Il denaro restituito

Il denaro restituito

Un anziano signore, prossimo al termine dello scorrere della clessidra che segna il tempo terreno, chiamò al proprio capezzale i suoi sette figli, per esprimere le sue ultime volontà e dare le giuste raccomandazioni.
Chiese di portare con sé, dentro la cassa, una cifra in denaro.

Spiegò che non era importante la cifra che avrebbero inserito.

Voleva che facessero questo gesto poiché da loro non aveva mai ricevuto nulla, nonostante avesse costruito ad ognuno una casa.
Spiegò che i soldi li avrebbe restituiti tutti, a cassa chiusa, ma solo a chi di loro si fosse dimostrato più generoso ma anche più furbo.
Recitò un proverbio nel quale veniva spiegato che un padre mantiene sette figli, ma che sette figli non riescono a mantenere un padre.
Passato a miglior vita, i figli fecero una riunione di famiglia su come esaudire le volontà del padre e il più giovane, l’unico che per l’insistenza del padre aveva studiato, propose:

“Date a me i sodi in contanti da mettere nella cassa.

Per semplificare il tutto, li tramuterò in un assegno, attestante la nostra unità.
Sarà anche più semplice evitare furti in questo modo, dato che, come sappiamo, ci possono essere dei malintenzionati tombaroli che potrebbero approfittare della nostra generosità!”

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

È di notte che si vedono le stelle

È di notte che si vedono le stelle

La crisi aveva picchiato duro e in famiglia tutti sentivano un nodo in gola.
Il papà era stato messo in cassa integrazione e da giorni si parlava solo di come riuscire a risparmiare.

A cena si percepiva un silenzio imbarazzato, nessuno aveva voglia di parlare.

Improvvisamente la mamma batté le mani per attirare l’attenzione di tutti:
“Tutti in piedi, venite fuori con me!”
Sbalorditi, seguirono la mamma fuori, nel piccolo giardino.
“Guardate il cielo!” disse lei.

Tutti guardarono in su.

L’immensa cupola di velluto nero era un trionfo di stelle vive e pulsanti.
Fissandolo si provava come una vertigine, come se tutta quella brillante moltitudine li risucchiasse in un vortice senza fondo.
Si sentirono piccoli piccoli.
Si strinsero l’un l’altro e si abbracciarono.
Quell’incredibile spettacolo li soggiogava e li spronava:

era tutto così grande, illimitato, senza tempo.

Allargava la mente e il cuore, infondeva un nuovo coraggio.
“È di notte che si vedono le stelle!” disse semplicemente la mamma.

Brano tratto dal libro “È di notte che si vedono le stelle.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

Tonto Zuccone, le domande e gli scherzi

Tonto Zuccone, le domande e gli scherzi
—————————–

Il braccio più corto

Le mani

Le balbuzie

—————————–
“Il braccio più corto”

 

L’assistente sociale che seguiva Tonto Zuccone sbrigò le pratiche burocratiche affinché potesse avere la pensione di invalidità, poiché ne aveva alquanto bisogno.
La commissione medica gli pose tante domande.
Tonto riuscì a suscitare tanta ilarità per il modo in cui rispondeva.
Il presidente gli disse alla fine:
“Puoi andare, ti assegniamo un piccolo vitalizio per le tue difficoltà!”

Tonto, allora, chiese:

“Me lo date perché, come mi dicono in tanti, mi manca un venerdì?”
Il presidente rispose:
“Anche per quello, ma soprattutto per una cosa che puoi verificare anche tu; prova a stendere la mano ed il braccio sinistro e porta poi la mano destra all’altezza del gomito!”
Tonto fece la prova ed esclamò:
“Adesso capisco perché ho un braccio uno più lungo e uno più corto!
Non me ne ero mai accorto prima ed è per questo che non ho l’olio di gomito per poter lavorare!”

—————————–
“Le mani”

 

Tonto Zuccone si trovava sulla strada di fronte al bar, che di solito frequentava, ad osservare, ad una distanza ravvicinata, degli operai che stavano lavorando vicini ad un tombino, per un guasto alle tubature dell’acqua.
Era fermo con le mani dietro la schiena, divertito a sentire le loro imprecazioni.
Fu richiamato dal capo cantiere che, stizzito, gli intimò:

“Non ti vergogni?

Tu stai con le mani dietro la schiena, mentre noi lavoriamo e sudiamo sette camicie!”
Tonto si portò istintivamente le mani davanti al petto e fu di nuovo aggredito verbalmente dal capo cantiere:
“Con questa postura vuoi farci capire, forse, che ci stai prendendo per i fondelli?”
Tonto imbarazzato rispose:
“Ma le mani dove le posso mettere?”
La risposta non si fece attendere:
“Prima nel portafoglio e poi vai al bar a prenderci da bere!”

—————————–
“Le balbuzie”

 

Tonto Zuccone fu inviato dai suoi famigliari a fare esperienza come apprendista, non retribuito, in una falegnameria artigianale.
In questa falegnameria si creava un po’ di tutto, dagli arredi agli infissi e, in caso di necessità, anche casse da morto.
Tonto nella prima giornata di lavoro fu posto a levigare e verniciare proprio una di queste.
Durante un momento di assenza del titolare fu invitato, con insistenza da altri apprendisti, a stendersi dentro la barra, con la motivazione di verificare se fossero presenti fessure.
Una volta disteso, i suoi colleghi di lavoro chiusero di botto la cassa, sedendosi sopra il coperchio e impedendogli di uscire, iniziando a recitare a voce alta le preghiere dei defunti.

Tonto, spaventato a morte e angosciato dal buio, cercò con tutte le sue forze di sollevare il coperchio.

Provò più volte ad aprire e, solo dopo molto insistere, riuscì ad uscire.
Purtroppo, a causa dello spavento e del molto gridare, Tonto da quel momento iniziò a balbettare vistosamente, aggravando il suo stato di ragazzo sfortunato, trovandosi tra l’altro con un nome e un cognome che non promettevano niente di buono.
Eppure, nonostante tutto, seppe rilegarsi momenti di vera e genuina felicità tutta da narrare.

Brani di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione dei racconti a cura di Michele Bruno Salerno

Il ragazzino e la barca a vela

Il ragazzino e la barca a vela

C’era una volta un ragazzino che aveva costruito una barca a vela.
Ne aveva scavato con cura lo scafo nel legno, l’aveva smerigliato con estrema attenzione dipingendolo infine con ogni possibile delicatezza, poi aveva ritagliato la vela dalla più candida delle stoffe.
Una volta terminato, non vedeva l’ora di varare la sua barchetta e così la portò subito al lago.
Trovò uno spiazzo d’erba vicino alla riva e, inginocchiatosi, depose con cautela il piccolo vascello sul pelo dell’acqua.
Soffiò un pochino nella vela e si mise ad aspettare.
Ma la barca non si muoveva e così il ragazzo soffiò più forte, finché il vento colmò la piccola vela e la barchetta prese il largo.
“Si muove! Si muove!” gridava, battendo le mani e saltando sulla riva del lago.

All’improvviso il ragazzo si fermò.

Si era reso conto di non aver assicurato la barchetta con uno spago.
Vide la sua creatura spingersi sempre più lontano finché non sparì del tutto dalla sua vista.
Il ragazzino era felice e triste nello stesso tempo:
orgoglioso che la sua barca veleggiasse bene, ma triste di averla perduta.
Corse a casa in lacrime.
Qualche tempo dopo, girovagando per il paese, per caso passò davanti da una bottega che vendeva giocattoli vecchi e nuovi.
E in vetrina c’era la sua barca.
Era in estasi.

