Tonto Zuccone, girovagando

Tonto Zuccone, girovagando
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La macchina

A Venezia

Il risotto con le mosche

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“La macchina”

Tonto Zuccone, dopo ripetuti tentativi ed una raccomandazione non tanto trasparente, prese la patente di guida per la macchina.
Stupì tutti perché acquistò una macchina nuova, rosso fiammante, invece di una usata per impratichirsi nella guida.
Scorrazzava felice per le vie del paese, esibendo il suo gioiello rosso con uno stuolo di amici a bordo.
Mutò d’umore quando svoltando a destra sentiva uno strano rumore in macchina e lo stesso quando girava a sinistra.

Andò a farla benedire da un sacerdote amico credendola stregata, ma niente, i rumori persistevano.

Tornò dal concessionario, deluso, per la riparazione o per una eventuale sostituzione essendo ancora in garanzia.
I meccanici incuriositi dallo strano caso fecero un giro di prova e tornarono quasi subito ridendo per quello che avevano scoperto.
Il rumore era causato da due latine di Coca Cola vuote, abbandonate dagli amici di scorribande, che ruzzolavano nella parte posteriore della vettura ad ogni sterzata o sobbalzo.
L’episodio bastò a far perdere a Tonto ogni interesse per la macchina, il quale tornò alla sgangherata bicicletta.

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“A Venezia”

Tonto Zuccone andò per la prima volta a visitare, da solo, la tanto desiderata Venezia.
Dopo aver chiesto informazioni, gli fu indicato di prendere un vaporetto per fare un giro turistico per le vie d’acqua e poter, così, ammirare la meraviglia dell’Adriatico con i suoi palazzi, calli e canali.
Si recò alla biglietteria con una certa titubanza e l’addetto in divisa, vedendolo impacciato, gli chiese dove volesse recarsi.

Tonto gli diede una grossa banconota e gli disse:

“Dovunque e da nessuna parte!”
Il bigliettaio, abituato ad aver a che fare con turisti da tutto il mondo, intuì con chi stava parlando e replicò:
“Si vede anche da lontano che sei Tonto in visita a Venezia!”
La cosa stupì lo spaesato campagnolo che domandò stupito:
“Come fate a conoscermi anche qui?
Non credevo di essere così famoso!”

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“Il risotto con le mosche”

Il risotto è un piatto tipico della tradizione del nord Italia e sta diventando sempre di più un piatto nazionale.
Forti del primato produttivo e qualitativo del riso nostrano, essendo degli storici e accorti produttori, non temiamo il confronto con quelli di dubbia importazione e dal prezzo stracciato.
I nostri bravi chef, di tramandata e gloriosa tradizione gastronomica, lungo tutto lo stivale, propongono i risotti nelle varianti con il prezioso zafferano, con le verdure di stagione, ai funghi, con carni e pesci e, chi più ne ha, più ne metta.

Alcuni anni fa, Tonto Zuccone fu invitato ad un pranzo di battesimo da un amico in terra Feltrina, nel Bellunese.

Dopo gli antipasti di rito, nel menù non poteva mancare di certo il risotto fatto secondo la tradizione locale, con i resti della carne di cacciagione, tagliati a sottili pezzettini che risultavano alla vista di colore scuro, chiamato per questo motivo risotto con le mosche, per la somiglianza con gli insetti dittari.
La neo mamma, nonché provetta cuoca, era particolarmente fiera di questo piatto tramandato gelosamente dalle sue ave e chiese con un pizzico di orgoglio a Tonto se gradisse il suo risotto con le mosche e se lo avesse mai gustato prima.
Tonto a sentirlo nominare ed alla vista della portata ebbe una reazione di disgusto e di netto rifiuto.

Questo evento fece ridere la cuoca, ma anche gli altri commensali, a crepapelle.

Ascoltata la risposta di Tonto, la padrona di casa disse scherzando che ad ogni mosca aveva tolto la testa e le zampe, soprattutto per omaggiare il gradito ospite.
Tonto non volle sentire ulteriori spiegazioni, fu sufficiente vedere ed ascoltare il nome del piatto per rimanere, ancor di più, perplesso e basito della strana, per lui, cucina locale.
Rinunciò ad ottimo risotto, eseguito con cottura e mantecatura perfette.
Il risotto con le mosche è una specialità tutta feltrina, di nicchia gastronomica, non contemplata nei manuali di cucina e gelosamente tramandata da generazione in generazione, che solo un “tonto” come Tonto poteva rifiutare a priori.

Brani di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione dei racconti a cura di Michele Bruno Salerno

Lo specchio nel Bazar

Lo specchio nel Bazar

In un pittoresco, stravagante, chiassoso “bazar” di una città orientale, una ricca turista americana scovò una strana specchiera, incastonata in una preziosa cornice d’argento.
Il prezzo di vendita richiesto era però troppo alto, esageratamente alto.
Ma nel corso della lunghissima trattativa, lo scaltro padrone del “bazar”, con fare segreto e misterioso, confidò alla cliente che quello specchio possedeva un potere magico, che produceva un incantesimo unico al mondo.
Bastava specchiarsi, e sfiorare leggermente con l’indice della mano destra la superficie del vetro.
Immediatamente, insieme con la persona riflessa, sullo specchio appariva una scritta, comprensibile in ogni lingua, che rivelava la verità più profonda della persona rispecchiata.
Era un’occasione unica e stupefacente di successo!

Da non perdere assolutamente!

Possedere uno specchio “Che dice la verità su tutto e su tutti” era un affarone eccezionale!
L’americana non resistette alla tentazione e fece subito una prova:
si vide riflessa alla perfezione nello specchio e, sfiorandolo con l’indice, vide apparire a piè di specchio, in un ottimo inglese americano, la scritta luminosa:
“Ricca signora texana carica di soldi!”
Saldò immediatamente il conto senza discutere e si affrettò a ritirare lo specchio che, adeguatamente avvolto, protetto, imballato ed assicurato, venne spedito in Texas per via aerea.
Naturalmente, mediante quell’acquisto magico, la ricca ereditiera era certa di riuscire a conquistare il centro dell’attenzione della gente che conta nella sua città.
Quello specchio diventò invece, per lei, fonte inesauribile di guai.
Lo fece sperimentare ad alcune delle sue migliori amiche.

Sulle prime lo presero come un gioco divertente.

Si specchiarono, in mezzo a risatine “fatue” e poco convinte, ma le parole dello specchio arrivarono inesorabili:
“Ha rubato al supermercato la biancheria che indossa!” sentenziò alla prima,
“Ha undici anni in più di quello che dichiara!” alla seconda, “È piena d’invidia e diffonde calunnie su voi tutte!” alla terza.
Le amiche, imbarazzate, si accomiatarono in fretta.
Più tardi si specchiò, quasi distrattamente, anche il marito della miliardaria, ed il verdetto fu: “Tradisce la moglie!”
Volarono parole terribili e furono convocati gli avvocati.
Naturalmente, la cosa si riseppe in tutta la città.
In breve tempo più nessuno frequentò la ricca casa della miliardaria.

Quel “souvenir” portentoso le fece il vuoto intorno.

Delusa e pentita, l’ingenua e ricca texana un giorno, infuriata, spaccò lo specchio magico a martellate.
E mentre lo specchio andava in frantumi, apparve a grandi lettere, quasi come un “sacrosanto” testamento, la sua ultima scritta:
“Anche tu, sciocca texana, anche tu… hai paura della verità?”
La verità ci farà liberi!
Ma si paga a caro prezzo.

Brano di Bruno Ferrero

Stai vicino al generale

Stai vicino al generale

Durante la prima guerra mondiale furono chiamati al fronte anche i giovanissimi appena diciottenni.
L’addio alle famiglie di questi soldatini era straziante.
Alla stazione di una grande città, genitori e amici si stringevano intorno ad un gruppo di soldati in partenza.

Tutti si abbracciavano piangendo:

molti si vedevano per l’ultima volta.
Un uomo stringeva la mano del suo ragazzo e cercava invano di dirgli addio.
I suoi occhi erano pieni di lacrime.
Le mani gli tremavano e non riusciva a parlare.
Quello era il suo unico figlio, lo amava con tutte le sue forze.
Ma che cosa poteva dirgli?
Che cosa poteva riportarglielo a casa?
Il treno fischiò.
I soldati dovevano affrettarsi a salire in carrozza.
L’uomo desiderava raccomandare qualcosa a suo figlio.

