I bambini zebra

I bambini zebra

Agostino era un bambino che frequentava la scuola elementare e, secondo la sua maestra, era particolarmente fortunato.
Difatti la sua insegnante lo aveva classificato come bambino zebra, termine coniato, dalla psicologa Jeanne Siaud-Facchin, per indicare i bambini che hanno in comune con le zebre la capacità di fondersi con l’ambiente circostante, avendo in dote un quoziente intellettivo sopra la media.

Questi bambini, inoltre, erano dotati di una profonda sensibilità e straordinarie capacità d’ascolto e di interazione.

Agostino amava ascoltare, a fine giornata, sua nonna Ester che, tra racconti fantastici, leggende e vite di santi, stimolava l’intelligenza del nipote.
Il bimbo traeva grande beneficio da questi racconti, riuscendo ad integrarli anche nel suo percorso scolastico.
Dopo qualche anno, una sera, la nonna gli disse che stava per esaurire il suo repertorio, anche per le lacune di memoria date dall’età.

Consigliò ad Agostino di suggerirle, nelle pause, dei passaggi narrativi, anche se inventati.

I suoi racconti potevano non essere più precisi ma, per allietare le ore serali, ne avrebbero potute coniare loro.
Decisero che questi nuovi racconti li avrebbero chiamati “Storie Belorie”, dato che erano simil vere.
Esortò il nipote a ricordare tutte le storie che lei gli raccontava poiché, queste, gli sarebbero potute servire nella vita.
Gli suggerì anche di trascriverle, in modo grammaticalmente corretto, in un quaderno, in modo che queste potessero essere raccontate, a loro volta, in futuro, avendo tutte una morale.

La nonna auspicò che il nipote diventasse un attore e che avesse il “sacro fuoco” della recitazione.

Trascorsero diversi anni, nei quali Agostino continuò brillantemente i propri studi e giunto alla laurea, dedicò la tesi, conseguita con il massimo dei voti, a sua nonna.
Rientrato a casa, le portò, pieno di gratitudine, il bacio accademico ricevuto dopo aver discusso la propria tesi sui bambini zebra, evidenziando che questi, spesso, hanno in comune dei nonni fantastici che raccontano loro delle bellissime storie con morale.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

L’arcobaleno (L’affresco della vita)

L’arcobaleno (L’affresco della vita)

Nella nostra vita non c’è niente di preconfezionato, ogni cosa ce la dobbiamo costruire con i vari colori che formano la realtà.
Il bianco è il colore principale che servirà come base.
È la quotidianità, il voler costruire, giorno dopo giorno, pezzo dopo pezzo, la tua vita, che è unica e insostituibile.
Poi c’è il rosso che ci ricorda il sangue, la lotta, la passione, la sofferenza, i sacrifici…

Sì, lo so, che quest’ultima parola non va di moda, ma è comunque essenziale.

L’arancione che rappresenta la capacità di rinnovarsi, di affrontare le cose in modo nuovo, vincendo la noia e la ripetitività di ogni giorno.
Il giallo è il colore del successo, del benessere del pane abbondante che ci viene donato ogni giorno.
Poi c’è il verde, il colore della natura, della speranza, dei passaggi, dell’attesa, della risurrezione… della vita.
Ecco l’azzurro, che ricorda il cielo, la serenità, la gioia, la condivisione…

l’allegria dello stare insieme agli altri.

Segue l’indaco, un tipo di blu più intenso, noto anche come colore della mezzanotte, utile per la meditazione e la spiritualità, è un colore con effetto rilassante
Il viola è il colore della riflessione, del silenzio, della meditazione… del trovare noi stessi.
Ecco, prendi tutti questi colori e con essi vedi di dipingere l’affresco della tua vita.
Non pensare che sarà un lavoro semplice e nemmeno che te la caverai facilmente.

L’affresco finirà solo con la tua vita:

ma è nella sapiente combinazione di questi colori che troverai ciò che hai sempre desiderato.
Come in natura i colori si uniscono formando un unico arcobaleno, così il Dio della vita, fedele alle sue promesse dell’alleanza, ci invita a divenire uno insieme a Lui, armonizzando le nostre ricchezze, i nostri doni, le nostre diversità ed il nostro carisma.
Questo è l’affresco che siamo chiamati a dipingere.

Brano senza Autore

Il pittore e gli allievi (Mamma e figlia)

Il pittore e gli allievi (Mamma e figlia)

Cara figlia mia, voglio narrarti una storia.

