenza, ospitavano tali eventi e, per un fortunato vortice di circostanze, entrai nel giro esclusivo dove si partecipava solo con invito.

In una serata indimenticabile, mi trovai protagonista grazie ad un espediente.

Alla fine di ogni presentazione si partecipava ad un lauto rinfresco dove non mancava mai lo champagne, che correva a fiumi.
Nel momento clou della serata scomparve il cavatappi d’argento, dato che qualcuno lo aveva sottratto per cattiva moda, mettendo in difficoltà ed in imbarazzo i padroni di casa, per le ulteriori bottiglie da aprire.
Vista la situazione, attirai l’attenzione degli ospiti prendendo una bottiglia, indicandone ed elogiando la marca.
Palesandomi esperto, colpii il bordo del tavolo con il collo della bottiglia, facendo schizzare il tappo con un po’ di vetro, ma questo poco importò agli astanti assetati.
Alcuni anni prima, avevo visto mio padre fare magistralmente la stessa operazione con una bottiglia di birra, in una circostanza più frugale.

Riempii i calici vuoti e protesi fra gli applausi (e gli evviva) dei presenti, salvando così la serata.

Ebbi un notevole successo personale, nonché inaspettato, che mi diede accesso ad altre serate indimenticabili nelle ville della conca Ampezzana, anche al di fuori dell’ambito letterario, che mal si conciliavano con il mio essere facchino di giorno.
Mai come in quel momento, mi sentii sdoppiato in una doppia vita che non riuscì a sostenere.

Brano di Dino De Lucchi
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Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Patate per l’esercito, vino per la marina

Patate per l’esercito, vino per la marina

A Levada, nell’alto Trevigiano, ci fu un anno con una primavera molto piovosa, nella quale vi era stata un’abbondante produzione di patate, favorita dai terreni ben drenati.
Con i magazzini pieni i Levadesi accolsero con piacere un commerciante.

Questo si presentò con un capello a larghe falde e

con un grosso anello al dito facendo bella impressione, soprattutto alle donne.
Con fine eloquenza chiese a tutte le aziende una bella casetta campione di patate perché se fossero risultate buone avrebbe avuto bisogno di una grande fornitura per l’esercito che le avrebbe acquistate tutte.

E venne accontentato.

Il giorno dopo un Levadese andò al mercato della città vicina per aggiornarsi sul prezzo dei tuberi e vi trovò il commerciante in questione che vendeva con una bancarella le loro patate avute gratis.
Avvicinatosi, gli chiese:
“Buone le patate?”
Il commerciante per niente imbarazzato dalla truffa fatta rispose:

“Buonissime!

Le vendo per patate di montagna.
Avete per caso anche delle bottiglie di buon vino?”
“Per il solito esercito?” chiese il Levadese.
“No, no! Per la marina.” rispose sicuro il commerciante.

Brano di Dino De Lucchi
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Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

La leggenda del Prosecco

La Leggenda del Prosecco

Tanti secoli orsono, in un ridente paesello dal nome non ben precisato, posto in una ridente zona collinare con panorami mozzafiato, ora zona Unesco, veniva coltivato un prestigioso vitigno, dal quale veniva prodotto un ottimo vino Prosecco.
Era consumato prevalentemente dagli stessi abitanti,

fatta eccezione per qualche conoscente dei paesi limitrofi.

In tanti ne abusavano nel consumo, dallo speziale al curato.
Allora come adesso, sappiamo che il prosecco è di una bontà unica.
Solo il sacrestano era astemio ed in previsione di un aumento di lavoro durante la festa patronale, contrariato per quello che stava succedendo e per quello che sarebbe potuto succedere,

ideò un singolare espediente.

Sperando nelle trame della provvidenza, si servì di una civetta entrata accidentalmente in chiesa.
Catturata, la rinchiuse nel tabernacolo.
Il buon curato, il giorno stesso, riponendo l’ostia dopo il rito della comunione, nell’aprire il tabernacolo vide due grandi occhi spalancati che lo fissavano,

spaventato corse al pulpito e balbettando disse:

“Cari fedeli, oggi abbiamo ricevuto un forte segnale dal Padre Eterno in persona, che mi ha fissato, guardandomi con due occhi spalancati…
Forse è giunto il momento in cui dobbiamo bere tutti un po’ di meno, dedicandoci al commercio del nostro prezioso nettare!”
In seguito a questo commento del curato, incominciò la fortuna commerciale di un vino ora di nomea internazionale.
Ogni anno vengono stappate milioni di bottiglie per brindare in ogni circostanza.

Brano di Dino De Lucchi
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Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno