Tre brani brevi

Tre brani brevi
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Il medico calvo

Il colonnello ed il soldato

L’usignolo ed i passeri

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“Il medico calvo”

In un ospedale c’era un medico, la cui testa calva era spesso oggetto di battute scherzose.
Un giorno, dopo il solito commento da parte di un’infermiera,

il medico controbatté dicendo:

“Signorina, Dio ha fatto teste perfette:
le altre le ha dovute ricoprire di capelli!”

Brano senza Autore
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“Il colonnello ed il soldato”

Durante un’ispezione, un colonnello si fermò, squadrò un soldato da capo a piedi, e gli disse con durezza:
“Abbottona la tasca, soldato!”

Il soldato, assai confuso, balbettò:

“La devo abbottonare subito, signor colonnello?”
“Sì, immediatamente!” esclamò il colonnello.
Allora il soldato si avvicinò cautamente ed abbottonò il risvolto del taschino della camicia del colonnello!

Brano senza Autore
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“L’usignolo ed i passeri”

Un giorno l’usignolo si ammalò e non cantava più.
“Non è ammalato,” dissero i passeri, “è troppo pigro per cantare!”
Questi commenti offesero profondamente l’usignolo, che iniziò di nuovo a cantare.

“Non avevamo ragione?” dissero i passeri.

Così l’usignolo fece appello alle sue ultime forze e morì.
Allora i passeri dissero:
“Ma allora perché cantava, se era ammalato?”
Dare troppo peso a quello che dicono gli altri può essere molto pericoloso.

Brano senza Autore

Il pinguino colorato

Il pinguino colorato

Quando mise fuori la testa dall’uovo, fu accolto dalla felicità di tutti.
La comunità dei pinguini dell’Isola Azzurra si strinse intorno a Priscilla e Dagoberto, i suoi genitori, che avevano gli occhi luccicanti e non stavano più nel frac per l’orgoglio.
Perché Filippo era davvero un bel neonato di pinguino.
Aprì il becco ed emise un robusto vagito.
Tutti i pinguini presenti applaudirono.
“È un ottimo segno!” disse lo zio Fortebecco, “È impaziente di affrontare la vita!”
Filippo, in effetti, partì alla carica della vita con una gran dose di energia.
Appena le sue zampette furono abbastanza robuste, si allontanò dallo sguardo premuroso dei genitori per infilarsi fra i più discoli dei piccoli pinguini della comunità.

Erano tutti più anziani di lui, ma nessuno lo batteva in coraggio e temerarietà.

Fu Filippo il primo piccolo di pinguino che osò scivolare dalla punta del grande iceberg fino al mare, anche se poi non poté sedersi per due settimane a causa del bruciore sotto la coda.
Fu sempre Filippo, il coraggioso piccolo pinguino, che portò via la colazione all’enorme e spaventoso tricheco Baffodiferro.
Nella banda dei “pinguini irsuti”, chiamati così perché si rifiutavano sistematicamente di lasciarsi pettinare le piume del capo dalle loro mamme, Filippo divenne l’incontrastato boss.
“Perché sei sempre così agitato, Filippo mio?” gli chiedeva la mamma, un po’ in ansia per quel figlio che cresceva così scapestrato.
Con gli amici, Dagoberto era sinceramente preoccupato:
“Quel monello ha bisogno di una bella strigliata!”
Così spesso, alla sera, Dagoberto, Priscilla e Filippo rappresentavano, senza volerlo, la versione pinguinesca del processo di Norimberga.
“È tutta colpa tua!” diceva la mamma.
“No, tua!” esclamava il papà, “Anzi, è colpa di Filippo!”
La mamma piangeva, papà sbatteva la porta e Filippo gridava:

“Non ne posso più!”

Un giorno il pinguino Filippo se ne stava sdraiato su una roccia a picco sul mare ed osservava annoiato il formicolio dei pinguini della comunità.
Sembravano tutti felici; lui, invece si sentiva pieno di amarezza.
“Che barba!
Un posto tutto bianco, grigio e nero.
Dove nessuno si fa i fatti suoi…
Deve pur esserci un paese colorato.
Pieno di gente colorata.
Potrei diventare anch’io pieno di colori…
Non ne posso più di questa camicia bianca e di questo ridicolo frac!”
E, impulsivo com’era, si lasciò scivolare giù dalla roccia, si tuffò tra le onde e nuotò via dall’Isola Azzurra.
Approdò alla Terraferma.

Gli avevano sempre raccomandato di evitare il litorale.