“Molto tempo fa, un uomo che aveva ricevuto da Dio il dono di dipingere con pennelli e colori le meraviglie che vedeva attorno a sé, pensò che fosse giusto insegnare la sua arte ad altri giovani così che non morisse con lui.
Spiegò ai suoi allievi come usare i pennelli, a diluire i colori per ottenere le sfumature più infinite per rappresentare il creato.
Quando, secondo lui, furono pronti, mostrò loro un suo dipinto e li esortò a riprodurlo il più fedelmente possibile, seguendo i suoi insegnamenti, concedendo loro una settimana di tempo.

Trascorsi i sette giorni ogni allievo si recò da lui con la propria opera.

Quale fu la meraviglia del maestro quando vide che ogni riproduzione era simile nei tratti alla sua originale, ma i toni e le sfumature li distinguevano una dall’altra.
Deluso e amareggiato li rimproverò per non aver ascoltato i suoi insegnamenti.
Prima che gli allievi avessero modo di difendersi, intervenne la sposa del maestro pittore, che aveva assistito a tutto restando fino ad allora in disparte:
“Marito mio, tu hai trasmesso a questi giovani il tuo dono, mostrando loro come usarlo, secondo il loro cuore e la loro anima.
E sai bene che ogni anima è dono di Dio ed è unica.
Come puoi chiedere, anche ad uno solo di loro, di guardare il mondo coi tuoi occhi… tu puoi insegnargli a osservare la natura e la tecnica per riprodurla, ma è con i suoi occhi che egli la vedrà e la esprimerà attraverso la sua anima, unica e ineguagliabile.
E ogni opera che uscirà dalle sue mani, grazie al dono che tu gli hai fatto, sarà mirabile e unica, degna di onore e ammirazione.

Tu hai donato loro il pennello per dipingere la vita…

ma lascia che lo usino secondo il loro cuore e sii sempre e comunque fiero di loro!”
Fu così che il pittore capì che se facciamo un dono non possiamo ipotecare l’uso che ne verrà fatto.”

Ecco, figlia mia, Dio ha fatto dono ad ogni donna di cooperare alla creazione della vita, attraverso la maternità e in tantissimi altri modi.
Ogni madre userà il pennello avuto in dono per insegnare ai figli a dipingere, secondo coscienza e amore, la vita che decideranno di avere per volontà e aspirazione.
Ogni opera sarà unica, frutto di insegnamenti ricevuti attraverso atti di amore, rispetto, compassione, riconoscenza, carità e umiltà.
Poiché tutti siamo fallibili, gli errori nel tuo dipinto lo renderanno ancora più prezioso e unico.
Ma ricorda che col tuo pennello potrai dipingere qualunque cosa, secondo il tuo cuore e i tuoi desideri, in piena libertà.
Ecco, ora il pennello è tuo, è un dono, usalo come meglio senti di fare; ricorda i miei insegnamenti sempre, perché son frutto della vita che ho ricevuto e che ti ho dato, ma dipingi la tua vita coi colori che vedono i tuoi occhi, attraverso il cuore.

Fai lo stesso coi tuoi figli e, quando verrà il momento, lascia loro in dono questo pennello, come faccio ora con te.

Così che in futuro tutti possano godere degli insegnamenti, ma mantengano la libertà di utilizzarli.
Ciò che ti lascio è la tela dove ho dipinto la mia vita, perché tu la possa osservare e prenderne spunto per dipingere la tua, secondo le tue sole aspirazioni; è la forza di camminare con le tue gambe, ma mai da sola, perché il filo con il quale il Padre ci ha legato non può essere spezzato e io sarò sempre parte di te come tu di me.
Prendi questo dono e sii sempre fiera delle tue capacità, in esso c’è anche il mio cuore che da sempre batte assieme al tuo, per l’eternità.
Con amore, la tua mamma.

Brano senza Autore

Salomone e l’uovo sodo

Salomone e l’uovo sodo

Tanti anni fa, in un giorno di festa, alcuni ministri della corte di re David erano seduti ad un banchetto e si preparavano a mangiare.
Uno di loro aveva così fame che ingoiò un uovo, ma poi, vedendosi il piatto vuoto, si vergognò e si lamentò:
“Magari potessi avere un uovo!”

Il suo vicino lo sentì e gli offrì il suo:

“A patto,” disse, “che, quando te lo chiederò indietro, tu mi darai tutto quello che un uomo può ricavare da un uovo!”
L’uomo giurò davanti a testimoni e poi si dimenticò della faccenda.
In fondo, doveva solo rendere un uovo.
Passarono alcuni anni e un giorno il ministro che aveva prestato l’uovo lo volle indietro.
“Non c’è problema!” assicurò l’altro, “Ecco l’uovo.”
“Eh no, mio caro.
Un uovo da un pulcino, il quale a sua volta, nel giro di un anno, può generarne altri diciotto.
L’anno dopo ciascuno dei diciotto pulcini può generarne altri diciotto e così via.” replicò il ministro.
Insomma, il conto era lunghissimo e i due ministri andarono a chiedere udienza a re David.

“Cosa vi porta qui da me?” domandò lui.

I due ministri raccontarono tutto e re David decise che il ministro che aveva dato l’uovo aveva ragione; l’altro gli doveva pagare una cifra esorbitante:
era giusto così.
Il giovane Salomone ascoltava ogni udienza da dietro la porta.
Quando il ministro che era stato giudicato debitore passò davanti a lui, lo fermò.
“Non essere afflitto!” lo consolò, “Ti voglio aiutare.”
“E come?” chiese l’uomo sospirando.
“Domani, quando il re passerà davanti al cortile del palazzo, fatti trovare a seminare fave lesse!” spiego Salomone.
“Che cosa?” si meravigliò l’uomo.
“Sì, e quando il re ti chiederà cosa stai facendo, digli che è possibile che dalle fave lesse spunti qualcosa, visto che dalle uova sode nascono i pulcini!” spiegò Salomone.

Così fece l’uomo!

Re David capì la giustezza di quel ragionamento e annullò il precedente giudizio.
“Va’ ora, ed estingui il tuo debito con un uovo!” disse re David al ministro.
Ma il re aveva riconosciuto subito l’intervento di suo figlio che, nonostante fosse molto giovane, era incredibilmente saggio.
E fu fiero di lui e della sua capacità di far giustizia.

Brano senza Autore

Caro papà, noi crediamo in te!

Caro papà, noi crediamo in te!

Quando fu assunto come redattore in una importante rivista nazionale, gli sembrò di toccare il cielo con un dito.
Telefonò a mamma, papa e naturalmente alla dolce Monica alla quale disse semplicemente:
“Ho avuto il posto!
Possiamo sposarci!”
Si sposarono e negli anni nacquero tre vispi bimbetti:

Matteo, Marta e Lorenzo.

Sei anni durò la felicità, poi la rivista fu costretta a chiudere.
Il giovane papà si impegnò a trovare un altro posto come redattore in un giornale locale.
Ma anche quel giornale durò poco.
Questa volta la ricerca fu affannosa.
Ogni sera la giovane mamma e i tre bambini guardavano il volto del papà, sempre più rabbuiato.
Una sera, durante la cena, l’uomo si sfogò amareggiato:
“È tutto inutile!

Nel mio settore non c’è più niente:

tutti riducono il personale, licenziano…”
Monica cercava di rincuorarlo, gli parlava dei suoi sogni, delle sue indubbie capacità, di speranza.
Il giorno dopo, il papa si alzò dopo che i bambini erano già usciti per la scuola.
Con un gran peso sul cuore, prese una tazza di caffè e si avvicinò alla scrivania dove di solito lavorava.
Lo sguardo gli cadde sul cestino della carta.
Alcuni grossi cocci di ceramica rosa attirarono la sua attenzione.
Si accorse che erano i pezzi dei tre porcellini rosa che i bambini usavano come salvadanaio.
E sul suo tavolo c’era una manciata di monetine, tanti centesimi e qualche euro e anche alcuni bottoni dorati.
Sotto il mucchietto di monete un foglio di carta sul quale una mano infantile aveva scritto:

“Caro papà, noi crediamo in te.

Matteo, Marta e Lorenzo.”
Gli occhi si inumidirono, i brutti pensieri si cancellarono, il coraggio si infiammò.
Il giovane papa strinse i pugni e promise:
“La vostra fede non sarà delusa!”
Oggi, sulla scrivania di uno dei più importanti editori d’Europa c’è un quadretto con la cornice d’argento.
L’editore la mostra con orgoglio dicendo:
“Questo è il segreto della mia forza!”
È solo un foglio di carta con una scritta incerta e un po’ sbiadita:
“Caro papà, noi crediamo in te!
Matteo, Marta e Lorenzo.”

Brano di Bruno Ferrero

La brava moglie

La brava moglie

Un blasonato conte, proprietario di numerosi poderi, aveva dato lo sfratto ad un suo mezzadro addicendo a varie motivazioni.
Una tra queste era stata quella di non avergli dato abbastanza onoranze e regalie, come d’uso nei contratti di un tempo, entro l’11 novembre, giorno di san Martino.
In realtà, il povero mezzadro non aveva potuto dargli quasi nulla poiché aveva una “nidiata” di figli in tenera età da sfamare,

che sottraevano, a dire dell’avaro conte, troppo alla proprietà.

Il fondo era chiamato “Carestia” poiché, per l’infelice ubicazione su un terreno sassoso e impervio, rendeva realmente poco.
Paradossalmente si presentarono all’appello per condurlo solamente tre aspiranti mezzadri.
Ognuno fu sottoposto ad un minuzioso interrogatorio circa la capacità e volontà di condurre il problematico fondo.
Il terzo aspirante si presentò dal conte e da sua moglie, assistiti a loro volta dal castaldo, preposto a sorvegliare e a mantenere in ordine i conti di gestione, mostrando le proprie grandi mani callose come prova di laboriosità.

Cercò di balbettare qualcosa ma, imbarazzato per l’emozione, non riuscì quasi a parlare.

Dopo un breve lasso di tempo che parve una eternità, la contessa, squadrandolo da cima a fondo e facendolo agitare, al povero esaminando, disse:
“I calli sulle mani non sono sufficienti a farti avere un nostro giudizio favorevole!”
La contessa lo fece avvicinare ed osservò, minuziosamente, la sua giacca, la quale mostrava il suo tempo, la camicia, che nonostante fosse logora, era pulita e profumava di lavanda, ed i pantaloni, i quali, nonostante fossero tutti rattoppati, erano ben stirati.

Il contadino si stava riprendendo per parlare, quando la nobildonna lo interruppe, dicendo:

“Devi avere una brava e laboriosa moglie, e per questa ragione la terra la diamo a te, principalmente per i meriti di lei!”
Valentino, così si chiamava, tornò a casa con le ali ai piedi, attendendo con ansia il momento in cui avrebbe potuto baciare, romanticamente, sua moglie, per ringraziarla del suo lavoro e del suo amore, emulando, così, i principi delle favole.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Il ramo e lo gnomo

Il ramo e lo gnomo

C’era una volta un giovane ramo di un grande albero.
Era nato in primavera, tra il tepore dell’aria e il canto degli uccelli.
In mezzo all’aria, alle lunghe giornate estive, al sole caldo, alle notti frizzanti, trascorse i suoi primi mesi di vita.
Era felice: aveva foglie bellissime e, poi, erano sopraggiunti fiori colorati ad adornarlo e, dopo ancora, grandi frutti succosi di cui tutti gli uccelli del cielo potevano nutrirsi.
Ma un giorno cominciò a sentirsi stanco: era arrivato l’autunno… i frutti si staccarono, le foglie cominciarono a cambiare colore, divenivano sempre più pallide.

Addirittura, di tanto in tanto, il vento se ne portava via qualcuna.

Con l’inverno venne la pioggia, e poi l’aria fredda, e il ramo si sentiva sempre peggio; non capiva cosa stesse succedendo.
In pochi giorni e in poche notti si trovò spoglio, infreddolito, completamente solo.
Rimase così qualche tempo, fin quando non capì che non poteva far altro che mettersi a cercare i suoi fiori, le sue foglie, i suoi frutti per poter di nuovo stare insieme a loro.
“Devo darmi da fare!” disse risoluto tra sé e sé.
Cominciò, allora, a chiedere aiuto a tutti i suoi amici.
Si rivolse dapprima al mattino:
“Sono solo e infreddolito, ho perso tutte le mie foglie, sai dove le posso trovare?”

Il mattino rispose:

“Ci sono alberi che ne hanno tante, prova a chiedere a loro!”
Si rivolse a quegli alberi:
“Sono solo e infreddolito, ho perso tutte le mie foglie, sapete dirmi dove le posso trovare?”
Gli alberi risposero:
“Noi le abbiamo sempre avute, prova a chiedere agli alberi uguali a te!”
Si rivolse ai rami spogli come lui.
“Abbiamo tanto freddo anche noi, non sappiamo cosa dirti!” gli risposero.
Queste parole lo fecero sentire meno solo.
Si disse che, se avesse ritrovato le foglie, sarebbe subito corso dai suoi simili a rivelare il luogo in cui si trovavano.
Continuò la sua ricerca e chiese al vento.
“Io le foglie le porto solo via, è la pioggia che le fa crescere.” disse il vento a gran voce.

Si rivolse alla pioggia.

“Le farò crescere a suo tempo.” gli disse la pioggia tintinnando.
Si rivolse allora al tempo.
“Io so tante cose,” gli disse con voce profonda, “il tempo aggiusta tutto, non ti preoccupare: occorrono tanti giorni e tante notti!”
Si rivolse alla notte, ma la notte tacque e lo invitò a riposare.
Si sentiva infatti molto stanco.
Quel ramo così spoglio e indebolito dal freddo e dal proprio silenzio fu capito da uno gnomo, che comprese anche il suo dolore.
Allora il ramo parlò ancora e disse:
“Mi è sembrato di chiudere gli occhi, e, dopo averli riaperti, non ho più trovato le mie foglie, non sono stato più capace di vederle!”
Lo gnomo pensò a lungo, poi capì:
si tolse gli occhiali e li posò sul naso del ramo, spiegandogli che erano occhiali magici che servivano per guardare dentro di sé.
Il ramo, allora, aprì bene gli occhi e… meraviglia… vide che dentro di sé qualcosa si muoveva, sentiva un rumore, vedeva qualcosa circolare, provò ad ascoltare, guardò a fondo:
era linfa, linfa viva che si muoveva in lui.

Incredulo, disse allo gnomo ciò che vedeva.

Lo gnomo gli spiegò che le foglie, i fiori e i frutti nascono grazie alla linfa oltre che al caldo sole, all’aria di primavera e alla pioggia.
“Se hai linfa dentro di te, hai tutto!” gli disse, “non occorre chiedere più nulla a nessuno, ma insieme all’acqua, alla luce, all’aria, agli altri rami, le foglie rinasceranno: le hai già dentro!”
Il ramo, immediatamente, si sentì più forte, rinvigorì:
aveva la linfa in sé, non doveva più chiedere consigli, gli bastava lasciar vivere la linfa che circolava in lui.
La linfa da cui, un giorno, sarebbero rinate le amiche foglie.

La sofferenza dell’albero è la nostra sofferenza, quando non comprendiamo il perché delle cose che ci accadono.
Una parola amica, un suggerimento, un consiglio, una frase possono ridarci la carica per tornare a vivere ed affrontare la vita.
In fondo l’uomo è così ricco di energie, di capacità, di creatività, sa come andare alla scoperta dei propri talenti per sfruttarli al meglio per sé e per gli altri.

Brano senza Autore

Il maestro di tiro con l’arco

Il maestro di tiro con l’arco

C’era una volta un maestro zen che era un vero campione nell’arte del tiro con l’arco.
Una mattina invitò il suo discepolo preferito a osservare una dimostrazione della sua abilità.
Il discepolo lo aveva visto centinaia di volte,

ma comunque obbedì al suo maestro.

Si recarono nel bosco accanto al monastero e raggiunsero un albero di quercia.
Lì, il maestro prese un fiore che aveva infilato nella sua cintura e lo mise su uno dei rami.
Poi aprì la borsa che aveva portato con sé e tirò fuori tre oggetti:
il suo splendido arco in legno pregiato, una freccia e un fazzoletto bianco ricamato.
Successivamente si spostò allontanandosi di cento passi dal punto in cui aveva riposto il fiore.
A quel punto chiese al suo discepolo di bendargli accuratamente gli occhi con il fazzoletto ricamato.

Il discepolo lo fece.

“Quante volte mi hai visto praticare lo sport nobile e antico del tiro con l’arco?” chiese il maestro.
“Ogni giorno.” rispose il discepolo.
“E sono sempre riuscito a colpire il centro del bersaglio da trecento passi?” domandò ancora il maestro.
“Certo!” esclamò il discepolo.
Con gli occhi coperti dal fazzoletto, il maestro piantò saldamente i piedi per terra, tirò indietro la corda con tutte le sue forze e poi scoccò la freccia.
La freccia sibilò nell’aria, ma non colpì il fiore e nemmeno l’albero:
mancò il bersaglio con un margine imbarazzante.
“L’ho colpito?” chiese il maestro, rimuovendo subito dopo il fazzoletto dagli occhi.
“No, l’hai mancato completamente!” rispose il discepolo con un po’ di disagio.

Poi aggiunse:

“Pensavo che tu volessi dimostrami il potere del pensiero e della sua capacità di eseguire magie.”
“È così.
Ti ho appena insegnato la lezione più importante circa il potere del pensiero!” rispose il maestro, che poi concluse:
“Quando vuoi conquistare un obiettivo, concentrati solo su di esso, perché nessuno potrà mai colpire un bersaglio che non vede!”