Corse dentro e disse entusiasta al negoziante:

“Quella è la mia barca.
La mia.”
L’uomo squadrò il ragazzino e rispose:
“Ti sbagli.
L’ho comprata.
Adesso è in vendita!”
“Ma è la mia barca!” gridò il piccolo, “L’ho fatta io.
L’ho varata e poi l’ho persa.
È mia!”
“Ti sbagli!” ripeté il negoziante, “Se la vuoi te la devi comperare.”
“Quanto costa?” chiese il ragazzo.
Quando ebbe sentito il prezzo ebbe un tuffo al cuore.
Nella sua piccola cassaforte, a casa, c’era soltanto qualche spicciolo.
A capo chino se ne uscì dal negozio.
Ma il ragazzino era un tipo deciso.
Tornato a casa, andò nella sua stanza e contò i suoi averi fino all’ultima monetina per scoprire quanto denaro gli mancava per potersi ricomprare la sua preziosa barca.

Fece qualche lavoretto e risparmiò:

adesso aveva i soldi.
Corse di nuovo al negozio, sperando che la barca fosse ancora lì.
Sorrise:
eccola in mezzo alla vetrina al solito posto.
Entrò nel negozio, rovesciò le tasche e depose tutto il suo denaro vicino alla cassa.
“Voglio comprare la mia barca!” esclamò.
Il negoziante prese la barca dalla vetrina e la mise nelle mani del ragazzino, eccitatissimo.
Il piccolo strinse la barchetta al petto e corse a casa dicendosi pieno di orgoglio:
“Tu sei la mia barca.
La mia!
Sei due volte mia!
Mia perché ti ho fatto, e mia perché ti ho riconquistato!”

Brano senza Autore.

Puoi essere l’artefice del tuo destino…

Puoi essere l’artefice del tuo destino…

Un disoccupato sta cercando lavoro come uomo delle pulizie in una grande azienda informatica.
L’addetto del dipartimento del personale per valutarlo gli fa spazzare il pavimento, poi lo intervista e alla fine gli dice:
“Sei assunto, dammi il tuo indirizzo e-mail, così ti mando un modulo da riempire insieme al luogo e alla data in cui ti dovrai presentare per iniziare.”

L’uomo, sbigottito, risponde che non ha il computer né tanto meno la posta elettronica.

Il tipo gli risponde che se non ha un indirizzo e-mail significa che virtualmente non esiste e quindi non gli possono dare il lavoro.
L’uomo esce disperato, senza sapere cosa fare e con solo 10 dollari in tasca.
Decide allora di andare al supermercato e comprare una cassa di dieci chili di pomodori.
Vendendo porta a porta i pomodori in meno di due ore riesce a raddoppiare il capitale e ripetendo l’operazione si ritrova con centosessanta dollari.

A quel punto realizza che può sopravvivere in quella maniera,

parte ogni mattina più presto da casa e rientra sempre più tardi la sera e ogni giorno raddoppia o triplica il capitale.
In poco tempo si compra un carretto, poi un camion e in un batter d’occhio si ritrova con una piccola flotta di veicoli per le consegne.
Nel giro di cinque anni il tipo è proprietario di una delle più grandi catene di negozi di alimentari degli Stati Uniti.
Allora pensa al futuro e decide di stipulare una polizza sulla vita per lui e la sua famiglia.
Contatta un assicuratore, sceglie un piano previdenziale e quando alla fine della discussione l’assicuratore gli chiede l’indirizzo e-mail per mandargli la proposta,

lui risponde che non ha né computer né e-mail.

“Curioso,” osserva l’assicuratore, “avete costruito un impero e non avete una e-mail, immaginate cosa sareste se aveste avuto un computer!”
L’uomo riflette e risponde:
“Sarei l’uomo delle pulizie di una grande azienda informatica!”

Brano senza Autore, tratto dal Web

I giorni perduti



I giorni perduti

Qualche giorno dopo aver preso possesso della sontuosa villa, Ernest Kazirra, rincasando, avvistò da lontano un uomo che con una cassa sulle spalle usciva da una porticina secondaria del muro di cinta, e caricava la cassa su di un camion.
Non fece in tempo a raggiungerlo prima che fosse partito.
Allora lo inseguì in auto.
Lo sconosciuto scaricò la cassa dal camion e, fatti pochi passi, la scaraventò nel baratro, che era ingombro di migliaia e migliaia di altre casse uguali.
Kazirra si avvicinò all’uomo e gli chiese:
“Ti ho visto portare fuori quella cassa dal mio parco.

Cosa c’era dentro?

E cosa sono tutte queste casse?”
Quello lo guardò e sorrise:
“Ne ho ancora tante sul camion, da buttare.
Non sai?
Sono i tuoi giorni perduti.
Li aspettavi vero?
Sono venuti.
Che ne hai fatto?
Guardali, infatti, ancora gonfi.

E adesso…”

Kazirra guardò.
Formavano un gruppo immenso.
Scese giù per la scarpata e ne aprì uno.
C’era dentro una strada d’autunno, e in fondo Graziella, la sua fidanzata che se ne andava per sempre.
E lui neppure la chiamava.
Ne aprì un secondo.
C’era una camera d’ospedale, e sul letto suo fratello Giosuè che stava male e lo aspettava.
Ma lui era in giro per affari.
Si sentì prendere da una certa cosa qui, alla bocca dello stomaco.

Boccheggiò.

Lo scaricatore stava diritto sul ciglio del vallone, immobile come un giustiziere.
“Signore,” gridò Kazirra, “mi ascolti.
Lasci che mi porti via almeno questi due giorni.
La supplico.
Io sono ricco.
Le darò tutto quello che vuole!”
Lo scaricatore fece un gesto con la destra, come per dire che era troppo tardi.
Poi svanì nell’aria.
E l’ombra della notte scendeva.

Brano tratto dal libro “Centottanta racconti.” di Dino Buzzati

Fractio panis – Bisogna saper condividere


Fractio panis – Bisogna saper condividere

A Berna, un’anziana signora ultraottantenne, essendo rimasta sola e non avendo voglia di cucinare solo per se stessa, si reca tutti i giorni a pranzare alla Migros, una catena di ristoranti self-service.
Quel giorno decide di mangiare un bel minestrone di verdura.
Prende un vassoio, riempie il piatto di minestrone, va alla cassa a pagare e prende posto ad un tavolo vuoto.
Si siede, ma al momento di mangiare si accorge di non aver preso un cucchiaio per mangiare il minestrone.

Si alza, va alla cassa dove ci sono le posate,

prende un cucchiaio e ritorna al suo tavolo, ma…
lì seduto c’è un ragazzo africano che sta mangiando il suo minestrone!
Sul momento la signora s’indigna e vorrebbe andare dal ragazzo a dirgli di tutto, ma poi pensa che, certamente, quell’emigrato l’ha fatto per fame e, passata la rabbia, decide di sedersi davanti al ragazzo e, senza dirgli nulla, incomincia a mangiare anche lei il minestrone.
Il ragazzo africano la guarda stupito, ma lei gli sorride, lui le sorride e continuano a mangiare il minestrone:

un cucchiaio lei, un cucchiaio lui…

Finito il minestrone il ragazzo si alza, va al banco dei primi piatti, prende un piatto di fettuccine alla bolognese, prende due forchette e torna al tavolo.
Dà una forchetta alla vecchia signora, si siede davanti a lei e incominciano a mangiare le fettuccine, sorridendo:
una forchettata lei, una forchettata lui…
Terminate le fettuccine il ragazzo africano si alza, fa un sorriso alla signora e se ne va.

La signora, contenta per aver fatto un’opera buona,

si gira sorridendo, per salutarlo e…
ad un tavolo vicino, dietro di lei, vede un vassoio con sopra un piatto di minestrone…
Il suo piatto!

Brano tratto dal libro “Lettera da Erika.” di Don Paolo Farinella