I pinguini si tenevano prudentemente alla larga dagli anfratti in ombra degli scogli, dove le onde infrangevano con violenza rabbiosa, e foche, piccoli cetacei e altri predatori si acquattavano per far strage degli imprudenti.
“Adesso sono libero e faccio come mi pare!” si disse Filippo.
Si arrampicò a fatica e si incamminò sulla spiaggia.
Un forte sbattere d’ali alle sue spalle lo mise in guardia.
Un giovane cormorano aveva deciso di attaccarlo.
Ma Filippo era robusto e dotato di un becco forte e tagliente.
Lottarono per un po’, facendo volare piume da tutte le parti.
Filippo ci mise tutta la sua rabbia.
Il cormorano cominciò a perdere sangue da una ferita alla gola e si spaventò.
Si ritirò dal combattimento e volo via lamentandosi e imprecando.
“Aah!”” fece Filippo, gonfiando il petto con soddisfazione.
Alcune gocce di sangue del cormorano erano finite sulle sue piume bianche.

Il pinguino guardò le macchie rosse e disse:

“Bene! Comincio ad essere colorato!”
Ondeggiando, ma più che mai risoluto a continuare la sua esplorazione, Filippo si inoltrò tra le rocce.
“Ehi, amico!” una voce alle sue spalle lo fece voltare di scatto.
Era pronto di nuovo a combattere, ma di fronte si trovò solo un gabbiano giovane e inoffensivo.
“Ti ho visto sistemare il cormorano!” disse il gabbiano, “Sei un duro, tu!”
“Certo!” rispose Filippo.
“Ti invito a pranzo!” insinuò furbescamente il gabbiano.
“Che cosa vuoi dire?” chiese Filippo.
“Andiamo a rubare le uova dai nidi delle rondini di mare, che ne dici?
In due non oseranno farci niente!” spiegò il gabbiano.
Fecero una scorpacciata di uova.
Le povere rondini di mare tentarono invano di difendere i loro nidi.
I due briganti mulinavano ali e becchi.

Alla fine, Filippo si guardò il petto:

era tutto macchiato dal giallo e arancione dei tuorli d’uovo.
“Altri colori!” si disse, “Questa è vita!”
Dietro di lui, si sentiva solo il disperato pigolare delle rondini di mare, che piangevano i nidi e le uova distrutte.
Si installò in una grotta di ghiaccio azzurra, e ne fece il suo covo.
Un gruppetto di gabbiani e perfino un’otaria con un occhio solo lo riconobbero come capo banda.
Le scorribande del gruppetto furono ben presto temute da tutti.
Filippo veniva chiamato semplicemente “Il pinguino colorato”.
Infatti la sua elegante livrea bianca e nera era sparita sotto i segni delle imprese che aveva affrontato.
Oltre il rosso del sangue e il giallo delle uova rubate, c’erano tracce verdi, azzurre e anche ciuffi di pelo argentato, che gli erano rimasti attaccati dopo un’epica lotta contro un Husky randagio.
Ma che serviva essere diventato davvero il primo pinguino a colori, se non poteva farsi ammirare dai suoi vecchi amici e dalla sua famiglia?

Il pensiero dell’Isola Azzurra prese a torturarlo.

Anche se non voleva ammettere, sentiva un bel po’ di nostalgia dell’allegra comunità dei pinguini.
“Avere una vita colorata non è proprio come me la immaginavo!” si diceva sempre più spesso.
Quella esistenza di fughe, attacchi, lotte e brigantaggio non gli piaceva più tanto.
Un mattino riprese la via del mare e tornò a casa
I primi pinguini dell’Isola Azzurra che incontrò erano dei piccoli che giocavano sulle lastre di ghiaccio galleggianti.
Appena lo videro si misero a strillare e scapparono gridando:
“Un mostro!
Un mostro!”
Gli adulti fecero largo al suo passaggio, ma non per fargli onore.
Lo guardavano tutti con una sorta di ribrezzo.
“Ma perché?
Idioti, sono io, non mi riconoscete?” brontolava Filippo.
“Filippo, figliuolo, lo sapevo che saresti tornato!”
La mamma naturalmente lo riconobbe, ma non osò abbracciarlo.
“Ma in che stato sei!”
“Bentornato, Filippo!” gli disse anche il papà.

Ma non lo toccò.

Le comari tutt’intorno borbottavano:
“Che disgrazia!
Poveri genitori…”
Per la prima volta nella sua vita, a Filippo venne voglia di piangere.
Improvvisamente comprese che i suoi colori continuavano a tenerlo lontano; lo rendevano straniero alla comunità dell’Isola Azzurra.
Mentre lui, solo adesso, si accorgeva che soltanto lì poteva essere veramente felice.
Ma come si fa a tornare indietro?
“Papà!” chiese, “Vorrei cancellare questi colori e ricominciare, se è possibile!”
Dragoberto esitò, poi guardò Filippo negli occhi e disse:
“C’è un mezzo solo:
devi tuffarti dalla Grande Cascata.
Laggiù l’acqua è così violenta e rapida che nessun colore può resistere.
Ma è tremendamente rischioso.
Ci vorrà il tuo coraggio.
Te la senti di farlo?”
“Si, papà!” rispose Filippo.

La voce si sparse in un attimo.

Nel giro di pochi minuti c’erano tutti, grandi e piccoli, intorno alla grande cascata.
Non riuscirono a trattenere un “Oh!” sincero quando in alto, dove il fiume precipitava in mare con un fragoroso boato, apparve Filippo.
Sembrava così piccolo lassù.
Rimase un attimo fermo a concentrarsi, poi spiccò il salto.
Un salto stupendo, come se improvvisamente gli fossero spuntate le ali.
La corrente lo ghermì come un fuscello e lo scagliò violentemente nel mare ribollente e schiumante.
Il pinguino sparì nel vortice.
Tutti trattennero il fiato.
Poi ad un tratto Filippo riemerse.
La forza stessa dell’acqua lo proiettò in alto e tutti videro che le sue piume erano diventate immacolate e che i colori erano scomparsi.
Allora esplosero in un festoso:
“Urrà!” che coprì perfino il tuonare dell’acqua.

Brano tratto dal libro “Storie belle e buone.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

L’albero della cuccagna

L’albero della cuccagna

A San Giovanni di Valdobbiadene, tanti anni fa, sono stato partecipe, e testimone, di una bellissima sagra paesana, dove il ricavato andava a sostenere l’asilo gestito dalle suore.
I primi giochi “paesani” furono la corsa coi sacchi e la spaghettata, cioè una gara in cui ogni partecipante, con le mani legate, avesse mangiato più rapidamente un piatto di spaghetti.

Il divertimento più bello e atteso fu, però, l’albero della cuccagna,

con sopra ricchi premi come salumi, formaggi e bottiglie di prosecco.
Diversi baldi giovani provarono a salire sul palo impregnato di grasso, ma tutti i tentativi andarono a vuoto.
Durante il gioco dell’albero della cuccagna, sopraggiunse sul più bello un mio amico, il cui soprannome era il “gatto”, per la sua abilità nel salire sui pali della luce a mani nude per puro divertimento, presentandosi con il miglior vestito della festa ma tutti, conoscendolo, lo acclamarono, insistendo affinché facesse un tentativo.

Una famiglia lì vicino gli fornì camicia e pantaloni adatti per il gioco.

I pantaloni, però, erano di una taglia inferiore alla sua e gli stavano strettissimi.
Dopo i primi tentativi di salita si ruppe la cucitura dei pantaloni, ed il mio amico mostrò a tutti le proprie parti intime.
Le suore, con le mani agli occhi, insieme a tante altre persone iniziarono a gridare scandalizzate “giù”, mentre l’altra metà dei partecipanti urlava divertita su.

Mai cuccagna fu così singolare e allegorica.

Il mio amico riusi a raggiungere l’obiettivo con l’abilità che gli era propria e, capito il motivo delle grida del “su” e del “giù”, non senza un po’ di rossore, regalò alle suore, per farsi perdonare, i ricchi premi, riservandosi il vino che condivise con gli amici.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

La camicia dell’uomo felice

La camicia dell’uomo felice

C’era una volta un re malato di malinconia:
diceva di avere già i piedi nella fossa, scongiurava di salvarlo, e prometteva metà del suo regno a chi gli avesse portato sorrisi e felicità.
Figuratevi i cortigiani e i sapientoni!
Stavano in adunanza giorno e notte, discutevano rumorosamente, s’insolentivano anche nel fervore del parlare e del cercare; ma il rimedio per guarire quel bizzarro re malato d’ipocondria non riuscivano a trovarlo.
Fu chiamato anche il vecchio della montagna, un sapientone con tanto di barba bianca, il quale dichiarò:

“Occorre trovare un uomo felice.

Toglietegli la camicia, infilatela al re, il re sarà subito anch’egli felice!”
Immediatamente partirono cercatori per ogni parte del regno.
Fu sonata la trombetta nelle città, nelle piccole cittadine, nei paesi e villaggi, ma gli esseri felici non si fecero innanzi.
Chi era povero in canna e soffriva d’astinenza, chi era ricco e sospirava per mal di denti o mal di ventre, chi aveva la moglie bisbetica e la suocera in convulsione, chi la stalla appestata, chi il pollaio in rovina e chi i figli sfaccendati…
I cercatori tornarono tutti alla Corte portando delusioni.
Il re continuò a lagnarsi e a promettere metà del regno a chi gli avesse portato la camicia della felicità, mentre i cortigiani e i sapientoni rinnovarono adunanze e discussioni.
Una sera il figlio del re andava passeggiando meditabondo per la campagna.
Passando davanti ad una capanna, che aveva il tetto di foglie e di fango, udì parlare e pregare sommessamente:

“Ti ringrazio, buon Dio!

Ho lavorato, ho sudato, ho mangiato di buon appetito, ed ora mi riposerò tranquillo su questo letto di foglie.
Sono proprio felice!”
Felice?
Dunque c’era un uomo felice?
Il giovane principe volò al palazzo reale.
Chiamò le guardie, e ordinò di andare a prendere immediatamente la camicia di quell’uomo felice.
“Dategli quanto denaro vuole…
Fatelo barone, conte, duca…
Principe anche: mio pari.
Ma ceda la sua camicia e portatela al re!”

Corsero le guardie alla povera capanna.

Offrirono al boscaiolo una fortuna per avere la sua camicia.
Ma che!
L’uomo felice era così povero che non aveva camicia!”

Brano tratto dal libro “I più bei racconti per ragazzi.” di Lev Nikolàevič (Leone) Tolstòj. Editrice la Scuola.

La brava moglie

La brava moglie

Un blasonato conte, proprietario di numerosi poderi, aveva dato lo sfratto ad un suo mezzadro addicendo a varie motivazioni.
Una tra queste era stata quella di non avergli dato abbastanza onoranze e regalie, come d’uso nei contratti di un tempo, entro l’11 novembre, giorno di san Martino.
In realtà, il povero mezzadro non aveva potuto dargli quasi nulla poiché aveva una “nidiata” di figli in tenera età da sfamare,

che sottraevano, a dire dell’avaro conte, troppo alla proprietà.

Il fondo era chiamato “Carestia” poiché, per l’infelice ubicazione su un terreno sassoso e impervio, rendeva realmente poco.
Paradossalmente si presentarono all’appello per condurlo solamente tre aspiranti mezzadri.
Ognuno fu sottoposto ad un minuzioso interrogatorio circa la capacità e volontà di condurre il problematico fondo.
Il terzo aspirante si presentò dal conte e da sua moglie, assistiti a loro volta dal castaldo, preposto a sorvegliare e a mantenere in ordine i conti di gestione, mostrando le proprie grandi mani callose come prova di laboriosità.

Cercò di balbettare qualcosa ma, imbarazzato per l’emozione, non riuscì quasi a parlare.

Dopo un breve lasso di tempo che parve una eternità, la contessa, squadrandolo da cima a fondo e facendolo agitare, al povero esaminando, disse:
“I calli sulle mani non sono sufficienti a farti avere un nostro giudizio favorevole!”
La contessa lo fece avvicinare ed osservò, minuziosamente, la sua giacca, la quale mostrava il suo tempo, la camicia, che nonostante fosse logora, era pulita e profumava di lavanda, ed i pantaloni, i quali, nonostante fossero tutti rattoppati, erano ben stirati.

Il contadino si stava riprendendo per parlare, quando la nobildonna lo interruppe, dicendo:

“Devi avere una brava e laboriosa moglie, e per questa ragione la terra la diamo a te, principalmente per i meriti di lei!”
Valentino, così si chiamava, tornò a casa con le ali ai piedi, attendendo con ansia il momento in cui avrebbe potuto baciare, romanticamente, sua moglie, per ringraziarla del suo lavoro e del suo amore, emulando, così, i principi delle favole.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Padre e figlio al ristorante

Padre e figlio al ristorante

Un figlio portò il padre a cena in un ristorante.
Il padre era anziano e quindi debole e non completamente autosufficiente.
Mentre mangiava, un po’ di cibo gli cadeva sulla camicia e sui pantaloni.

Gli altri clienti osservavano il vecchio con stupore,

ma suo figlio rimase tranquillo continuando la cena ed una volta che entrambi finirono di mangiare, il figlio, senza mostrare nessun imbarazzo e con assoluta tranquillità prese il padre e lo portò in bagno per pulirgli il viso cercando anche di togliere le macchie di cibo dai suoi vestiti; amorevolmente gli pettinò i capelli grigi e, infine, gli rimise gli occhiali.
All’uscita del bagno, un profondo silenzio regnava nel ristorante.
Il figlio si avvicinò alla cassa per pagare il conto ma prima di uscire, un uomo anziano, si alzò dal tavolo e chiese al figlio:
“Non ti sembra che hai lasciato qualcosa qui?”

Il giovane rispose:

“No, non ho lasciato nulla!”
Allora l’anziano disse:
“Sì hai lasciato qualcosa!
Hai lasciato qui una lezione per ogni figlio, e una speranza per ogni genitore!”
L’intero ristorante era così silenzioso, che si poteva ascoltare cadere uno spillo.

Degli studenti universitari ebbero come compito per il fine settimana un lungo e caloroso abbraccio al loro papà.
“Non posso farlo,” protestò uno, “mio padre morirebbe!”
“E poi,” disse un altro, “mio padre sa che lo amo!”
“Allora è facile!” replicò il professore, “Perché non lo fai?”

Il lunedì seguente tutti parlavano, sorpresi,

di come fosse stata soddisfacente l’esperienza.
“Mio padre si è messo a piangere!” diceva uno.
E un altro:
“Strano.
Mio padre mi ha ringraziato!”

Brano tratto dal libro “C’è qualcuno lassù.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Giosuè e la luce dalla finestra

Giosuè e la luce dalla finestra

Una strana epidemia si abbatté sulla città all’improvviso.
Iniziava come un raffreddore:
i colpiti cominciavano a starnutire, poi prendevano uno strano colore grigiastro, finché la malattia esplodeva in tutta la sua virulenza e i colpiti diventavano prima avidi, poi prepotenti e arraffatori, perfino ladri e tremendamente sospettosi gli uni degli altri.
Il pensiero del denaro intaccava e annullava tutti gli altri pensieri.
“Ciò che conta sono i soldi.
Con i soldi si fa tutto.” sostenevano.
Insieme al pensiero dei soldi arrivava anche la paura.
I venditori di casseforti e porte blindate non riuscivano a star dietro agli ordini.
In certi alloggi la porta d’ingresso arrivava ad avere diciotto serrature a prova di tutto, anche di bazooka.
Nelle famiglie, i papà e le mamme rubavano i soldi dai salvadanai dei bambini.

I bambini chiedevano:

“Quanto mi date per sparecchiare?”
Non solo per asciugare i piatti o per fare i compiti; anche per andare nei giardinetti a giocare.
Un sabato pomeriggio, nella via principale, scoppiò un tremendo tafferuglio per una moneta da cinque centesimi.
Perfino il dottore fu contagiato e cominciò a vendere le medicine scadute, che prima buttava via con molta attenzione.
La vita in città divenne insopportabile.
Il sindaco e i suoi consiglieri decisero di recarsi per un consulto dal famoso Barbadoro, che era un eremita, per chiedere una medicina o almeno un consiglio.
L’eremita dalla lunga barba bianca li ascoltò con attenzione, poi lisciandosi la barba disse: “Conosco la malattia che ha colpito il vostro villaggio.
È dovuta ad un virus che si chiama “sgrinfiacchiappa” ed è terribile, perché chi è colpito diventa sempre più insensibile, il suo cuore si indurisce fino a diventare di pietra.
Si può sfuggire al contagio per un po’ di tempo compiendo atti di bontà e di generosità, ma per debellare veramente la malattia c’è un solo rimedio: l’acqua della “Montagna che canta.”
Dovete trovare un giovane forte e coraggioso, completamente disinteressato.
Deve affrontare questo impegno solo per amore della gente.
Perché l’acqua della generosità funziona solo se è veramente voluta, aspettata, accolta.

Logico, no?

Perciò se troverete il giovane adatto in grado di affrontare le difficoltà dell’impresa (e non è cosa da poco) la medicina farà effetto solo se ci sarà qualcuno ad aspettarla!”
“Noi aspetteremo. Tutti!” giurarono il sindaco e i consiglieri, “Dobbiamo assolutamente uscire da questa epidemia che rende infelice la nostra città!”
“…e vuota le casse comunali!” aggiunse l’assessore alle finanze, che aveva la pelle grigia di chi veniva colpito dalla malattia del virus “sgrinfiacchiappa.”
Il giorno dopo su tutti i muri della città era affisso un bando:
“Cercasi giovane coraggioso per impresa eroica!”
Si presentarono in duemila.
Ma appena gli aspiranti eroi venivano a sapere che non ci avrebbero guadagnato niente, si ritiravano.
Tutti, meno uno.
Era un giovane robusto e simpatico, preoccupato dalla malattia che colpiva i suoi concittadini e che rendeva infelici tante persone.
Si chiamava Giosuè.
Il sindaco e i consiglieri gli spiegarono quello che doveva fare, anche se non avevano alcuna idea di dove si trovasse la “Montagna che canta.”
“La cercherò.” disse tranquillamente Giosuè.

“Noi ti aspetteremo.” promise la gente.

“Metteremo una luce sulla finestra tutte le notti, così saprai che ti aspettiamo!”
Giosuè mise un po’ di biancheria e pane e formaggio in una bisaccia, baciò la mamma ed il papà, abbracciò Mariarosa, la sua fidanzata, che gli sussurrò:
“Anch’io ti aspetterò!”
Salutò tutti e partì.
Per tre giorni Giosuè camminò risolutamente verso le montagne, che tremolavano nella luce azzurrina dell’orizzonte.
“Una volta là, mi basterà cercare la “Montagna che canta.”
Non deve essere difficile.” pensava.
Ma si illudeva.
Dopo dieci giorni di marcia, le montagne continuavano ad apparire lontane, come profili di giganti dormienti, all’orizzonte.
Ma Giosuè non si fermava.
Pensava agli abitanti della città che certamente si ricordavano di lui e lo aspettavano, ai suoi genitori e a Mariarosa e, ogni mattina, anche se i piedi gli dolevano ricominciava la marcia.

Passarono altri dieci giorni, poi dieci mesi.

Nella città, le prime notti erano state un vero spettacolo.
Sui davanzali di quasi tutte le finestre brillava una luce.
Era il segno della speranza:
aspettavano l’acqua della generosità portata da Giosuè.
Ma con il passare del tempo, molte lampade si spensero.
Alcuni se ne dimenticarono semplicemente, altri, colpiti dalla malattia, si affrettarono a spegnerle per risparmiare.
La maggioranza dei cittadini, dopo qualche mese, scuoteva la testa dicendo:
“Non ce la ha fatta.
Non tornerà più!”
Ogni notte, c’era qualche luce in meno alle finestre.
Ma Giosuè, dopo un anno, arrivò alle montagne.
Le prime erano montagnole da poco e le valli che le dividevano larghe e facili.

Poi si fecero sempre più aspre, rocciose, disseminate di ostacoli.

Giosuè stava con le orecchie tese per individuare la “Montagna che canta.”
Qualche picco, grazie al vento, fischiava.
Qualche montagna, grazie ai ghiacciai e ai torrenti, rombava.
Ma nessuna cantava.
In una piccola baita, aggrappata al fianco di una montagna, incontrò un vecchio pastore e gli chiese qualche informazione.
Il pastore gli regalò una scodella di latte fresco e poi gli disse:
“La “Montagna che canta.”?
Certo che so dov’è.
Non mi fa dormire quando porto le mie pecore a pascolare da quelle parti.
Ma è un accidenti di montagna!
Ripida e levigata come un obelisco e con il gigante Soffione!”

“Chi è?” domandò Giosuè.

“Un gigante burlone che si diverte a soffiare giù chi cerca di salire sulla montagna!”
“Pazienza, ma io devo salire lassù!” disse Giosuè.
Il vecchio pastore lo accompagnò fino ai piedi della montagna e lo salutò:
“Buona fortuna!”
La montagna cantava davvero, con un vocione allegro e un po’ stonato.
Giosuè cominciò subito ad arrampicarsi.
Le pareti della montagna avevano pochi appigli e il povero giovane si ritrovò presto con le mani rovinate dalla roccia.
Era quasi a metà della salita, quando un soffio di vento violento lo staccò dalla parete e lo fece rimbalzare in giù per parecchi metri.
Mentre cadeva sentiva la risata del gigante Soffione, felice per lo scherzo che gli aveva giocato.

Neanche questa volta Giosuè si scoraggiò.

Si riempì le tasche e la camicia di sassi e ricominciò a salire.
Pesante com’era, ogni centimetro gli costava una fatica terribile, ma il gigante Soffione aveva un bel soffiare.
Non riusciva neanche a farlo vacillare.
Dopo un po’ il gigante cominciò a tossire e infine smise di soffiare.
Così Giosuè arrivò sulla vetta e vide la sorgente cristallina dell’acqua della generosità.
Aveva compiuto la missione che gli era stata affidata e il suo cuore era leggero e lieto:
la gente della città sarebbe tornata felice come prima.
Portava sulle spalle una botticella della preziosa acqua.
Se non fosse bastata per tutti, ormai sapeva la strada.
Una notte senza luna e senza stelle, Giosuè arrivò sulla collina da cui si vedeva la città.
Guardò giù ansimando perché aveva fatto di corsa gli ultimi metri.
Quello che vide gli riempì gli occhi di lacrime e il cuore di amarezza.

La città era completamente avvolta dal buio.

Non c’erano luci sui davanzali delle finestre.
Nessuno lo aveva aspettato.
“È stato tutto inutile…
Se nessuno mi ha aspettato, l’acqua non farà effetto…
Tutta la mia fatica è stata inutile!”
Si avviò mestamente.
Aveva voglia di buttar via l’acqua che gli era costata tanto.
Stava per farlo, quando qualcosa lo fermò.
C’era una luce, laggiù!
Un lumino, piccolo, tremante, lottava con la notte, in mezzo ai muri neri delle case.
“Qualcuno mi ha aspettato!” disse.
Giosuè rise forte per la felicità e partì di corsa.
Riconobbe la finestra e la casa.
In fondo al cuore non ne aveva mai dubitato.
Mariarosa e i suoi genitori lo avevano aspettato!

Brano tratto dal libro “Storie belle e buone.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Il professore ed il nastro azzurro (Chi sono io è importante)

Il professore ed il nastro azzurro
(Chi sono io è importante)

Un insegnante di New York decise di onorare i suoi studenti dell’ultimo anno delle superiori spiegando perché fosse importante ciascuno di essi.
Utilizzando un procedimento elaborato da Helice Bridges di Del Mar, California, chiamò ogni studente davanti alla classe, uno per volta.
Prima disse in che modo lo studente fosse importante per lei e per la classe.
Poi consegnò a ciascuno un nastro azzurro su cui era stampata a lettere d’oro la dicitura:

“Chi sono io è importante.”

In seguito il professore decise di avviare una ricerca in classe per vedere quale impatto avrebbe avuto questo riconoscimento nella comunità.
Consegnò a ciascuno studente altri tre nastri e incaricò tutti di andare a diffondere questa cerimonia di riconoscimento.
Quindi avrebbero dovuto controllare i risultati, vedere chi avesse conferito e ricevuto il riconoscimento e riferire in classe dopo circa una settimana.
Uno dei ragazzi della classe andò da un giovane funzionario di un’azienda nei dintorni e gli diede il riconoscimento per averlo aiutato nella pianificazione degli studi.
Gli diede il nastro azzurro e glielo appuntò sulla camicia.
Poi gli consegnò altri due nastri dicendogli:
“Stiamo facendo una ricerca in classe sul riconoscimento e vorremmo che lei trovasse qualcuno da onorare, gli consegnasse un nastro azzurro e un altro in più perché questi possa onorare un terza persona per proseguire questa cerimonia di riconoscimento.
Poi dovrebbe per favore riferirmi quello che è successo.”
Più tardi, lo stesso giorno, il funzionario si presentò dal suo capo, che era noto fra l’altro per essere un tipo piuttosto brontolone.
Lo fece sedere e gli disse che lo ammirava profondamente perché era un genio creativo.
Il capo sembrò molto sorpreso.
Il funzionario gli domandò il permesso di consegnargli il dono del nastro azzurro e di appuntarglielo.

Il capo, sorpreso, rispose:

“Beh, certo.”
Il funzionario prese il nastro azzurro e lo appuntò sulla giacca del capo, giusto sopra il cuore.
Consegnandogli l’altro nastro gli chiese:
“Mi farebbe un favore?
Potrebbe prendere quest’altro nastro e usarlo per onorare qualcuno?
Il ragazzo che mi ha dato i nastri sta facendo una ricerca a scuola e mi ha chiesto di proseguire questa cerimonia di riconoscimento per scoprire come influenzi la gente.”
Quella sera il capo tornò a casa dal figlio quattordicenne e lo fece sedere.
Gli raccontò:
“Oggi mi è successa la cosa più incredibile.
Ero in ufficio e uno dei funzionari entra e mi dice che mi ammira e mi dà una nastro azzurro perché sono un genio creativo.
Immagina…
Mi considera un genio creativo.
Poi mi mette sulla giacca, sopra il cuore, questo nastro azzurro che dice “Chi sono io è importante.”
Mi dà un altro nastro e mi chiede di trovare qualcun altro da onorare.
Tornando a casa in macchina, stasera, ho cominciato a pensare chi onorare con questo nastro e ho pensato a te.

Voglio onorare te.

Le mie giornate sono davvero frenetiche e quando torno a casa non ti presto molta attenzione.
A volte ti sgrido perché non hai voti abbastanza buoni a scuola e perché la tua camera è un caos, ma in qualche modo stasera volevo proprio sedermi qui e, beh, farti sapere che per me sei davvero importante.
Assieme a tua madre, sei la persona più importante della mia vita.
Sei un ottimo ragazzo e ti voglio bene!”
Il ragazzo sbalordito cominciò a singhiozzare e non finiva più di piangere.
Tremava con tutto il corpo.
Guardò suo padre e disse fra le lacrime:
“Prevedevo di suicidarmi domani, papà, perché pensavo che non mi volessi bene.
Adesso non serve.”

Brano tratto dal libro “Brodo caldo per l’anima. Volume I” di Jack Canfield e Mark Victor Hansen

Il serpente a sonagli ed il giovane

Il serpente a sonagli ed il giovane

In una tribù indiana, i giovani venivano riconosciuti adulti dopo un rito di passaggio vissuto nella più stretta solitudine.
Durante questo periodo di solitudine dovevano provare a se stessi di essere pronti per l’età matura.
Una volta uno di loro camminò fino a una splendida valle verdeggiante di alberi e radiosa di fiori.
Guardando le montagne che cingevano la valle, il giovane notò una vetta scoscesa incappucciata di neve dal biancore abbacinante.

“Mi metterò alla prova contro quella montagna.” pensò.

Indossò la sua camicia di pelle di bisonte, si gettò una coperta sulla spalla e cominciò la scalata.
Quando arrivò in cima, vide sotto di sé il mondo intero.
Il suo sguardo spaziava senza limiti, e il suo cuore era pieno di orgoglio.
Poi udì un fruscio vicino ai suoi piedi, abbassò lo sguardo e vide un serpente.
Prima che il giovane potesse muoversi, il serpente parlò.
“Sto per morire!” disse, “Fa troppo freddo quassù per me e non c’è nulla da mangiare.

Mettimi sotto la tua camicia e portami a valle!”

“No!” rispose il giovane, “Conosco quelli della tua specie.
Sei un serpente a sonagli.
Se ti raccolgo mi morderai e il tuo morso mi ucciderà!”
“Niente affatto,” disse il serpente, “Con te non mi comporterò così.
Se fai questo per me, non ti farò del male!”

Il giovane rifiutò per un po’, ma quel serpente sapeva essere molto persuasivo.

Alla fine, il giovane se lo mise sotto la camicia e lo portò con sé.
Quando furono giù a valle, lo prese e lo depose delicatamente a terra.
All’improvviso il serpente si arrotolò su se stesso, scosse i suoi sonagli, scattò in avanti e morse il ragazzo a una gamba.
“Mi avevi promesso…” gridò il giovane.
“Sapevi che cosa rischiavi quando mi hai preso con te!” disse il serpente strisciando via.

Brano tratto dal libro “L’importante è la rosa.” di Bruno Ferrero. Edizione Elledici.

Il maestro ed i tre ostacoli

Il maestro ed i tre ostacoli

Un giorno un Maestro accolse tre candidati che volevano diventare suoi discepoli.
Al primo incontro il Maestro iniziò a comportarsi in modo eccentrico a tavola, facendo discorsi assurdi e avendo atteggiamenti strani.

Disse anche talune parolacce e mangiò il suo cibo con le mani,

asciugandosi la bocca al polsino della camicia.
Uno di questi tre discepoli se ne andò, scandalizzato di questo atteggiamento.
Il secondo fu avvisato dai discepoli anziani (istruiti così dal Maestro) che questi era un truffatore, che si stavano organizzando per fargliela pagare e che lui doveva stare ben attento a fidarsi di un uomo così.

Anche il secondo uscì dal gruppo.

Al terzo il Maestro proibì categoricamente di prendere la parola ogni volta che la chiedeva e di porre qualsiasi tipo di domande.
Anche il terzo se ne andò, sdegnato ed offeso.

Quando il Maestro fu solo con i suoi allievi disse:

“Il comportamento di coloro che se ne sono andati illustra tre validi concetti.
Il primo “non giudicare a prima vista.”
Il secondo “non giudicare cose di grande importanza da ciò che dicono gli altri.”
Il terzo “non fare della tua percezione di stima ed apprezzamento altrui il metro per il tuo giudizio su di loro.”

Storia Zen
Brano senza Autore, tratto dal Web