I fagioli del diavolo

I fagioli del diavolo

I parenti di una giovane donna avevano organizzato delle nozze combinate tra la stessa ed un contadino molto più anziano di lei.
La motivazione di questo matrimonio si poteva trovare nel fatto che il contadino anziano possedesse molti beni e, conseguentemente, potesse garantire alla ragazza una vita agita.
In attesa del ritorno del marito dai campi, la giovane donna trascorreva diverse ore in compagnia di un ex garzone di cui si era profondamente innamorata.

Usava ogni stratagemma per evitare di cucinare al marito, asserendo che dovesse andare da amiche o in chiesa.

Però, non era emotivamente tranquilla, difatti il marito iniziava a sospettare che qualcosa non andasse, non trovando, sempre più spesso, la cena pronta.
Una vecchia megera, che ogni tanto bussava alla sua porta per leggerle la mano e lucrarle del buon vino ed un pezzo di focaccia, dopo qualche tempo, entrò in confidenza con la giovane ragazza, che le raccontò le sue pene d’amore.

L’anziana signora le suggerì di cucinare, nei giorni degli incontri con il suo spasimante, un bel minestrone di fagioli, il famoso “acceca mariti”.

Questo minestrone necessita di una lunga e lenta cottura in un pentolone, dove la fretta non serve.
In questo modo, si sarebbe potuta assentare per continuare la tresca amorosa senza destare sospetti.
Il marito, al ritorno dai campi, capendo poco di cucina e vedendola accaldata, la lodò per essere stata costantemente al focolare per preparargli il suo piatto preferito.

Il minestrone “acceca mariti” era preparato con una varietà particolare di fagioli.

Questi venivano, e vengono, chiamati i fagioli del diavolo, per il caratteristico colore nero con delle striature rosse.
Una leggenda veneta vuole che il nero raffiguri il diavolo mentre le striature rosse, presenti nella buccia del legume, simboleggiano le fiamme dell’inferno e la vergogna.
Vergogna che anche la sposa provava nei confronti dell’inconsapevole marito.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Le scarpette d’oro della Madonna

Le scarpette d’oro della Madonna

Una vedova, che aveva due figlie, riusciva a mantenere la famiglia filando giorno e notte.
La mattina della festa della Madonna del Rosario, la vedova andò a riportare il filato dalle varie comari sperando che le pagassero il lavoro.
Invece non riuscì a riscuotere neanche un soldo, perché tutti avevano una scusa per non pagare.

La donna, prima di ritornare a casa,

si fermò in Chiesa e si mise a pregare davanti alla statua della Madonna del Rosario.
“Santa Madre di Dio, voi che siete mamma, mi sapete dire che cosa darò oggi da mangiare alle mie povere figlie?
Non ho di che accendere il fuoco, né farina né pane:
aiutatemi voi, perché sono alla disperazione!”
La Madonna ebbe compassione della povera vedova:

allungò il piede e le gettò la sua scarpetta d’oro.

La donna, tremante di gioia, andò sulla piazza dove c’era un’orefice e gli mostrò la scarpetta per vendergliela.
Questi, però, riconobbe subito la scarpetta della Madonna:
chiamò le guardie e la donna fu messa in prigione.
Prima della condanna essa chiese di poter pregare un’ultima volta davanti alla statua della Madonna del Rosario.

Il favore le fu accordato.

“Santa Madre di Dio!” supplicò la vedova quando fu davanti alla statua, “È vero o no che la scarpetta me l’avete data voi e non sono stata io a rubarvela?”
Tutti stavano muti a guardare, ed ecco che la statua cominciò a muoversi, il viso piano piano prese colore, la Madonna sollevò il piede e gettò l’altra scarpetta verso la vedova.
Allora la gente gridò al miracolo.
Chi piangeva, chi rideva.
La vedova se ne tornò libera dalle sue figlie con le scarpette d’oro della Madonna.

Brano tratto dal libro “Mese di maggio per i bambini.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

L’arcobaleno (L’affresco della vita)

L’arcobaleno (L’affresco della vita)

Nella nostra vita non c’è niente di preconfezionato, ogni cosa ce la dobbiamo costruire con i vari colori che formano la realtà.
Il bianco è il colore principale che servirà come base.
È la quotidianità, il voler costruire, giorno dopo giorno, pezzo dopo pezzo, la tua vita, che è unica e insostituibile.
Poi c’è il rosso che ci ricorda il sangue, la lotta, la passione, la sofferenza, i sacrifici…

Sì, lo so, che quest’ultima parola non va di moda, ma è comunque essenziale.

L’arancione che rappresenta la capacità di rinnovarsi, di affrontare le cose in modo nuovo, vincendo la noia e la ripetitività di ogni giorno.
Il giallo è il colore del successo, del benessere del pane abbondante che ci viene donato ogni giorno.
Poi c’è il verde, il colore della natura, della speranza, dei passaggi, dell’attesa, della risurrezione… della vita.
Ecco l’azzurro, che ricorda il cielo, la serenità, la gioia, la condivisione…

l’allegria dello stare insieme agli altri.

Segue l’indaco, un tipo di blu più intenso, noto anche come colore della mezzanotte, utile per la meditazione e la spiritualità, è un colore con effetto rilassante
Il viola è il colore della riflessione, del silenzio, della meditazione… del trovare noi stessi.
Ecco, prendi tutti questi colori e con essi vedi di dipingere l’affresco della tua vita.
Non pensare che sarà un lavoro semplice e nemmeno che te la caverai facilmente.

L’affresco finirà solo con la tua vita:

ma è nella sapiente combinazione di questi colori che troverai ciò che hai sempre desiderato.
Come in natura i colori si uniscono formando un unico arcobaleno, così il Dio della vita, fedele alle sue promesse dell’alleanza, ci invita a divenire uno insieme a Lui, armonizzando le nostre ricchezze, i nostri doni, le nostre diversità ed il nostro carisma.
Questo è l’affresco che siamo chiamati a dipingere.

Brano senza Autore

Il cavallo a dondolo

Il cavallo a dondolo

C’era una volta un cavallo a dondolo.
Era il più bello di tutti i giocattoli di Olta, perché era il più amato.
E lui lo sapeva.

Ma un giorno si stancò di dondolare.

“Se mi vuoi bene,” disse alla sua padroncina, “portami fuori, dove sono gli altri cavalli!”
Olta si sentì molto triste, ma prese il suo cavallo e lo portò in un campo, oltre la staccionata.
Lo salutò con un bacio sulla fronte e poi ripartì, col cuore in gola.
Il cavallo a dondolo sentì gli altri cavalli nitrire.

Provò a nitrire anche lui, ma non ci riuscì.

Poi vide gli altri che correvano e si rincorrevano.
Tentò anche lui, ma non poté muoversi.
Quando lo stalliere venne a spazzolare i puledri, il cavallo a dondolo volle lo stesso trattamento.
Ma, quando anche lui fu lavato, si accorse che il manto di legno aveva perso il suo bel colore.
Il giorno dopo, Olta ripassò dal campo perché aveva nostalgia del suo cavallo.
“Se mi vuoi bene,” le disse lui, “riportami a casa, dove mi hai insegnato a dondolare!”

Olta lo baciò sulla fronte e lo riprese con sé.

Il cavallo a dondolo, pieno di graffi e sbucciature, non luccicava più come una volta e scricchiolava al minimo movimento.
Ma adesso sapeva che ogni suo dondolio cullava un sogno di Olta.
E per lui questo sogno era più bello dei campi verdissimi oltre la staccionata.

Brano senza Autore

Tonto Zuccone, girovagando

Tonto Zuccone, girovagando
—————————–

La macchina

A Venezia

Il risotto con le mosche

—————————–
“La macchina”

Tonto Zuccone, dopo ripetuti tentativi ed una raccomandazione non tanto trasparente, prese la patente di guida per la macchina.
Stupì tutti perché acquistò una macchina nuova, rosso fiammante, invece di una usata per impratichirsi nella guida.
Scorrazzava felice per le vie del paese, esibendo il suo gioiello rosso con uno stuolo di amici a bordo.
Mutò d’umore quando svoltando a destra sentiva uno strano rumore in macchina e lo stesso quando girava a sinistra.

Andò a farla benedire da un sacerdote amico credendola stregata, ma niente, i rumori persistevano.

Tornò dal concessionario, deluso, per la riparazione o per una eventuale sostituzione essendo ancora in garanzia.
I meccanici incuriositi dallo strano caso fecero un giro di prova e tornarono quasi subito ridendo per quello che avevano scoperto.
Il rumore era causato da due latine di Coca Cola vuote, abbandonate dagli amici di scorribande, che ruzzolavano nella parte posteriore della vettura ad ogni sterzata o sobbalzo.
L’episodio bastò a far perdere a Tonto ogni interesse per la macchina, il quale tornò alla sgangherata bicicletta.

—————————–
“A Venezia”

Tonto Zuccone andò per la prima volta a visitare, da solo, la tanto desiderata Venezia.
Dopo aver chiesto informazioni, gli fu indicato di prendere un vaporetto per fare un giro turistico per le vie d’acqua e poter, così, ammirare la meraviglia dell’Adriatico con i suoi palazzi, calli e canali.
Si recò alla biglietteria con una certa titubanza e l’addetto in divisa, vedendolo impacciato, gli chiese dove volesse recarsi.

Tonto gli diede una grossa banconota e gli disse:

“Dovunque e da nessuna parte!”
Il bigliettaio, abituato ad aver a che fare con turisti da tutto il mondo, intuì con chi stava parlando e replicò:
“Si vede anche da lontano che sei Tonto in visita a Venezia!”
La cosa stupì lo spaesato campagnolo che domandò stupito:
“Come fate a conoscermi anche qui?
Non credevo di essere così famoso!”

—————————–
“Il risotto con le mosche”

Il risotto è un piatto tipico della tradizione del nord Italia e sta diventando sempre di più un piatto nazionale.
Forti del primato produttivo e qualitativo del riso nostrano, essendo degli storici e accorti produttori, non temiamo il confronto con quelli di dubbia importazione e dal prezzo stracciato.
I nostri bravi chef, di tramandata e gloriosa tradizione gastronomica, lungo tutto lo stivale, propongono i risotti nelle varianti con il prezioso zafferano, con le verdure di stagione, ai funghi, con carni e pesci e, chi più ne ha, più ne metta.

Alcuni anni fa, Tonto Zuccone fu invitato ad un pranzo di battesimo da un amico in terra Feltrina, nel Bellunese.

Dopo gli antipasti di rito, nel menù non poteva mancare di certo il risotto fatto secondo la tradizione locale, con i resti della carne di cacciagione, tagliati a sottili pezzettini che risultavano alla vista di colore scuro, chiamato per questo motivo risotto con le mosche, per la somiglianza con gli insetti dittari.
La neo mamma, nonché provetta cuoca, era particolarmente fiera di questo piatto tramandato gelosamente dalle sue ave e chiese con un pizzico di orgoglio a Tonto se gradisse il suo risotto con le mosche e se lo avesse mai gustato prima.
Tonto a sentirlo nominare ed alla vista della portata ebbe una reazione di disgusto e di netto rifiuto.

Questo evento fece ridere la cuoca, ma anche gli altri commensali, a crepapelle.