Se lo strinse al petto e mormorò:

“Giovannino mio, Giovannino mio!
Non farti uccidere!”
I soldati erano sul treno che stava per partire.
La folla applaudiva e agitava le braccia in segno di saluto.
L’uomo, straziato, fissava il suo Giovanni che lo salutava dal finestrino.
Voleva ancora dirgli qualcosa.
Il treno incominciò a muoversi.

Il padre agitò il braccio.

Poi si aprì un varco tra la folla, si avvicinò al treno e gridò:
“Giovannino, ragazzo mio, stai vicino al generale!”

Brano senza Autore

La guerra non dichiarata

La guerra non dichiarata

Una catena di montagne, ricche di ghiacciai e torrenti, che le tormentavano e le rendevano pressoché inespugnabili, segnava il confine di due nazioni.
Erano due nazioni quasi gemelle, abitate da popolazioni che si assomigliavano quasi in tutto, e perciò erano in continua lite.
I due popoli si contrastavano con ferocia in tutti i campi, da quello economico, a quello diplomatico, a quello sportivo.

Finché, ad un certo punto,

fra i due popoli confinanti divenne inevitabile la guerra.
I comandanti delle due armate inviarono agenti segreti ad informarsi sulle località dove fosse più facile un’irruzione in terra nemica.
I messaggeri fecero ritorno ed entrambi riferirono la stessa cosa.
“Esiste solo un punto, sul confine fra le due regioni, dove si possa riscontrare tale possibilità!”
I generali, da una parte e dall’altra, sorrisero soddisfatti e puntarono il dito sulla carta geografica:
“Ed allora è lì che attaccheremo con le nostre colonne corazzate!”
Già pregustavano il rombo dei cingolati, il fuoco delle artiglierie, la rapida vittoria, la gloria e le medaglie.

Da entrambe le parti, tuttavia,

gli agenti segreti si mostravano a disagio:
“Proprio in quel posto, però, abita un piccolo contadino, laborioso, in una piccola casa insieme alla moglie, molto graziosa.
Si amano e si dice che siano le persone più felici della terra: hanno anche un bambino.
Se noi dovessimo attraversare il loro podere ed accamparci nelle loro vicinanze, certamente distruggeremmo la loro felicità!”
Sulla faccia dei generali si spense il sorriso.

Tacquero sconcertati.

“Non si può fare questa guerra!” dissero all’unisono da una parte e dall’altra del confine.
E la guerra non fu dichiarata.

Brano senza Autore

L’orsacchiotto di peluche e la renna

L’orsacchiotto di peluche e la renna

Misha era un orsacchiotto di peluche.
Aveva le piante dei piedi in velluto avana, una sciarpetta e un nasetto, sempre di velluto, marrone.
Apparteneva ad una bambina capricciosa, che a volte lo colmava di coccole e a volte lo sbatteva di malagrazia sul pavimento prendendolo per le delicate orecchie di stoffa.
Così, un bel giorno, Misha prese la più grande decisione della sua vita: scappare.
Approfittò della confusione dei giorni che precedevano il Natale, infilò la porta e si riprese la libertà.
Se ne andò nella neve battendo i tacchi, felice come non era mai stato.

In ogni angolo faceva scoperte meravigliose:

gli alberi, gli insetti, gli uccelli, le stelle.
Misha sgranava gli occhi:
era tutto così incredibilmente bello.
Venne la sera di Natale, quella in cui tutte le creature sono invitate a fare una buona azione.
Misha sentì i sonagli di una slitta.
Era una Renna che correva tirando una slitta carica di pacchetti avvolti in carta colorata.
La Renna vide l’orsacchiotto, si fermò e gli spiegò, con molta cortesia che sostituiva Babbo Natale, il quale era troppo vecchio e malandato e con tutta quella neve non poteva andare in giro a piedi.

La Renna invitò Misha a salire.

E così Misha cominciò a girare città e paesi sulla slitta magica di Babbo Natale.
Era proprio lui che deponeva in ogni camino un giocattolo o un regalino confezionato apposta.
Si divertiva, era pieno di gioia.
Se fosse rimasto il piccolo saggio giocattolo, avrebbe mai conosciuto una simile notte?
Ed ecco che arrivò l’ultima casa: una povera capanna ai margini del bosco.
Misha cacciò la mano nel gran sacco, cercò, frugò: non c’era più niente!
“Renna, o Renna!
Non c’è più niente nel tuo sacco!” disse l’orsacchiotto.

“Oh!” gemette la Renna.

Nella capanna viveva un ragazzino ammalato.
L’indomani, svegliandosi, avrebbe visto le sue scarpe vuote davanti al camino?
La Renna guardò Misha coi suoi begli occhi profondi.
Allora Misha sospirò, abbracciò con un colpo d’occhio la campagna dove gli piaceva tanto gironzolare tutto solo e, alzando le spalle, mettendo avanti una zampa dopo l’altra, uno-due, uno-due, per fare la sua buona azione di Natale, entrò nella capanna, si rannicchiò in una scarpa e aspettò il mattino.

Brano senza Autore

Il regalo per Natale (La maestra e Dini)

Il regalo per Natale
(La maestra e Dini)

Poco prima di Natale, la maestra fece due domande:
“Chi considerate povero fra voi?
E chi dovrebbe ricevere un regalo a Natale?”
I bambini che si consideravano poveri alzarono la mano.

La città era piccola e tutti si conoscevano.

Non solo per nome, ma si sapeva anche dove uno viveva, che cosa faceva, chi erano i suoi parenti e quanti soldi aveva.
Dopo la scuola, la maestra chiamò nel suo ufficio Dini, un bambino di otto anni.
I suoi genitori erano arrivati dall’Africa da poco tempo e tutti sapevano che erano poverissimi.
Lo fece sedere e gli chiese come mai non aveva alzato la mano.

Dini spiegò:

“Perché non sono povero!”
“E chi è povero, secondo te?” domandò la maestra.
“I bambini che non hanno i genitori!” rispose semplicemente il bimbo.
Lei lo fissò sbalordita, in totale silenzio, poi lo congedò.
L’indomani, il padre di Dini tornò a casa con un largo sorriso stampato sulla faccia.
Disse che la maestra era andata a fargli visita sul posto di lavoro.
“Dovremmo essere molto fieri di nostro figlio!” aggiunse, e riferì alla mamma che cosa gli aveva detto l’insegnante.

La Vigilia di Natale, Dini ebbe il suo pacco regalo.

Conteneva due paia di scarpe nuove di zecca: uno per lui e uno per la sorellina.
Non avevano mai avuto un paio di scarpe nuove.
Ma anche non fosse arrivato il regalo, Dini sapeva che la sua era la famiglia più ricca del mondo.

Brano tratto dal libro “25 Storie di Natale + una.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

Il regalo per Fabrizio

Il regalo per Fabrizio

“Devo fare qualcos’altro?” chiese la segretaria.
L’occupatissimo direttore sbirciò l’orologio e l’agenda:
“Dovremmo già essere fuori da un po’.
Non si combina più niente ormai!”

La segretaria sorrise:

“Veramente c’è ancora la lista dei regali di Natale di suo figlio.
Non dimentichi che fra tre giorni è Natale!”
“Meno male che almeno lei ci ha pensato!” esclamò il direttore.
L’indaffaratissimo direttore sospirò:
“Temo che il mio povero bambino sia un po’ arrabbiato con me.
E forse ha ragione.
Ho così poco tempo da dedicare alla mia famiglia.
Quando arrivo a casa alla sera, il bambino è già a letto.
Non ci parliamo quasi mai.
Ah! Ma almeno a Natale, voglio che abbia un bellissimo regalo!
Solo che non ho tempo…

Facciamo così:

me lo compri lei.
Non badi a spese.
Legga la lettera e compri tutto quello che il bambino vuole.”
La segretaria aprì la lettera e sorridendo scosse il capo:
“Eseguo sempre i suoi ordini, ma questa volta mi è proprio impossibile!”
“Perché no?
Possibile che ci sia qualcosa che non si può procurare oggi a un bambino di otto anni?
Che cosa avrà mai desiderato?
Mi faccia vedere, accidenti!” disse il direttore.
Senza parlare la segretaria tese al direttore la letterina del figlio.

L’uomo lesse:

“Caro papà, come regalo di Natale vorrei che tu per il prossimo anno tenessi da parte tutti i giorni (o quasi) mezz’ora di tempo per me.
Nient’altro.
Tuo figlio Fabrizio.”

