Il pinguino colorato

Il pinguino colorato

Quando mise fuori la testa dall’uovo, fu accolto dalla felicità di tutti.
La comunità dei pinguini dell’Isola Azzurra si strinse intorno a Priscilla e Dagoberto, i suoi genitori, che avevano gli occhi luccicanti e non stavano più nel frac per l’orgoglio.
Perché Filippo era davvero un bel neonato di pinguino.
Aprì il becco ed emise un robusto vagito.
Tutti i pinguini presenti applaudirono.
“È un ottimo segno!” disse lo zio Fortebecco, “È impaziente di affrontare la vita!”
Filippo, in effetti, partì alla carica della vita con una gran dose di energia.
Appena le sue zampette furono abbastanza robuste, si allontanò dallo sguardo premuroso dei genitori per infilarsi fra i più discoli dei piccoli pinguini della comunità.

Erano tutti più anziani di lui, ma nessuno lo batteva in coraggio e temerarietà.

Fu Filippo il primo piccolo di pinguino che osò scivolare dalla punta del grande iceberg fino al mare, anche se poi non poté sedersi per due settimane a causa del bruciore sotto la coda.
Fu sempre Filippo, il coraggioso piccolo pinguino, che portò via la colazione all’enorme e spaventoso tricheco Baffodiferro.
Nella banda dei “pinguini irsuti”, chiamati così perché si rifiutavano sistematicamente di lasciarsi pettinare le piume del capo dalle loro mamme, Filippo divenne l’incontrastato boss.
“Perché sei sempre così agitato, Filippo mio?” gli chiedeva la mamma, un po’ in ansia per quel figlio che cresceva così scapestrato.
Con gli amici, Dagoberto era sinceramente preoccupato:
“Quel monello ha bisogno di una bella strigliata!”
Così spesso, alla sera, Dagoberto, Priscilla e Filippo rappresentavano, senza volerlo, la versione pinguinesca del processo di Norimberga.
“È tutta colpa tua!” diceva la mamma.
“No, tua!” esclamava il papà, “Anzi, è colpa di Filippo!”
La mamma piangeva, papà sbatteva la porta e Filippo gridava:

“Non ne posso più!”

Un giorno il pinguino Filippo se ne stava sdraiato su una roccia a picco sul mare ed osservava annoiato il formicolio dei pinguini della comunità.
Sembravano tutti felici; lui, invece si sentiva pieno di amarezza.
“Che barba!
Un posto tutto bianco, grigio e nero.
Dove nessuno si fa i fatti suoi…
Deve pur esserci un paese colorato.
Pieno di gente colorata.
Potrei diventare anch’io pieno di colori…
Non ne posso più di questa camicia bianca e di questo ridicolo frac!”
E, impulsivo com’era, si lasciò scivolare giù dalla roccia, si tuffò tra le onde e nuotò via dall’Isola Azzurra.
Approdò alla Terraferma.

Gli avevano sempre raccomandato di evitare il litorale.

I pinguini si tenevano prudentemente alla larga dagli anfratti in ombra degli scogli, dove le onde infrangevano con violenza rabbiosa, e foche, piccoli cetacei e altri predatori si acquattavano per far strage degli imprudenti.
“Adesso sono libero e faccio come mi pare!” si disse Filippo.
Si arrampicò a fatica e si incamminò sulla spiaggia.
Un forte sbattere d’ali alle sue spalle lo mise in guardia.
Un giovane cormorano aveva deciso di attaccarlo.
Ma Filippo era robusto e dotato di un becco forte e tagliente.
Lottarono per un po’, facendo volare piume da tutte le parti.
Filippo ci mise tutta la sua rabbia.
Il cormorano cominciò a perdere sangue da una ferita alla gola e si spaventò.
Si ritirò dal combattimento e volo via lamentandosi e imprecando.
“Aah!”” fece Filippo, gonfiando il petto con soddisfazione.
Alcune gocce di sangue del cormorano erano finite sulle sue piume bianche.