Ascoltata la risposta di Tonto, la padrona di casa disse scherzando che ad ogni mosca aveva tolto la testa e le zampe, soprattutto per omaggiare il gradito ospite.
Tonto non volle sentire ulteriori spiegazioni, fu sufficiente vedere ed ascoltare il nome del piatto per rimanere, ancor di più, perplesso e basito della strana, per lui, cucina locale.
Rinunciò ad ottimo risotto, eseguito con cottura e mantecatura perfette.
Il risotto con le mosche è una specialità tutta feltrina, di nicchia gastronomica, non contemplata nei manuali di cucina e gelosamente tramandata da generazione in generazione, che solo un “tonto” come Tonto poteva rifiutare a priori.

Brani di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione dei racconti a cura di Michele Bruno Salerno

Il ramo e lo gnomo

Il ramo e lo gnomo

C’era una volta un giovane ramo di un grande albero.
Era nato in primavera, tra il tepore dell’aria e il canto degli uccelli.
In mezzo all’aria, alle lunghe giornate estive, al sole caldo, alle notti frizzanti, trascorse i suoi primi mesi di vita.
Era felice: aveva foglie bellissime e, poi, erano sopraggiunti fiori colorati ad adornarlo e, dopo ancora, grandi frutti succosi di cui tutti gli uccelli del cielo potevano nutrirsi.
Ma un giorno cominciò a sentirsi stanco: era arrivato l’autunno… i frutti si staccarono, le foglie cominciarono a cambiare colore, divenivano sempre più pallide.

Addirittura, di tanto in tanto, il vento se ne portava via qualcuna.

Con l’inverno venne la pioggia, e poi l’aria fredda, e il ramo si sentiva sempre peggio; non capiva cosa stesse succedendo.
In pochi giorni e in poche notti si trovò spoglio, infreddolito, completamente solo.
Rimase così qualche tempo, fin quando non capì che non poteva far altro che mettersi a cercare i suoi fiori, le sue foglie, i suoi frutti per poter di nuovo stare insieme a loro.
“Devo darmi da fare!” disse risoluto tra sé e sé.
Cominciò, allora, a chiedere aiuto a tutti i suoi amici.
Si rivolse dapprima al mattino:
“Sono solo e infreddolito, ho perso tutte le mie foglie, sai dove le posso trovare?”

Il mattino rispose:

“Ci sono alberi che ne hanno tante, prova a chiedere a loro!”
Si rivolse a quegli alberi:
“Sono solo e infreddolito, ho perso tutte le mie foglie, sapete dirmi dove le posso trovare?”
Gli alberi risposero:
“Noi le abbiamo sempre avute, prova a chiedere agli alberi uguali a te!”
Si rivolse ai rami spogli come lui.
“Abbiamo tanto freddo anche noi, non sappiamo cosa dirti!” gli risposero.
Queste parole lo fecero sentire meno solo.
Si disse che, se avesse ritrovato le foglie, sarebbe subito corso dai suoi simili a rivelare il luogo in cui si trovavano.
Continuò la sua ricerca e chiese al vento.
“Io le foglie le porto solo via, è la pioggia che le fa crescere.” disse il vento a gran voce.

Si rivolse alla pioggia.

“Le farò crescere a suo tempo.” gli disse la pioggia tintinnando.
Si rivolse allora al tempo.
“Io so tante cose,” gli disse con voce profonda, “il tempo aggiusta tutto, non ti preoccupare: occorrono tanti giorni e tante notti!”
Si rivolse alla notte, ma la notte tacque e lo invitò a riposare.
Si sentiva infatti molto stanco.
Quel ramo così spoglio e indebolito dal freddo e dal proprio silenzio fu capito da uno gnomo, che comprese anche il suo dolore.
Allora il ramo parlò ancora e disse:
“Mi è sembrato di chiudere gli occhi, e, dopo averli riaperti, non ho più trovato le mie foglie, non sono stato più capace di vederle!”
Lo gnomo pensò a lungo, poi capì:
si tolse gli occhiali e li posò sul naso del ramo, spiegandogli che erano occhiali magici che servivano per guardare dentro di sé.
Il ramo, allora, aprì bene gli occhi e… meraviglia… vide che dentro di sé qualcosa si muoveva, sentiva un rumore, vedeva qualcosa circolare, provò ad ascoltare, guardò a fondo:
era linfa, linfa viva che si muoveva in lui.