Brano senza Autore

La leggenda della Stella di Natale

La leggenda della Stella di Natale

Anche a Città del Messico, nella lontana America, il Natale è una grande occasione di festa.
Tutti ne approfittano per sfoggiare vestiti nuovi, imbandire le tavole con cibi e bevande abbondanti e diversi dal solito, scambiarsi regali costosi e raffinati.
Che è poi quello che succede in gran parte del mondo.
Ma anche a Città del Messico ci sono persone che non possono permettersi di far festa neppure la Vigilia di Natale.
Una di queste, forse la più povera di tutte, si chiamava Ines.
Era una piccola e graziosa bambina indiana, grandi occhi neri nel visetto scuro, che anche la Vigilia di Natale vagava per il mercato grande a piedi nudi, sgranando gli occhi sulla mercanzia esposta sulle bancarelle:
trionfi di frutta colorata, dolci, tacchini e oche arrostiti, profumate patatine.
Tutte cose proibite per Ines, ricca solo del suo sorriso con cui cercava di intenerire i venditori, che le volevano bene e le regalavano sempre qualcosa.
La mamma le aveva cucito una grossa tasca sul davanti della gonna, e tutto quello che la bambina riceveva finiva in quella tasca.
Ogni giorno la piccola Ines la controllava perché nulla di quanto raccoglieva andasse perduto.

Il contenuto di quella tasca era preziosissimo:

quello era il cibo per i suoi fratellini e la mamma ammalata che aspettavano a casa.
Ines aveva l’occhio allenato a scoprire anche nei mucchi di rifiuti del mercato qualche cosa ancora in buono stato e la sua mano veloce sapeva sceglierlo con cura, ripulirlo, renderlo accettabile.
La sera della Vigilia di Natale, la tasca era colma più del solito.
Anche i suoi fratellini avrebbero fatto festa quella sera.
Ma Ines non era del tutto felice.
Aveva un piccolo ma insistente, segreto, cruccio.
A Città del Messico c’era una simpatica tradizione.
Nella Notte di Natale tutti i bambini della città portavano un fiore a Gesù Bambino nella chiesa della loro parrocchia.
C’era una specie di gara a chi portava il fiore più bello.
Ines desiderava portare anche lei un fiore a Gesù Bambino.
A volte si immaginava nel gesto di offrire, proprio lei, povera piccola bambina indiana, il fiore più bello.
Ma già faticava tanto a procurarsi un po’ di frutta e di verdura, come poteva procurarsi un fiore?
Aveva visto qualche fiore sui balconi più ricchi, altri fiori facevano capolino invitanti da cancelli di ferro battuto.

Era tentata di coglierli, ma non si può donare a Gesù un fiore rubato.

La piccola pensava con soddisfazione alle cose buone che portava ai fratellini, alla gioia con cui l’avrebbero accolta, ma non si decideva a tornare a casa.
Vagava inquieta, alla ricerca di un fiore, il più bello, quello che aveva visto solo nella sua fantasia.
La stradina tortuosa che portava al suo quartiere attraversava una zona di ruderi antichi.
Altre volte aveva visto tra le rovine ciuffi di foglie verdi con qualche fiore colorato.
Forse là avrebbe potuto trovare qualche fiore speciale da portare a Gesù Bambino.
Cautamente si addentrò tra i ruderi.
Girò, cercò, frugò attentamente tra le vecchie pietre, ma non c’era niente da fare.
Non c’era neppure un fiorellino.
Era quasi buio.
La mamma e i fratellini la stavano certo aspettando con impazienza.
Doveva tornare a casa.
Gettò un ultimo sguardo intorno e vide, in un angolo, un ciuffo di piantine che avevano foglie verdi, lucide, disposte come i petali di un fiore.
Si chinò e in fretta ne raccolse alcuni rametti; li mise insieme nel modo più gradevole possibile e formò un piccolo mazzo.

Mancava ugualmente qualcosa.