Storia Zen
Brano senza Autore

Il giocoliere di Notre Dame

Il giocoliere di Notre Dame

C’era un giocoliere, nativo di Compiègne, paesino nel nord-est della Francia, che tanti secoli fa girava le piazze dei paesi divertendo la gente con i suoi giochi di destrezza.
Un suo pezzo forte era quello di mettersi con la testa all’ingiù e, sostenendosi sulle mani, buttare in aria sei palle di rame e prenderle con i piedi.
Un altro numero rinomato era quello di arrotolarsi come una palla in modo che i suoi piedi toccassero la nuca e in quella posizione maneggiare dodici coltelli.
La gente sbarrava gli occhi per la meraviglia e volentieri sganciava qualche monetina.
Durante la buona stagione, la cosa funzionava discretamente e Barnabé, questo era il nome dell’uomo, viveva dignitosamente.
La situazione, invece, diventava molto difficile con l’arrivo dell’autunno e dell’inverno, quando,

a causa del freddo, non si poteva esibire.

Il nostro amico pativa la fame, ma lui era timorato di Dio e molto devoto della Vergine Maria, perciò non si lamentava, tantomeno imprecava o bestemmiava come invece facevano altri giocolieri.
Un giorno, nel suo vagabondare da un paese all’altro, incontrò un monaco, a cui aprì il cuore:
gli disse che il suo sarebbe stato il più bel mestiere del mondo, se non fosse stato per le ristrettezze e la fame che tante volte era costretto a sopportare.
Al che il suo compagno di strada ribatté che il più bello stato di vita era quello dei monaci, perché in convento essi potevano celebrare ogni giorno le lodi a Dio, alla Vergine ed ai Santi, sicché la loro vita era un continuo cantico al Signore.
Nella semplicità del suo cuore, Barnabé restò ammaliato dal racconto e chiese di entrare in convento.
Quando arrivò in convento, vide che tutti i monaci, secondo le loro doti e capacità,

servivano Dio e veneravano la Vergine:

alcuni scrivendo dei libri e degli inni, altri dipingendo o facendo delle miniature, altri ancora scolpendo o svolgendo i lavori più umili…
Barnabé, ignorante com’era, si rese conto di non saper fare nulla di tutto questo e si senti immediatamente molto triste ed umiliato.
Ad un certo punto, però, i suoi confratelli si accorsero che il suo umore era cambiato:
non era più triste e non si lamentava più.
Incuriositi ed insospettiti, lo pedinarono e, un giorno, lo scoprirono in cappella, dove davanti all’altare della Vergine stava eseguendo in suo onore i numeri che un tempo erano i più ammirati nelle piazze dei paesi:
quello con le sei palle di rame e quello con i dodici coltelli.

Che cosa gli era venuto in mente?

Di lodare la Vergine con le uniche cose che sapeva fare.
I monaci gridarono allo scandalo ed il priore, pur conoscendo la sua semplicità d’animo, lo considerò matto e tentò di trascinarlo a forza fuori dalla cappella, ma a quel punto successe qualcosa che fece rimanere tutti di stucco:
miracolosamente la Vergine scese dall’altare, si avvicinò a Barnabé e con il manto gli asciugò il sudore che gli rigava la fronte.

Favola medioevale.
Brano di Daniele Cunial

Ti auguro…

Ti auguro…

Ti auguro il coraggio di girare pagina quando le cose non vanno come dovrebbero, o semplicemente, come vorresti che andassero.
Ti auguro la forza di lasciar perdere, tutte le volte in cui, pur mettendoci tutta la volontà del mondo,

non si può ingranare.

Ti auguro di non ancorarti a qualcosa che non può e non potrà farti sorridere e piangere di felicità.
Ti auguro la voglia di osare sempre, la capacità di ascoltare i consigli di chi ti vuole bene ma, poi, puntualmente, la caparbietà di decidere solo in base a quel che senti, a ciò che provi.

Ti auguro di poter ricominciare sempre,

anche quando la vita e le situazioni non saranno dalla tua parte perché chi non ricomincia inciampa, inevitabilmente, in ricordi aggrovigliati che ti fanno smettere di pensare al futuro.
Abbi la forza di conservare i momenti vissuti ma di non vivere dentro essi.
Sii forte.

Brano tratto dal libro “La sindrome di Wanderlust.” di Emma Redegalli