Incredulo, disse allo gnomo ciò che vedeva.

Lo gnomo gli spiegò che le foglie, i fiori e i frutti nascono grazie alla linfa oltre che al caldo sole, all’aria di primavera e alla pioggia.
“Se hai linfa dentro di te, hai tutto!” gli disse, “non occorre chiedere più nulla a nessuno, ma insieme all’acqua, alla luce, all’aria, agli altri rami, le foglie rinasceranno: le hai già dentro!”
Il ramo, immediatamente, si sentì più forte, rinvigorì:
aveva la linfa in sé, non doveva più chiedere consigli, gli bastava lasciar vivere la linfa che circolava in lui.
La linfa da cui, un giorno, sarebbero rinate le amiche foglie.

La sofferenza dell’albero è la nostra sofferenza, quando non comprendiamo il perché delle cose che ci accadono.
Una parola amica, un suggerimento, un consiglio, una frase possono ridarci la carica per tornare a vivere ed affrontare la vita.
In fondo l’uomo è così ricco di energie, di capacità, di creatività, sa come andare alla scoperta dei propri talenti per sfruttarli al meglio per sé e per gli altri.

Brano senza Autore

La cocorita Francesca

La cocorita Francesca

In una giungla piena di suoni e di colori, viveva una cocorita che aveva il carattere festoso e vivace come le sue piume azzurre, verdi, oro e arancione.
Si divertiva a svolazzare nell’intrico dei rami, giocava a nascondino con altri pappagallini colorati e con i bengalini candidi.
Si chiamava Francesca e ovunque arrivava riusciva a comunicare la sua intensa gioia di vivere.
Perfino le scimmie, che non sopportavano cocorite e pappagallini, facevano eccezione per la cocorita Francesca.
Era un uccellino felice, grato di essere vivo e di avere avuto in dono un paio di ali per volare e un bellissimo vestito di piume morbido e screziato.
Ogni mattina, appena il sole irrompeva attraverso lo spesso fogliame, si levava il suo grido:

“È una bellissima giornata!

Forza fratelli, non fate i pigroni, spalancate le ali: il cielo è tutto nostro!”
E incominciava a tracciare arabeschi nell’aria, come un fiore multicolore portato dal vento.
Ma, un brutto giorno, il cielo sulla foresta si fece improvvisamente nero e minaccioso come una palude senza sole.
Un silenzio pesante, pieno di paura, attanagliò le creature della giungla.
Le cocorite si strinsero tremanti le une alle altre, a formare una nube tremante.
Un vento violento afferrò le chiome degli alberi più alti e cominciò a scuoterli come se volesse sradicarli, rovesciando nidi e piccoli pappagallini che non sapevano ancora volare.
Poi cominciò la sarabanda dei tuoni e dei fulmini.
Staffilate di fuoco sibilavano dal cielo e colpivano senza pietà i vecchi tronchi, finché improvvisa si levò una fiamma e un albero centenario prese fuoco, urlando il suo dolore, con i rami nodosi levati verso il cielo come un’ultima disperata invocazione di aiuto.
“Il fuoco!
Si salvi chi può!” tutte le lingue animali della foresta gridarono all’unisono il loro terrore.
Migliaia di animaletti cominciarono a fuggire, ma il fumo acre e impenetrabile toglieva loro il respiro, faceva bruciare gli occhi e impediva crudelmente di vedere le vie di scampo.
La cocorita Francesca volava affannata, cercando di guidare i più piccoli e i più spaventati:
“Di qua!
Correte di qua!

Il fiume è da questa parte!”