Con un sospiro, la bambina si tolse la cosa più bella che possedeva:
il nastro rosso che le serviva a legare i capelli.
Con il nastro fece una coccarda intorno alle foglie verdi.
Fu soddisfatta del risultato.
“Gesù Bambino gradirà i miei fiori verdi.” pensò, “E poi li ho legati con il nastro rosso!”
Era buio ormai e Ines si diresse verso casa.
Passò davanti alla chiesa:
il portone principale era spalancato.
“A quest’ora non ci sarà nessuno in chiesa!” pensò, “È l’ora di cena.
Verranno più tardi a portare i fiori a Gesù!”
Entrò furtivamente, con i suoi piedini nudi, il grembiulone sporco con la tasca piena di frutta e verdura.
Sgattaiolò, leggera come un’ombra, dietro le colonne della navata verso l’angolo pieno di luce dove su un cuscino ricamato avevano posto la statua di Gesù Bambino.
Con le lacrime agli occhi, Ines guardò il suo mazzo di foglie verdi e poi, rivolta alla statua del Bambino Gesù disse:
“Te li lascio adesso.
Non posso venire dopo con gli altri bambini.
Mi vergognerei troppo.
Spero ti piacciano lo stesso!”

Un “Oh!” di meraviglia la fece trasalire.

C’era un gruppo di gente intorno a lei.
Tutti fissavano meravigliati il mazzo che stringeva in mano.
“Che bei fiori…
Dove li hai trovati?
Non ho mai visto dei fiori così!”
Ines abbassò gli occhi sul suo mazzo di foglie e rimase senza fiato per la sorpresa.
Le foglie erano diventate di un bel rosso vivo.
Al centro della corolla le bacche avevano formato come un cuore d’oro.
Timidamente, la bambina depose il suo prezioso mazzo di stelle rosso-oro au piedi della statua del Bambino Gesù e poi corse a casa.
Non le sembrava neanche di toccare il terreno per la felicità.
Ora sapeva che Gesù aveva gradito il suo dono e aveva trasformato delle semplici foglie nel fiore più bello del Messico:
la stella di Natale.
Ancora oggi, a Natale, in tutto il mondo, le rosse stelle dal cuore d’oro ricordano il miracolo della fede di una povera bambina indiana.

Brano senza Autore

La leggenda del canto “Astro del Ciel” (Stille Natch)

La leggenda del canto “Astro del Ciel” (Stille Natch)

Nel piccolo paese di Obendorf, in Austria, un giovane sacerdote, padre Mohr, stava dando le ultime istruzioni ai bimbi e ai piccoli pastori per provare il canto da eseguire nella notte di Natale.
Tra le navate silenziose si spandeva l’eco di un vocio allegro e di piccole risatine:
“Buoni, silenzio!
Incominciamo!”
Ma come padre Mohr appoggiò il dito sulla tastiera dall’interno dell’organo uscì uno strano rumore, poi un altro e un altro ancora.
“Strano!” pensò il giovane prete.
Aprì la porticina dietro l’organo e dieci, venti topi schizzarono fuori inseguiti da un gatto.
Povero padre Mohr.

Si voltò a guardare il mantice:

completamente rosicchiato e fuori uso.
“Pazienza,” pensò, “faremo a meno dell’organo.”
Ma anche i piccoli cantori all’apparire dei topi e del gatto si erano scatenati in una furibonda caccia.
Ed ora non c’era più nessuno.
Con l’organo in quelle condizioni e il coro dileguato dietro ai topi, addio canto di Natale.
Fu un momento di grande sconforto per padre Mohr.
Mentre, davanti all’altare maggiore si chinava nella genuflessione gli venne in mente l’amico Franz Gruber il maestro elementare che, oltre ad essere un discreto organista, se la cava bene nel pizzicare le corde della chitarra.
Quando padre Mohr giunse a casa sua, Gruber stava correggendo i compiti degli scolari al debole chiarore di una lucerna.
“Bisogna inventare qualche cosa di nuovo per la Messa di mezzanotte, un canto semplice che accompagnerai con la chitarra.

Qui ho scritto le parole:

sta a te vestirle di musica…
Ma in fretta mi raccomando!” disse il padre.
Uscito padre Mohr, Gruber prese subito in mano la chitarra e dopo aver scorso il testo lasciatogli dal prete cominciò a cercare tra le corde le note più semplici.
Nella notte silenziosa i fiocchi di neve rimanevano sospesi ad ascoltare la dolce melodia che vagava nell’aria fredda.
A mezzanotte in punto, del 24 dicembre 1818, la chiesa parrocchiale traboccava di fedeli.
L’altare maggiore era tutto sfolgorante di lumi e di candele accese.
Padre Mohr celebrava la quinta Messa.
Dopo aver proclamato con il vangelo di Luca la nascita del Salvatore si avvicinò con il maestro Gruber al presepio e con la voce tremante intonarono:

“Astro del Ciel…”

Dalle navate si persero nel silenzio le ultime parole del canto.
Un attimo dopo l’intero villaggio le ripeteva davanti a Gesù, come la schiera degli angeli del vangelo di Luca.
E da allora non si è più smesso di cantarlo, non solo ad Obendorf ma in tutto il mondo.
È diventata una delle musiche più care del Natale.
E di padre Josef Franz Mohr e di Franz Xaver Gruber che ne è stato?
Nessuno dei due ha avuto il tempo di rendersi conto di quanto ha donato al mondo senza aver avuto in cambio nulla.

Brano senza Autore

L’uomo e l’agnellino

L’uomo e l’agnellino

In una notte buia e profonda un uomo stava per morire.
Era la Vigilia di Natale.
L’uomo era diretto a casa.
Per tutto l’anno aveva lavorato nei boschi, sulle montagne, lontano dal suo paese.
Aveva lavorato disperatamente, senza sosta, ma anche così era riuscito a mettere da parte ben poco denaro.
Aveva deciso ugualmente di tornare a casa.
Ma proprio mentre usciva dalla foresta, era scoppiato uno spaventoso temporale.
La casa dell’uomo era ancora lontana chilometri e chilometri.
L’uomo era sotto una quercia quando un fulmine squarciò la pianta.
Dei rami gli caddero addosso.

Fuggì via.

Perdeva sangue da un braccio e da una gamba.
Fuggiva sotto la grandine, coprendosi appena la testa con le mani.
Via, via, lontano dalla foresta da cui era sbucato il fulmine.
Dopo molto correre, stramazzò ai piedi di un gradone di roccia.
La parete si propendeva minacciosa, verticale.
Steso al suolo, fradicio di pioggia, battuto dalla grandine e dal freddo, perse ogni speranza.
Il gelo che lo attanagliava lo persuase a lasciarsi morire.
Si abbandonò quasi con sollievo alla morte.
Lo prese il sonno:
il conforto, pensò, dell’ultimo istante.
Ma improvviso, cristallino, risuonò un belato.
Il belato risvegliò l’uomo da quel sonno di morte.
Era un grido nella notte.
Pareva ora prossimo, ora lontano.
Un agnellino preso dalla furia della bufera?
L’uomo si scosse.
Lui voleva morire, ma l’agnellino?

Di nuovo l’agnellino belò.

All’uomo morente mancavano le forze e la voglia di vivere.
Però l’agnellino aveva bisogno di lui.
L’uomo sentì quel belato come un’invocazione.
E ritrovò la forza di vincere la stanchezza e la paura.
Avrebbe salvato la bestiola e sarebbe tornato a morire:
questo pensiero gli dette vigore.
Si mise in ascolto.
L’agnello riprese a belare.
L’uomo fu diretto dal belato.
Ogni tanto si fermava.
La grandine gli feriva il volto, coprendo la vocina flebile.
La riudì.
Vicino.
Dietro a dei cespugli.
Girò in mezzo a degli sterpi.
L’agnello non c’era.
Però l’udì, come uscisse dal gradone di roccia.
Tra la grandine vide un buco nella roccia.
Il belato proveniva di là.
Barcollò e si gettò dentro la grotta dove l’agnellino giaceva ferito in una pozza d’acqua.

Lo sollevò.

Lo portò più dentro al cunicolo, all’asciutto.
Lo tenne stretto al petto per riscaldarlo e sentì che l’agnello scaldava lui, gli ridava vita.
Stettero la notte avvinti dal caldo, in compagnia.
Il mattino, un sole morbido entrò nella grotta e svegliò l’uomo e l’agnello.
L’uomo accarezzò l’agnello.
Sentì la piccola vita vibrare di fame.
Anche lui aveva fame.
E soprattutto una infinita voglia di vivere.

Brano di Bruno Ferrero