Il pinguino guardò le macchie rosse e disse:

“Bene! Comincio ad essere colorato!”
Ondeggiando, ma più che mai risoluto a continuare la sua esplorazione, Filippo si inoltrò tra le rocce.
“Ehi, amico!” una voce alle sue spalle lo fece voltare di scatto.
Era pronto di nuovo a combattere, ma di fronte si trovò solo un gabbiano giovane e inoffensivo.
“Ti ho visto sistemare il cormorano!” disse il gabbiano, “Sei un duro, tu!”
“Certo!” rispose Filippo.
“Ti invito a pranzo!” insinuò furbescamente il gabbiano.
“Che cosa vuoi dire?” chiese Filippo.
“Andiamo a rubare le uova dai nidi delle rondini di mare, che ne dici?
In due non oseranno farci niente!” spiegò il gabbiano.
Fecero una scorpacciata di uova.
Le povere rondini di mare tentarono invano di difendere i loro nidi.
I due briganti mulinavano ali e becchi.

Alla fine, Filippo si guardò il petto:

era tutto macchiato dal giallo e arancione dei tuorli d’uovo.
“Altri colori!” si disse, “Questa è vita!”
Dietro di lui, si sentiva solo il disperato pigolare delle rondini di mare, che piangevano i nidi e le uova distrutte.
Si installò in una grotta di ghiaccio azzurra, e ne fece il suo covo.
Un gruppetto di gabbiani e perfino un’otaria con un occhio solo lo riconobbero come capo banda.
Le scorribande del gruppetto furono ben presto temute da tutti.
Filippo veniva chiamato semplicemente “Il pinguino colorato”.
Infatti la sua elegante livrea bianca e nera era sparita sotto i segni delle imprese che aveva affrontato.
Oltre il rosso del sangue e il giallo delle uova rubate, c’erano tracce verdi, azzurre e anche ciuffi di pelo argentato, che gli erano rimasti attaccati dopo un’epica lotta contro un Husky randagio.
Ma che serviva essere diventato davvero il primo pinguino a colori, se non poteva farsi ammirare dai suoi vecchi amici e dalla sua famiglia?

Il pensiero dell’Isola Azzurra prese a torturarlo.

Anche se non voleva ammettere, sentiva un bel po’ di nostalgia dell’allegra comunità dei pinguini.
“Avere una vita colorata non è proprio come me la immaginavo!” si diceva sempre più spesso.
Quella esistenza di fughe, attacchi, lotte e brigantaggio non gli piaceva più tanto.
Un mattino riprese la via del mare e tornò a casa
I primi pinguini dell’Isola Azzurra che incontrò erano dei piccoli che giocavano sulle lastre di ghiaccio galleggianti.
Appena lo videro si misero a strillare e scapparono gridando:
“Un mostro!
Un mostro!”
Gli adulti fecero largo al suo passaggio, ma non per fargli onore.
Lo guardavano tutti con una sorta di ribrezzo.
“Ma perché?
Idioti, sono io, non mi riconoscete?” brontolava Filippo.
“Filippo, figliuolo, lo sapevo che saresti tornato!”
La mamma naturalmente lo riconobbe, ma non osò abbracciarlo.
“Ma in che stato sei!”
“Bentornato, Filippo!” gli disse anche il papà.

Ma non lo toccò.

Le comari tutt’intorno borbottavano:
“Che disgrazia!
Poveri genitori…”
Per la prima volta nella sua vita, a Filippo venne voglia di piangere.
Improvvisamente comprese che i suoi colori continuavano a tenerlo lontano; lo rendevano straniero alla comunità dell’Isola Azzurra.
Mentre lui, solo adesso, si accorgeva che soltanto lì poteva essere veramente felice.
Ma come si fa a tornare indietro?
“Papà!” chiese, “Vorrei cancellare questi colori e ricominciare, se è possibile!”
Dragoberto esitò, poi guardò Filippo negli occhi e disse:
“C’è un mezzo solo:
devi tuffarti dalla Grande Cascata.
Laggiù l’acqua è così violenta e rapida che nessun colore può resistere.
Ma è tremendamente rischioso.
Ci vorrà il tuo coraggio.
Te la senti di farlo?”
“Si, papà!” rispose Filippo.

La voce si sparse in un attimo.

Nel giro di pochi minuti c’erano tutti, grandi e piccoli, intorno alla grande cascata.
Non riuscirono a trattenere un “Oh!” sincero quando in alto, dove il fiume precipitava in mare con un fragoroso boato, apparve Filippo.
Sembrava così piccolo lassù.
Rimase un attimo fermo a concentrarsi, poi spiccò il salto.
Un salto stupendo, come se improvvisamente gli fossero spuntate le ali.
La corrente lo ghermì come un fuscello e lo scagliò violentemente nel mare ribollente e schiumante.
Il pinguino sparì nel vortice.
Tutti trattennero il fiato.
Poi ad un tratto Filippo riemerse.
La forza stessa dell’acqua lo proiettò in alto e tutti videro che le sue piume erano diventate immacolate e che i colori erano scomparsi.
Allora esplosero in un festoso:
“Urrà!” che coprì perfino il tuonare dell’acqua.

Brano tratto dal libro “Storie belle e buone.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

La creazione delle lacrime

La creazione delle lacrime

Quando furono cacciati dal Paradiso terrestre, Adamo ed Eva partirono pieni di acrimonia e di rabbia.
I loro volti erano lividi, le labbra piegate in smorfie di dolore, il cuore colmo di amarezza.

Si erano accusati a vicenda, insultati, minacciati.

“Maledetto, sei solo un incapace!” aveva gridato Eva.
“È tutta colpa tua!” aveva sbraitato Adamo, fino a diventare rauco.
Camminavano con i pugni stretti, gli occhi lampeggianti, un peso dentro, opprimente come un macigno.

Tutto questo provocava a Dio una grande tristezza.

Decise così di aggiungere qualcosa alla creazione.
Qualcosa che non aveva previsto nel progetto originale.
Passò lieve tra l’uomo e la donna e sfiorò il loro cuore e i loro occhi.

E creò le lacrime.

Adamo ed Eva cominciarono a piangere.
Il macigno e la rabbia che avevano dentro si sciolse.
Una nuova tenerezza li sommerse e si abbracciarono.

Brano tratto dal libro “C’è qualcuno lassù.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Il diavolo e la coppia felice

Il diavolo e la coppia felice

Mentre sfogliava i suoi “dossier” matrimoniali, il diavolo notò con dispetto che c’era ancora una coppia, sulla terra, che filava d’amore e d’accordo.
Decise di fare un’ispezione.

Si trattava in realtà di una coppia comune:

eppure sprigionava tanto amore che attorno ad essa pareva ci fosse un’eterna primavera.
Il diavolo volle conoscere il segreto di quell’amore.
“Nessun segreto!” gli spiegarono i due,

“Viviamo il nostro amore come una gara:

quando uno dei due sbaglia, è l’altro che se ne assume la colpa; quando uno dei due fa bene, è l’altro che ne ha le lodi; quando uno dei due soffre, è l’altro che ne ha consolazione; quando uno dei due gioisce, è l’altro che ne ricava piacere.
Insomma, facciamo sempre a chi arriva per primo.”

Al diavolo tutto ciò parve scemo.

E se ne andò senza far loro del male.
Ed è così che possono ancora esistere delle coppie felici sulla terra.

Brano senza Autore

Tre racconti brevi

Tre racconti brevi
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Il maestro ed il discepolo

Il tesoro nel podere

Un combattimento tra due giovani cervi

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“Il maestro ed il discepolo”

Un giorno un discepolo si macchiò di una grave colpa.
Tutti si aspettavano che il maestro lo punisse in modo esemplare.
Ma passò un anno e il maestro non diede segno di reazione.

Allora un altro discepolo protestò:

“Non si può ignorare ciò che è accaduto: dopo tutto, Dio ci ha dato gli occhi!”
Il maestro replicò:
“È vero, ma anche le palpebre!”

Brano senza Autore.
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“Il tesoro nel podere”

Lo aveva scoperto per caso, ma nel podere che affittava e che coltivava da tempo c’era un tesoro.
Erano monete d’oro e oggetti preziosi, affiorati il giorno che aveva deciso di arare in profondità.
Si era affrettato a ricoprire il tutto e aveva chiesto al padrone di vendergli il podere.
Vedendo la sua ansia, il padrone aveva accettato,

ma gli aveva chiesto una somma altissima.

Per mettere insieme i soldi necessari, l’uomo si cercò un secondo lavoro e poi un terzo.
Cominciò a guadagnare e investì i guadagni, fondò un’impresa, allargò i traffici oltre i confini dello stato.
Passò altro tempo.
L’uomo investiva, trafficava, dirigeva, viaggiava.
Si dimenticò completamente del tesoro nascosto nel campo.

Brano senza Autore. Apologo (Favola allegorica a fine spiccatamente pedagogico) Indiano.
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“Un combattimento tra due giovani cervi”

Due giovani cervi, bellissimi esemplari, si incontrarono nel bosco.
Entrambi gelosi del proprio territorio, decisero di affrontarsi.
Il combattimento durò a lungo:
nessuno dei due voleva cedere.
Alla fine, il più forte, con un ultimo movimento della testa, ebbe la meglio sull’avversario.
Ma i palchi dell’ucciso rimasero incastrati in quelli dell’uccisore, lucidi e possenti.

Impossibili da districare.

Il vincitore tentò in ogni modo di sbarazzarsi del corpo dell’altro cervo, ma non ci riuscì.
Fu costretto a trascinarselo dietro, fino a che, spossato, dovette fermarsi.
All’alba, a liberarlo da quel peso morto fu lo sparo di un cacciatore.

Brano senza Autore.

Peppino e la torre maledetta

Peppino e la torre maledetta

C’era una volta un villaggio costruito in una valle lunga e stretta, in mezzo a montagne alte e rocciose, che si spalancavano qua e là in distese di prati e di pascoli.
Gli abitanti del villaggio erano moderatamente soddisfatti:
le loro mucche e le loro pecore erano ben pasciute, latte e formaggio si vendevano bene, anche se il mercato era lontano.
Ma sulla loro felicità aleggiava un’ombra nera.
L’ombra nera della Torre Maledetta.
La Torre Maledetta era una ruvida formazione rocciosa che chiudeva la valle e incombeva sul villaggio impedendogli di essere illuminato dal sole, se non pochi minuti all’alba e altrettanto pochi al tramonto.
Per il resto del giorno il sole illuminava solo i fianchi più alti della valle.
Così il villaggio passava la sua giornata all’ombra.

Per colpa della Torre Maledetta.

A Peppino, un giovane dall’aria sveglia e dal carattere aperto e deciso, la cosa non andava proprio giù.
Gli sarebbe tanto piaciuto avere un giardino davanti alla casa, con i fiori e un ciliegio e due albicocchi e un melo.
Ma non sbocciavano fiori nel villaggio, né ortaggi, perché c’era troppo poco sole.
Chi voleva un orto doveva andare a coltivarlo lontano dal villaggio.
Per questo molti andavano ad abitare altrove e, piano piano, il villaggio perdeva abitanti.
Il villaggio rischiava di morire per colpa della Torre Maledetta.
Era l’unica cosa che riusciva a guastare il buonumore di Peppino.
Ogni mattino, mentre si stirava sul balcone della sua camera e si lasciava accarezzare dai raggi del sole, prima che fossero inghiottiti dall’ombra, fissava la superba roccia nera con gli occhi che mandavano lampi di dispetto.
“Accidenti, accidentaccio.” Brontolava, “Un villaggio senza fiori, senza farfalle e senza canzoni è un villaggio senza bambini, un villaggio che muore…”
Girava gli occhi sui tetti d’ardesia che avevano riflessi d’argento e sui camini che con il loro fumo facevano propaganda alla fragrante polenta che borbottava nei paioli di rame, pensava agli abitanti che conosceva tutti per nome, cognome e soprannome e si diceva:
“Devo assolutamente fare qualcosa…
Sono il più giovane del villaggio e quindi tocca a me!”
Un mattino, appena il sole si nascose dietro la parete nera della Torre prese la decisione.
Si mise sulle spalle il piccone nuovo che aveva comprato alla fiera e si incamminò, con passo risoluto verso la montagna.

“Dove vai?” gli chiese la mamma.

“Vado a buttare giù la Torre Maledetta!” rispose semplicemente Peppino.
“Ma cosa dici?
Sei diventato matto?
Non ce la farai mai!”
“Qualcuno deve incominciare una buona volta!” ribadì caparbio.
Arrivato ai piedi della Torre, alzò lo sguardo verso l’immensa parete scura che incombeva su di lui con un vago senso di minaccia.
“A noi due!” disse Peppino.
Gli rispose un rombo cupo, come una grassa risata sussultante, che terminò nel sibilo maligno del vento.
“Comincerò dall’alto.” si disse e cominciò a salire.
La vetta della Torre aveva qualche chiazza di neve, ma Peppino non degnò di uno sguardo il panorama.
Alzò il piccone e lo abbatté con tutte le sue forze contro la roccia.
“Tò, beccati questo!”
Con un po’ di sorpresa, si accorse che il suo colpo di piccone aveva staccato un grosso blocco di pietra che lentamente rotolò giù dalla vetta, trascinandosi dietro un corteo di sassi più piccoli.
“Allora si può!” esultò.

Moltiplicò i colpi, con rabbia, con gioia.

“Aprirò la strada al sole!”
Dopo qualche ora si buttò a terra, sudato, spossato.
E guardò il risultato della sua opera.
Aveva buttato giù un bel po’ di sassi, ma non aveva abbassato la Torre neanche di un millimetro. “Dovessi impiegarci tutta la vita ce la farò!” si disse.
Ma gli sembrò di riudire il rombo sussultante che era la risata di scherno della Torre.
Si rialzò e riprese a picchiare con il piccone.
“Beccati questo!
E anche questo!” gridava sbrecciando, scheggiando, frantumando le rocce della vetta.
Passò quel giorno e quello dopo.
Così per un mese.
Ogni mattina, Peppino rinnovava la sua sfida alla Torre Maledetta.
Ma il risultato non era granché: l’immane picco sembrava più alto e saldo che mai.
“Lascia perdere!” gli dicevano i concittadini, che cominciavano a crederlo un po’ matto, “Tanto ci siamo abituati.”
Scuotendo la testa, Peppino insisteva:
“Farò arrivare il sole sul vostro balcone tutto il giorno…
E sbocceranno i fiori nella piazza.”

Tornava lassù e ricominciava a picconare.

Dopo qualche mese, il «pic… pic…» del suo piccone divenne un rumore familiare per le pecore e le mucche degli alti pascoli.
Ma era così grande e solida quella roccia…
Un mattino, però, successe una cosa straordinaria.
Peppino stava spingendo giù dalla Torre un grosso masso che aveva appena staccato, quando udì chiaramente una vocina che lo chiamava:
“Peppino, Peppino!”
Si guardò intorno sorpreso.
La voce riprese a chiamare.
La cosa più strana era che la voce proveniva da dentro la montagna.
“Dove sei?” chiese Peppino.
“Qui, sotto i tuoi piedi, dentro la roccia!” rispose la vocina.
Peppino si inginocchiò e scrutò con attenzione nel buco lasciato dal masso.
Sul fondo si apriva una fessura e, dentro la fessura, piccola piccola si agitava una manina bianca. “Liberami!” implorò la vocina.
Impugnò il piccone e in poco tempo scavò fino ad arrivare alla mano, poi continuò con attenzione e infine si trovò davanti una bambina dagli occhi color lago alpino e vestito color spuma di torrente.
“Grazie!” disse la bambina, mentre Peppino la guardava con l’aria stralunata.
“Sono la fata delle sorgenti, ma il maligno architetto della Torre mi ha imprigionata.
Ma ora che mi hai liberata, il tuo desiderio si avvererà!”

“E come farai?

Sei così piccola e fragile!” chiese Peppino.
“Con la pazienza, un po’ di tempo e la forza dell’acqua!” sorrise la fatina.
Alzò la mano, come fosse il cenno di attacco di un direttore d’orchestra.
Mille gorgoglii, saltelli, risate, sciacquii riempirono l’aria.
Mille sorgenti sbocciarono sulla Torre Maledetta.
Piccole all’inizio, si riunirono a formare ruscelli, torrenti, cascate.
E ognuno di essi incideva, smerigliava, scavava, trasportava a valle ghiaia, sassi, detriti.
“Stanno facendo a pezzi la Maledetta!” gridò Peppino e fece volare in aria il cappello.
Voleva ringraziare la fata delle sorgenti, ma quella non c’era più.
Corse a dare la notizia al villaggio, che adesso era fiancheggiato da un torrente giovane e forte che scendeva dalla Torre Maledetta.
Oggi quel villaggio è inondato dal sole dal mattino alla sera, ed è pieno di fiori, farfalle e bambini.
Al posto della Torre c’è una serie di piccole rocce smozzicate, coperte dal muschio e dai cespugli.
Ci vanno i vecchietti a cercare i funghi.

Brano tratto dal libro “Storie belle e buone.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi

Il regno dei fagioli

Il regno dei fagioli

Un re di un potente e prospero regno doveva la sua fortuna alla corona che portava in testa.
La indossava esclusivamente nelle cerimonie ufficiali.
I sudditi non avevano mai saputo da dove provenisse la corona e, per questa ragione, fantasticavano sulle origini della stessa.
La leggenda maggiormente tramandata era riferita ad un ordine cavalleresco, il quale aveva forgiato la corona con tutti i metalli della terra, provenienti dai quattro poli e, per questo, carica di magnetismo.

Questa leggenda era, inoltre,

alimentata da due differenti tabù, quello di non essere mai stata toccata dalle mani del volgo e quello di essere sempre tenuta ben dritta in capo dal regnante, pena la decadenza dei suoi effetti taumaturgici.
Avvenne che le cose del regno non andassero bene, con guerra e carestia all’orizzonte.
I dignitari di corte intuirono che era colpa del re che, ormai vecchio, non portava la corona in modo coretto; o troppo a destra o a sinistra del capo.
Per via degli atavici tabù e della superstizione, il re non tollerava alcuna illazione verbale su di essa, né che la corona venisse toccata da altre mani diverse dalle sue, essendone morbosamente legato.
Per questa ragione nessuno aveva il coraggio di segnalare e correggere l’anomalia di come venisse portata.

Neppure il giullare di corte osava tanto,

nonostante scherzasse pubblicamente sull’obesità del re.
I dignitari allarmati fecero un consiglio segreto per trovare una soluzione, ma non ne vennero a capo.
Decisero, quindi, di consultare l’ortolano di corte, nonché speziale, considerato uomo saggio e avveduto, chiedendogli se avesse qualche rimedio.
Questi propose, come unico espediente capace di raddrizzare la postura del re, di fargli mangiare in abbondanza fagioli alla vigilia delle cerimonie.
Una difficoltà era rappresentata dal fatto che i legumi non fossero previsti nella cucina reale, siccome da poco presenti nelle coltivazioni di quel regno.
Nonostante ciò, al re piacquero tantissimo i nuovi piatti a base di fagioli.
Non intuì mai che la flatulenza che sopraggiungeva in seguito ai pasti consumati era causata dagli zuccheri nobili contenuti in essi, noti per provocare fastidiosi gas intestinali con l’imbarazzante effetto collaterale del soffio dei peti.

I fagioli venivano fatti consumare al grasso re prima delle cerimonie ufficiali che,

trovandosi puntualmente in imbarazzo durante le stesse, era costretto ad assumere una posizione confacente al suo ruolo sul trono, raddrizzando la postura del corpo ed evitando così la caduta della corona, sistemata tempestivamente da lui stesso.
Fortuna e prosperità tornarono in quel regno, nel quale i fagioli divennero pietanza ufficiale apprezzata a corte e dai sudditi, tanto da chiamarsi in seguito “Fagiolandia”.
Il fastidioso disturbo dei legumi fu chiamato per scaramanzia “aria di festa”, dato che, in quel momento di difficoltà, i fagioli salvarono il regno.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Amiche del cuore

Amiche del cuore

“Per piacere, resta!” imploravo.
Ann era la mia migliore amica, l’unica ragazzina del vicinato, e non volevo che andasse via.
Stava seduta sul mio letto, con gli occhi blu privi di espressione.
“Mi annoio!” disse arrotolandosi gli spessi riccioli rossi intorno a un dito.
Era venuta a giocare solo mezz’ ora prima.
“Per piacere, non andare!” chiesi supplichevole, “Tua mamma ha detto che potevi restare per un’ ora!”
Ann fece per alzarsi, poi vide un paio di mocassini indiani in miniatura sul mio comodino.
Con le loro perline dai colori vivaci sulla morbida pelle, quei mocassini erano la cosa che mi era più preziosa.
“Rimarrò se me li dai!” disse Ann.

Aggrottai le sopracciglia.

Non potevo immaginare di separarmi da quei mocassini.
“Ma me li ha dati la zia Reba!” protestai.
Mia zia era stata una donna bella e gentile, e io l’adoravo.
Non era mai troppo occupata per dedicarmi un po’ di tempo.
Ci inventavamo storie buffe e ridevamo tanto.
Il giorno in cui era morta, avevo pianto per ore sotto una coperta, incapace di credere che non l’avrei più rivista.
In quel momento, mentre tenevo con cura i mocassini nella mano, ero invasa dal dolce ricordo di zia Reba.
“Andiamo.” incitava Ann, “Sono la tua migliore amica!”
Come se ci fosse bisogno di ricordarmelo!
Non so che cosa mi prese, ma desideravo più di ogni altra cosa avere qualcuno che giocasse con me.
Lo volevo così tanto che porsi i mocassini ad Ann!
Dopo che li ebbe riposti in tasca, andammo in bicicletta sul vialetto per diverse volte e presto fu tempo per lei di tornare a casa.
Sconvolta per quello che avevo fatto, non avevo comunque voglia di giocare.

Quella sera sostenni di non avere fame e andai a letto senza cena.

Una volta nella mia stanza, iniziai davvero a sentire la mancanza dei mocassini!
Dopo che la mamma mi ebbe rimboccato le coperte e spento la luce, mi chiese cosa ci fosse che non andasse.
Le raccontai tra le lacrime di come avessi tradito la memoria di zia Reba e di quanto mi sentissi in colpa.
La mamma mi abbracciò con calore, ma tutto quello che mi disse fu:
“Bene, immagino che dovrai decidere cosa fare.”
Le sue parole non mi furono d’aiuto.
Sola nel buio, cercai di chiarirmi le idee.
“La legge dei bambini dice che non devi dare una cosa e poi riprendertela.” mi dicevo, “Ma è stato un affare conveniente?
Perché ho permesso ad Ann di giocare con i miei sentimenti?
Ma soprattutto, Ann è davvero la mia migliore amica?”
Decisi che cosa avrei fatto.
Mi agitai e mi rivoltai per tutta la notte, non vedendo l’ora che si facesse giorno.
A scuola, il giorno seguente, affrontai Ann.
Trassi un profondo respiro e le chiesi di rendermi i mocassini.

Sbarrò gli occhi e mi guardò a lungo.

“Per piacere!” pensavo, “Per piacere!”
“Okay.” disse infine, tirando fuori dalla tasca i mocassini, “Tanto non mi piacevano.”
Fui sopraffatta da una sensazione di sollievo.
Dopo qualche tempo io e Ann smettemmo di giocare insieme.
Scoprii nei dintorni dei bambini che non erano niente male, e spesso mi invitavano a giocare a softball.
Mi feci anche nuove amiche in altri quartieri.
Nel corso degli anni, ho avuto altre amiche del cuore.
Ma non ho più supplicato per la loro compagnia.
Sono arrivata a capire che gli amici sono persone che vogliono trascorrere il tempo con te, senza chiedere niente in cambio.

Brano di Mary Beth Olson

Il pianto dell’ardito

Il pianto dell’ardito

Da ragazzo conobbi un vero ardito (specialità dell’arma di fanteria del Regio Esercito italiano durante la prima guerra mondiale, ndr).
Gli arditi, come detto, erano soldati d’assalto organizzati in truppe speciali, che vennero riorganizzate dopo la disfatta di Caporetto.
Le loro gesta temerarie sono riportate nelle pagine dei libri di storia.
Questo signore in paese era rispettato, ma anche temuto, perché considerato “un matto di guerra”, categoria di reduci tornati con gravi disturbi, per via delle brutture e degli orrori della guerra.

Mio padre era un suo carissimo amico e,

vedendolo nel suo campo a regolare l’essiccazione del fieno, si fermò a salutarlo.
Per me era un vero piacere sentirli discorrere serenamente.
All’improvviso sul monte Grappa si formarono dei nuvoloni minacciosi che avanzarono in un baleno, oscurando il cielo con lampi, fulmini e roboanti tuoni.
Il nostro ardito, vedendo questa scena, cambiò completamente atteggiamento e, immaginando di essere ancora sul fronte in mezzo al fragore della battaglia, prese la forca infilzando i mucchi di fieno, simulando di avere il fucile con la baionetta innestata, gridando a squarciagola:

“Savoia …Savoia….”

Inoltre prendeva dei sassi lanciandoli a mo di bombe a mano, correndo avanti e indietro come un forsennato.
Alle prime gocce di pioggia si fermò all’istante, abbracciò mio padre e, piangendo come un bambino, mormorò:
“Aiuto! Mamma” Non voglio morire, sta arrivando il gas!”

Fu difficile calmarlo, poiché tremava tutto.

Dopodiché, con mio padre lo accompagnammo a casa sua.
Mio padre mi raccontò che portava la mantella militare nel mese di agosto e che beveva solo dalla sua borraccia di ordinanza anche all’osteria, ma che tutto ciò non fosse tutta colpa sua; questo accadeva a causa di ciò che aveva visto durante la guerra.
Per queste ragioni era doppiamente eroe, non solo per le medaglie ricevute ma per non essere capito dell’immane tragedia che lo aveva coinvolto e che lo aveva segnato per sempre nell’anima.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

L’oroscopo personale

L’oroscopo personale

Non tutti gli anni che viviamo durante la nostra vita sono uguali; basta vedere questo 2020 quanto sconquasso ha portato per colpa del coronavirus.
Anche alcuni giorni iniziano apparentemente uguali, ma cambiano senza neanche saperne il perché;

basta crederci in modo da farli diventare unici.

Anni fa mi capitò di recarmi come turista a Venezia, con un treno locale, in una bella giornata fra tanta bella gente.
Vedere dai finestrini il susseguirsi della campagna veneta mi ha sempre messo di buon umore.
Contemporaneamente nella mia mente componevo poesie in piena libertà, momenti unici che fanno tanto bene al cuore.
Dopo alcune fermate, sul treno salì un mio caro amico di infanzia che, sedendosi di fronte, mi chiese come andasse.

Gli risposi:

“Bene! Alla grande! Oggi sono proprio contento, sento dentro di me una forza positiva che sarei capace di far alzare in piedi mezza carrozza.”
Il mio amico replicò:
“Sei sempre il solito che si fa l’oroscopo da solo!”
Allora mi alzai di scatto e guardando fuori dal finestrino esclamai ad alta voce:

“Guarda! Guarda quante pecorelle!”

Non ci crederete, ma mezza carrozza passeggeri si alzò in piedi contemporaneamente per guardare fuori sperando di vedere un gregge.
Il mio amico, ma anche tutti gli altri passeggeri, non vedendo niente, si stizzirono.
Con molta tranquillità esclamai:
“Nuvole, cari amici, nuvole a pecorelle!”

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Il “sì” dei facchini

Il “sì” dei facchini

È bello poter raccontare una storia di successo, soprattutto quando la si è vissuta in prima persona.
Tanti anni fa fui ispirato dalla lettura del libro “La valle dell’Eden.” di John Steinbeck.
Seminai il primo campo di fagioli, non seguendo più la tradizioni delle nostre parti.

La nostra usanza si limitava alla coltivazione di un piccolo orticello familiare.

Dovendoli vendere freschi al mercato generale di Treviso, decisi di proporli ad un commerciante che accettò senza entusiasmo, essendo il mercato saturo di fagioli campani e piemontesi.
Dovendo fare la bolla di consegna per il conto vendita, riportavo il peso esatto considerando il calo fisiologico.
Nell’estratto conto della vendita reale, però, trovavo però l’ammanco di diversi kilogrammi e preoccupato feci una indagine, scoprendo che la colpa era dei facchini.
Per consuetudine, questi facevano la provvista quotidiana per uso privato di ortaggi e frutta,

prendendo solo i migliori in assoluto presenti nel mercato.

Invece di arrabbiarmi, li ringraziai di essere comportati come l’Uomo del Monte della nota pubblicità, dato che avevano preferito i miei borlotti.
Promisi loro di regalargli qualche kg di fagioli purché non ne avessero intaccato il peso.
Galvanizzato dalla scoperta che i miei fagioli erano, per bontà e freschezza, i migliori del mercato, decisi di dare loro un nome e li chiamai Levada, proprio come il mio paese.
Stampai le etichette-promo sponsorizzato da una banca locale, riscontrando un immediato successo, anche mediatico.
Non contento, con l’appoggio delle istituzioni fondai la confraternita Borlotto Nano Levada, siccome anche altri miei paesani seguirono il mio esempio.

La Pro Loco istituì la Festa del Borlotto Nano di Levada,

la quale riscontrò un successo di presenze per la qualità dei piatti proposti a tema.
Attualmente durante la festa viene eletta anche Miss Fagiolo. (alla fine del brano la foto dell’autore con l’ultima Miss)
Tutto ovviamente grazie al provvidenziale “si” dei facchini ai miei fagioli, che decretarono così il successo delle mie fatiche, iniziate leggendo un libro ed inseguendo un sogno, ora condiviso con tanti amici.

Brano di Dino De Lucchi
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Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Nella foto l’autore del brano Dino De Lucchi ed Elena Comazetto, eletta Miss Fagiolo alla XXIII Festa del Borlotto Nano di Levada.