Molti animali, sentendo il suo grido, si affrettarono a fuggire verso il corso d’acqua, altri invece finivano intrappolati dal fuoco e dal fumo.
Francesca, invece di mettersi in salvo, come tutti gli uccelli, continuava a sorvolare i più sfortunati, cecando un modo per aiutarli.
La disperazione le suggerì un’idea.
Volò sino al fiume che scorreva ai margini della foresta e lì si immerse nelle acque scure.
Poi riemerse con il corpicino intriso d’acqua e volò sull’inferno di fiamme, scrollando e scuotendo le piume per liberare le gocce d’acqua e farle piovere sulle fiamme.
Incurante del pericolo, sfiorando coraggiosamente le fiamme, tornò indietro e si immerse di nuovo nel fiume.
Poi, via!
“A scagliare il suo carico prezioso sul fuoco che continuava a ruggire.
Piccole gemme piovevano sul rogo.
Una cosa insignificante, ma la cocorita coraggiosa e testarda ripeté più e più volte il suo viaggio tra il fiume e le fiamme.
Le sue belle piume erano tutte bruciacchiate e il suo colore era quello della cenere, non riusciva più a tenere aperti gli occhi, ma non le importava.
“Che altro posso fare!” si ripeteva, “Solo volare, ed io volerò fino allo stremo delle forze pur di salvare una sola vita!”
Due occhi acuti, ma vagamente annoiati osservavano tutto dall’alto.
Un gigantesco avvoltoio veleggiava, godendosi lo spettacolo della giungla in fiamme.
Scorse la cocorita impegnata nella sua lotta contro il fuoco e sghignazzò:

“Che stupida bestia.

Come può pensare di domare il fuoco con quattro gocce d’acqua?
Chi ha mai visto una cosa del genere?”
Il coraggio dell’uccellino però lo aveva commosso un po’ e scese in picchiata verso la foresta in fiamme.
La cocorita stava ancora sfidando il fuoco quando vide apparire al suo fianco l’enorme avvoltoio dagli occhi gialli.
“Vattene, uccellino, il tuo compito è senza speranza!” gracchiò imperioso l’avvoltoio, “Cosa possono fare poche gocce d’acqua contro questo inferno?
Vola lontano prima che sia troppo tardi!”
“Non posso.
Devo fare qualcosa, devo tentare!” rispose la cocorita.
“Guarda in che stato sei!” continuò l’avvoltoio, “Fra un po’ finirai in una fiammata, mi sembri un tizzone affumicato!”
“Riesco ancora a volare…
Qualcosa farò!” replicò la cocorita.
“Ma che ti importa di loro?
Non hanno mai fatto niente per te.” esclamò l’avvoltoio.

“Sono miei amici:

li voglio salvare.” spiegò la cocorita.
La cocorita, stremata e ferita non ascoltava più.
Ostinata, continuava a fare la spola tra l’acqua e il fuoco.
L’avvoltoio, prima di sparire oltre le colonne di fumo, gridò:
“Basta!
Fermati stupida piccola cocorita!
Salva te stessa!”
Francesca era irremovibile.
“Ci mancava anche l’avvoltoio con i suoi consigli!” brontolava, “Consigli!
Anche la nonna e tutti i miei parenti mi direbbero le stesse cose.
Non ho bisogno di consigli, ma di qualcuno che mi aiuti!”
Proprio in quel momento, un gran frullare di ali riempì il cielo.
Una nube colorata, gialla, verde, blu, rossa e bianca si affiancò alla piccola cocorita.
Migliaia e migliaia di cocorite, pappagallini, bengalini, tucani, uccelli piccoli e grandi, si immergevano nell’acqua e andavano a scrollare le piume sul fuoco.
Le fiamme erano violente, ma gli uccelli erano milioni e arrivavano a ondate successive, senza smettere mai.

Come stupito, il fuoco si arrestò.

E cominciò lentamente a sfrigolare e illanguidire.
La cocorita Francesca, insieme alle poche gocce d’acqua che aveva raccolto, scagliò sulle fiamme anche le sue lacrime.
Ma erano lacrime di gioia.
“Grazie.” mormorò e cadde a terra, senza più un filo di forza.
Quando si risvegliò il temporale era scoppiato e l’acqua del cielo stava completando l’opera iniziata dalla coraggiosa cocorita.
“Urrà per Francesca!” gridarono gli abitanti della foresta, che le stavano tutti intorno.
La piccola cocorita aprì gli occhi e disse:
“È una bellissima giornata!”

Brano tratto dal libro “Storie belle e buone.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Il colore dell’orizzonte

Il colore dell’orizzonte

Un bambino che abitava in pianura era affascinato dalla linea delle montagne che si stagliava lontano all’orizzonte.
Azzurrine, leggere, compatte, gli apparivano come un luogo di paradiso.

Così diverso dalla terra aspra e grigia dove viveva.

Un giorno, ormai cresciuto, cedette al richiamo dell’orizzonte e decise di raggiungere quel posto incantato.
Il viaggio durò a lungo, attraverso pianure e colline.
Stremato, arrivò infine sulla vetta delle montagne, ma dovette constatare con profonda delusione che le montagne non erano più azzurrine ma grigie e caotiche, sassose, aride ed aspre.
Proprio come il paese che aveva lasciato.
Ma all’orizzonte, davanti a lui, si delineavano altre montagne, azzurre, violette, alonate di luce dorata.

E ripartì.

Gli ci volle molto tempo per raggiungerle.
Ma anche là, man mano che si avvicinava, l’azzurro e il viola scomparivano per lasciare spazio al grigio delle rocce e al giallo stopposo dell’erba bruciata.
Ma davanti l’orizzonte era azzurro e rosa.
E lui si rimetteva in cammino.

Era sempre una delusione:

al suo arrivo anche le nuove terre si rivelavano ruvide e brulle.
Un giorno, ormai vecchio, vista vana la sua ricerca, decise di tornare indietro.
Ed ecco, tutti i paesi che aveva lasciato erano azzurrini, leggeri, immersi in una incantevole luce dorata.

Brano tratto dal libro “A volte basta un raggio di sole.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

Due sassolini azzurri

Due sassolini azzurri

Due sassolini, grossi sì e no come una castagna, giacevano sul greto di un torrente.
Stavano in mezzo a migliaia di altri sassi, grossi e piccoli, eppure si distinguevano da tutti gli altri.
Perché erano di un intenso colore azzurro.
Loro due sapevano benissimo di essere i più bei sassi del torrente e se ne vantavano dal mattino alla sera.
“Noi siamo i figli del cielo!” strillavano, quando qualche sasso plebeo si avvicinava troppo.
“State a debita distanza!
Noi abbiamo il sangue blu.
Non abbiamo niente a che fare con voi!”
Erano insomma due sassi boriosi e insopportabili.
Passavano le giornate a pensare che cosa sarebbero diventati, non appena qualcuno li avesse scoperti:
“Finiremo certamente incastonati in qualche collana insieme ad altre pietre preziose come noi!”

“Sul dito bianco e sottile di qualche gran dama!”

“Sulla corona della regina d’Olanda!”
Un bel mattino, mentre i raggi del sole giocavano con le trine di spuma dei sassi più grandi, una mano d’uomo entrò nell’acqua e raccolse i due sassolini azzurri.
“Evviva!” gridarono i due all’unisono, “Si parte!”
Finirono in una scatola di cartone insieme ad altri sassi colorati.
“Ci rimarremo ben poco!” dissero, sicuri della loro indiscussa bellezza.
Poi una mano li prese e li schiacciò di malagrazia contro il muro in mezzo ad altri sassolini, in un letto di cemento tremendamente appiccicoso.
Piansero, supplicarono, minacciarono.
Non ci fu niente da fare.
I due sassolini azzurri si ritrovarono inchiodati al muro.
Il tempo ricominciò a scorrere, lentamente.
I due sassolini azzurri erano sempre più arrabbiati e non pensavano che ad una cosa: fuggire.
Ma non era facile eludere la morsa del cemento, che era inflessibile e incorruttibile.

I due sassolini non si persero di coraggio.

Fecero amicizia con un filo d’acqua, che scorreva ogni tanto su di loro.
Quando furono sicuri della lealtà dell’acqua, le chiesero il favore che stava loro tanto a cuore. “Infiltrati sotto di noi, per piacere.
E staccaci da questo maledetto muro!”
Fece del suo meglio e dopo qualche mese i sassolini già ballavano un po’ nella loro nicchia di cemento.
Finalmente, una notte umida e fredda, Tac! Tac!:
i due sassolini caddero per terra.
“Siamo liberi!” esclamarono.
E mentre erano sul pavimento, lanciarono un’occhiata verso quella che era stata la loro prigione:
“Ooooh!”
La luce della luna che entrava da una grande finestra illuminava uno splendido mosaico.
Migliaia di sassolini colorati e dorati formavano la figura di Nostro Signore.
Era il più bel Gesù che i due sassolini avessero mai visto.
Ma il volto… il dolce volto del Signore, in effetti, aveva qualcosa di strano.

Sembrava quello di un cieco.

Ai suoi occhi mancavano le pupille!
“Oh, no!” I due sassolini azzurri compresero.
Loro erano le pupille di Gesù.
Chissà come stavano bene, come brillavano, come erano ammirati, lassù.
Rimpiansero amaramente la loro decisione.
Quanto erano stati insensati!
Al mattino, un sacrestano distratto inciampò nei due sassolini e, poiché nell’ombra e nella polvere tutti i sassi sono uguali, li raccolse e, brontolando, li buttò nel bidone della spazzatura.

Brano di Bruno Ferrero

Il brodo della gallina

Il brodo della gallina

La famiglia è sempre stata il pilastro della società, anche se in questo momento storico è sottoposta a tante, troppe, disgregazioni.
E, sfortunatamente, oggi assistiamo a tanti odiosi e criminali femminicidi.
Le problematiche di un tempo erano diverse, ma la società non era immune da difficoltà.
I problemi erano celati e soppressi dalla società patriarcale,

che si basava su rigide regole in gran parte sfavorevoli alle donne.

Fiorella viveva all’interno di una di queste ed era, come le donne bibliche, criticata e compatita, dato che non riusciva ad avere figli.
Riuscì comunque a rimanere incinta, prima di iniziare ad invecchiare, ed a partorire una bellissima bambina.
Secondo la tradizione veneta, i parenti più stretti dovevano regalare alla neo mamma una gallina, rigorosamente nera, affinché la mangiasse, in modo da riprendersi il più in fretta possibile dalle fatiche del parto per tornare celermente a lavorare nei campi.
Una sua cognata, invece,

ne portò una volutamente bianca e disse alla puerpera:

“Cognata cara, noi ci conosciamo bene e da tanto tempo.
So che tu sei fin troppo moderna e trasgressiva.
Quindi immagino che non ti offenderai di certo per il colore della mia gallina!”
Fiorella intuì il significato ambiguo e capì di essere stata scoperta.
La bambina, che aveva partorito, non era di suo marito.
Questa non si turbò e replicò:
“Io accetto la tua gallina bianca in deroga alla tradizione solamente se tu, fra qualche giorno, verrai a condividere con me una scodella del suo brodo!”
Quando Fiorella, al tempo stabilito, porse la scodella di brodo fumante alla cognata, questa si lamentò siccome, all’interno della stessa, non erano presenti i classici grandi occhi di grasso, tipici della gallina.

La spiegazione che ne seguì fu sarcastica:

“Hai perfettamente ragione, cognata mia cara, perché ho aggiunto volutamente acqua calda alla tua scodella!
So che tu sei fin troppo tradizionalista nel vedere le cose a modo tuo.
In questo caso, però, meno “occhi” indagatori ci sono, meglio è per il cheto vivere di tutti!”

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno