Un abbraccio tra madre e figlia

Un abbraccio tra madre e figlia

La ragazza era di pessimo umore.
Aveva tutte le sue spine fuori, proprio come un porcospino tormentato da un cane.
Troppi compiti a casa, troppe interrogazioni, troppo tutto… ecco!

La madre le ripeteva la solita predica,

con ragionamenti, spiegazioni e raccomandazioni.
La ragazza si fece ancora più scura.
Poi guardò la madre dritta negli occhi e scandì:
“Mamma, sono stanca e stufa delle tue prediche.

Perché invece non mi prendi tra le tue braccia e mi tieni stretta?

Nessun consiglio potrà mai farmi altrettanto bene!”
La madre rimase a bocca aperta.
Gli occhi della figlia imploravano un abbraccio.
Con la voce rotta dalla voglia di piangere, disse:

“Vuoi… vuoi che ti abbracci?

Ma lo sai che anch’io… anch’io voglio che tu mi abbracci?”
Accolse la figlia nelle braccia aperte e la strinse a sé, come fosse ancora una bimba.
E, quasi d’incanto, non ci furono più discussioni…

Brano senza Autore

La penitenza del chierichetto (Il sacchetto di fagioli)

La penitenza del chierichetto
(Il sacchetto di fagioli)

Anch’io sono stato chierichetto ed anche molto serio.
Mia mamma era rimasta molto colpita ed era orgogliosa dell’invito che mi aveva fatto il Parroco dell’epoca, Don Mario, per fare il chierichetto e ciò perché noi eravamo una famiglia di immigrati e, l’immigrato in genere, non è da subito ben inserito nella vita del paese.
Un tempo era così, ora la mentalità è più aperta, ma al tempo dovevi avere pazienza.
Allora mia mamma mi manda subito da un’amica sarta, che mi prenda le misure e mi confeziona la vestina del chierichetto.
Nella mia Parrocchia allora i chierichetti indossavano una tunica nera con sopra una cotta bianca
corta.
La sarta era brava e mi confezionò la più bella vestina di tutti gli altri ragazzi, che facevano i chierichetti.
Io ero uno dei più piccoli e dovevo ancora imparare molte cose allora il Parroco mi affidò ad uno più vecchio che mi doveva insegnare i compiti del chierichetto nelle varie cerimonie.

Scoprii allora che i chierichetti non sono tutti uguali:

c’era il turiferario in genere più anziano (si fa per dire) degli altri, che portava il turibolo per porgerlo al celebrante nel momento opportuno per incensare.
Il turiferario è assistito da quello che porta l’incenso dentro la navicella, poi ci sono quelli che portano le torce accese, quelli che seguono la messa, il cerimoniere che dà gli ordini, quelli che accendono e spengono le candele, quelli che rispondono alla Messa.
Insomma molti compiti e per ogni compito serviva una specifica istruzione perché il Parroco era severissimo, non bisognava assolutamente parlare tra noi, né litigare, ecc.
Il Parroco ci chiamava a fare l’istruzione dei chierichetti una volta la settimana e durante le vacanze anche due volte alla settimana.
Lui teneva la conferenza, ci raccomandava il silenzio, la meditazione, le buone letture e poi ci lasciava alle istruzioni pratiche affidate al capo chierichetto più anziano.
Io venni destinato a “rispondere alla messa” ossia alla liturgia della messa domenicale o feriale, ero troppo piccolo, infatti per il turibolo, che era più alto di me ed anche per le candele alle quali non arrivavo nemmeno con lo stoppino acceso lungo venti centimetri.
La Santa Messa era in latino ed io il latino non lo sapevo,

ma il Parroco mi diede il libricino della messa in latino scritto in due caratteri.

Le frasi scritte con caratteri normali le diceva il Parroco o Celebrante mentre le risposte in neretto le dovevo dire io.
Ed io in un lampo imparai tutte le risposte al celebrante in latino anche se non sapevo cosa volessero dire.
L’altare non era rivolto verso il pubblico come ora ma rivolto verso il fondo della Chiesa ed il Parroco dava le spalle al pubblico e la fila dei chierichetti si metteva nel presbiterio alle spalle del celebrante su due file.
Si entrava dalla Sagrestia, genuflessione ai piedi dell’altare poi il Parroco saliva all’altare poggiava il calice, quindi scendeva e mi ricordo ancora le prime frasi della Messa.
Dopo aver recitato in ginocchio il tradizionale:
“In nomine Patris et Filii…… ecc”, il celebrante diceva:
“introibo ad altare Dei.” ed io subito pronto, “Ad Deum qui laetificat juventutem meam.”
Il Parroco celebrante rispondeva:
“Adiutorium nostrum in nomine Domini.” ed io pronto e immediato, “Qui fecit caelum et terram….”
Poi veniva il Confiteor e cosi via.
Ma noi piccoli chierichetti non sapevano il latino e quindi le frasi le troncavamo o non eravamo pronti a rispondere ed allora il Parroco ci riprendeva ed anche ci suggeriva.

Io però più che dal latino ero impacciato con la mia bella tunica.

La prima parte della Messa si diceva tutta in ginocchio.
Il pavimento del presbiterio non era mai stato finito e non aveva il marmo come adesso, ma c’era il cemento grezzo.
Avevo i calzoni corti, mi sollevavo allora la tunica per non rovinarla e mi inginocchiavo sul cemento grezzo, che era fatto tutto di piccoli sassolini che sulle ginocchia nude diventavano dolorose.
Dopo un po’ bruciavano, allora per trovare un riparo arrotolavo la tunica sotto le ginocchia così per un po’ il dolore passava.
Il Parroco se ne accorgeva dei vari spostamenti e movimenti e sommessamente ci invitava a stare fermi.
Tra i chierichetti mi feci notare per la serietà ed allora mi chiamavano soprattutto per i funerali, mentre quelli più vecchi e forse anche un tantino più furbi preferivano i matrimoni.
Chissà perché!
Tra i chierichetti c’era sempre qualche monello.
Qualche carboncino destinato al turibolo prendeva qualche altra strada e poi lo si usava per accendere il fuoco o per bruciare le barbe del granoturco o i semi del fenocio che davano un certo aroma di anice.
Il Parroco però ci diceva, che il chierichetto doveva essere sempre irreprensibile e studioso ed allora invece che mandarci in gita premio, ci mandava a fare gli esercizi spirituali a Villa Immacolata a Torreglia.

Ci andai anch’io, ancora molto piccolo così scoprii cosa fossero questi esercizi spirituali:

silenzio, raccoglimento, preghiera, poco gioco, nessun pallone, meditazione al mattino, meditazione al pomeriggio, silenzio assoluto dopo la cena.
La Messa tutti i giorni poi l’istruzione dei chierichetti per gruppi.
Anche se non si poteva parlare tuttavia conobbi lo stesso un mio coetaneo di una Parrocchia vicina e facemmo subito amicizia perché mi era parso subito molto sveglio.
Mi confidò infatti che nella sua Parrocchia dopo la Messa degli sposi lui andava dai compari degli sposi li salutava e tra un saluto e l’altro diceva loro:
“La settimana scorsa abbiamo fatto un bel matrimonio, ma così bello che ci hanno anche dato una mancia per i chierichetti!”
In genere l’allusione funzionava e subito, anche i nuovi compari, gli sganciavano una bella mancia, che lui raccoglieva diligentemente in una musina per fare una bella gita a fine anno.
Dopo la meditazione sul finire degli esercizi spirituali venne anche la confessione.
Andai a confessarmi da un prete che non conoscevo.

Si dimostrò subito molto severo ed austero.

Come penitenza, dopo la confessione, non mi prescrisse come faceva di solito il mio Parroco di recitare delle preghiere, ma di mettere una manciata di fagioli nelle scarpe e di camminare il giorno dopo con i fagioli dentro alle scarpe.
Mi consegnò infatti un sacchettino piccolissimo con dentro una decina di fagiolini bianchi con l’occhio nero.
Misi i fagioli nelle scarpe come mi aveva detto e poi non riuscivo più a correre perché mi facevano male le piante dei piedi lungo le stradine in salita della Villa Immacolata.
Incontrai il mio nuovo amico e vidi che lui camminava invece spedito e correva senza problemi.
Lo chiamai e gli dissi sottovoce, perché si doveva stare in silenzio:
“Sono andato a confessarmi ed il prete mi ha dato un sacchettino di fagioli da mettere come penitenza nelle scarpe!”
“Anche a me ha dato la stessa penitenza,” mi disse l’amico, “ed anch’io ho messo i fagioli nelle scarpe!”

Ed allora io replicai tutto stupito:

“Come mai tu corri senza problemi ed io ho un male boia alle piante dei piedi?” gli chiesi molto stupito.
E Lui mi rispose sorridendo:
“I fasoi non mi fanno male ai piedi, perché io ieri sera li ho messi a bagno in una tazza di acqua calda.
Il confessore non mi ha detto, infatti, che i fagioli dovevano essere secchi o bagnati e io prima di metterli nelle scarpe li ho messi a bagno.”
Rimasi molto colpito dalla furbata e dissi tra me questo amico si toglie facilmente dai problemi.
Beh stenterete a credere, poi ci perdemmo di vista, ma questo compagno di esercizi spirituali divenne in seguito Direttore di Banca e le rare volte, che andavo nella sua agenzia dicevo a gran voce:
“Direttore mi fanno male i piedi!” e lui replicava:
“Acqua calda e fasoi!”

Brano senza Autore, tratto dal Web

Informazione, prego!

Informazione, prego!

Quando ero bambino, mio padre ebbe il primo telefono del paesino dove vivevamo.
Mi ricordo bene la vecchia scatola di legno, bella lucida, fissata al muro e il bel ricevitore nero, bello lucido, appeso al suo fianco.
Ero troppo piccolo per giungere fino al telefono, ma ero abituato ad ascoltare estasiato mia madre parlargli.
Più tardi, ho scoperto che da qualche parte, dentro quel meraviglioso apparecchio, viveva una persona fantastica…
Il suo nome era “Informazione, prego!” e non c’era nulla che non sapesse
“Informazione, prego!” poteva fornire il numero di chiunque in più dell’ora esatta.
La mia prima esperienza personale con quel “genio della lampada” accadde un giorno quando mia madre si era recata da una vicina:

“Stavo giocando in cantina e diedi un forte colpo di martello su un dito.

Il dolore era tremendo, ma non mi sembrava utile che mi mettessi ad urlare.
Ero da solo e non c’era nessuno per potermi sentire e consolare.
Andavo avanti e indietro intorno a casa, succhiando il mio dito.
Giunsi per caso ai piedi della scalinata.
Il telefono!
Di fretta, corsi in cucina, presi il piccolo sgabello e lo trascinai fin sotto il telefono.
Dopo essere salito, sganciai il ricevitore e lo avvicinai all’orecchio.
“Informazione, prego!” dissi nel microfono, lì, un po’ sopra la mia testa.
Un clic, o forse due… e sentii una vocina chiara dirmi:

“Informazione!”

“Mi sono fatto male al dito!” dissi quindi, “Mi sono fatto male al dito!”
“Stai sanguinando?” mi chiese la voce.
Gli risposi:
“No, mi sono colpito un dito con un martello e mi fa tanto male!”
Mi chiese:
“Puoi aprire lo scomparto del ghiaccio!”
Ho riposto che, certo, potevo farlo.
“Allora, prendi un cubetto di ghiaccio e mettilo sul tuo dito!” mi disse.”
Dopo quell’esperienza ho chiamato “Informazione, prego!” per qualsiasi cosa:
“Gli chiesi di aiutarmi per la geografia, e mi ha detto dove si trovava Montréal.
Mi ha aiutato anche per i compiti di matematica.
Mi ha detto che il piccolo scoiattolo, che avevo trovato nel parco il giorno prima, doveva mangiare della frutta e delle noccioline.

Un brutto giorno, il mio canarino è morto

Ho chiamato “Informazione, prego!” e gli ho raccontato la mia triste storia.
Mi ha ascoltato attentamente e mi ha detto le solite cose che dice un adulto per confortare un bambino, ma ero inconsolabile.
Allora, gli chiesi con un nodo alla gola:
“Perché gli uccelli cantano così melodiosamente e recano tanta gioia alle famiglie, solo per finire miseramente come un mucchietto di piume in fondo ad una gabbia?”
Probabilmente ha percepito la mia profonda disperazione e mi ha detto, con voce molto rassicurante:
“Paul, ricordati che c’è un altro mondo dove si può cantare!”
In un certo senso mi sono sentito meglio.”
Un’altra volta chiamai di nuovo: “Informazione, prego!”
“Informazione!” mi rispose la voce, ormai diventata così familiare.
Gli chiesi:
“Come si scrive la parola riparazione!” ”
Tutto questo si svolse nella citta di Québec, in quel tempo avevo 9 anni.
Poi, traslocammo nell’altra parte della provincia, a Baie-Comeau.

La mia amica mi mancava da morire.

“Informazione, prego!” apparteneva a quella cassetta di legno del casolare di famiglia, e, stranamente, non ho mai pensato di utilizzare il nuovo telefono, appoggiato su un tavolo nel corridoio dell’ingresso!
Giunto nell’adolescenza, i ricordi di quelle conversazioni nella mia infanzia non mi hanno mai lasciato.
Spesso, nei momenti di dubbi e di difficoltà, mi sono ricordato di quelle sensazioni rassicuranti che avevo all’epoca.
Apprezzavo ora la pazienza, la comprensione e la gentilezza che ha avuto, per dedicare il suo tempo ad un ragazzino!
Alcuni anni dopo, mentre mi recavo al collegio, a Montréal, il mio aereo doveva fare scalo in Québec.
Avevo mezzora d’attesa prima di prendere l’altro aereo.
Ho trascorso 15 minuti al telefono con mio fratello, che vive sempre in Québec.
Poi, senza pensare veramente a quello che stavo facendo, ho pigiato su “0” e ho detto “Informazione, prego!”
Come per incanto, ho udito quella stessa vocina chiara che conoscevo benissimo:

“Informazione!”

Non avevo per niente previsto questo, ma mi è scapato di dirgli:
“Come si scrive la parola riparazione?”
Ci fu un attimo di silenzio…
Poi, udii quella voce tanto dolce rispondermi:
“Immagino che il tuo dito è guarito ormai!”
Con un misto tra la gioia e l’emozione gli ho detto:
“E quindi sempre lei! Mi chiedo se ha la minima idea di quanto è stata importante per me in tutti quegli anni trascorsi!”
“Io mi chiedo,” dice lei, “se tu sai quanto erano importanti per me le tue chiamate.
Non ho mai avuto figli ed ero sempre impaziente di ricevere le tue telefonate!”
Gli ho detto quanto spesso, ho pensato a lei nel corso degli ultimi anni e le ho chiesto se potevo richiamarla, quando tornavo a trovare mio fratello.

“Ben volentieri, puoi chiedere di Sally!” mi rispose.

Tre mesi dopo, quando mi recai di nuovo a Québec, un’altra voce mi rispose a “Informazione!” chiesi di parlare a Sally.
“Lei è un amico?” mi chiese quella voce sconosciuta.
Gli risposi:
“Sì, un vecchio amico!”
Sentii allora quella voce dirmi:
“Sono dispiaciuta di doverle dire questo, Sally lavorava solo Part-Time in questi ultimi anni perché era molto ammalata.
Ed è deceduta, ormai da cinque settimane!”
Fui molto sconcertato!
Ma prima che potessi riagganciare, mi disse ancora:
“Aspetti un instante!
Ha detto che si chiama Paul?”
Risposi di si.

“Allora, Sally a lasciato un messaggio per lei.
Lo ha scritto, nel caso che chiamasse.
Me lo lasci leggere!
Quel messaggio diceva:
“Gli dica che credo sempre che c’è un altro mondo dove si può cantare.
Saprà quello che voglio dire!”
La ho ringraziata e ho riagganciato.
Certo, sapevo quello che Sally voleva dire!”
Non sottovalutare mai l’effetto positivo che puoi avere sugli altri!

Brano senza Autore, tratto dal Web

È arrivato un mostro!

È arrivato un mostro!

Il paese di Dolceacqua era il più sereno e pacifico della terra.
Come scrivono nei loro libri gli scrittori, era un paesino davvero “ridente.”
Tutto procedeva bene finché una notte blu, per le vie deserte, si sentì uno strano “toc toc, toc toc, toc toc…”, accompagnato da un ansimare cupo e raschiante.
Solo qualche coraggioso si affacciò alla finestra.
Un bisbigliare concitato cominciò a rincorrersi dietro le persiane:
“È un forestiero!”
“Un gigante…”
“Mamma mia, quant’è brutto!”
“Ha l’aria feroce…”
“E’ un mostro! Divorerà i bambini!”

Lo sconosciuto camminava curvo sotto il peso di un grosso sacco.

Aveva gli occhi gialli, la barba irsuta e verde, le unghie lunghe e curve.
Ogni tanto era costretto a fermarsi per soffiarsi il naso:
doveva avere un terribile raffreddore.
Ecco perché ansimava e tossiva come un vecchio mantice sforacchiato.
C’era, al fondo del paese, a due passi dal bosco, una profonda caverna nera.
Il mostro, non trovando niente di meglio, ci si installò.
Nell’osteria del paese si riunirono il giorno dopo tutti, anche le nonne, le mamme e i bambini.
“Io l’ho visto bene e da vicino: è terribile!”

“L’ho guardato negli occhi: fanno paura!”

“Sputa fiamme dalle narici!”
“Io ho sentito il suo ruggito: tremo ancora tutta!” gorgheggiò Maria Rosa, la più bella ragazza del paese.
Tutti i giovanotti sospirarono.
“È il diavolo!” disse una nonna.
“Ma che diavolo! È un orco mangia-uomini… poveri noi!” singhiozzò una vecchietta.
“Bhé, se mangia gli uomini, tu non dovresti preoccuparti!” sghignazzò Battista, il buffone del villaggio.
“Io l’ho visto da vicino vicino!” disse Simone, un ragazzetto di dodici anni.
“Anche io… Ero con lui.” gli fece eco la sorellina Liliana.
“Ecco, anche i bambini!” brontolò Sebastiano, il sindaco, “E dite, ditelo voi, come era quel mostro. Faceva paura, non è vero?”
“No!” disse Simone.
“Non faceva paura!” disse Liliana.

E aggiunse: “Era solo diverso da noi!”

Se ne andarono tutti a casa e, mentre camminavano in fretta per le strade silenziose, avevano una gran paura di incontrarsi faccia a faccia con il mostro.
Sbirciavano in su, verso il bosco.
Dove si intravedeva la gran bocca nera della caverna in cui era andato ad abitare il mostro.
Proprio in quel momento, ingigantito dall’eco della caverna, si udì un tremendo, roboante starnuto.
“È il mostro! Aiuto!” e strillando a più non posso tutti si rifugiarono in casa e chiusero a tripla mandata tutte le serrature che trovarono.
Le mamme rimboccarono le coperte ai bambini:
“Non abbiate paura, qui siamo al sicuro!”
I papà chiusero le finestre e misero un robusto randello dietro alla porta.
“Se osa venire da queste parti, dovrà vedersela con noi.”

Nei giorni seguenti, a Dolceacqua, la vita riprese normalmente.

I papà e le mamme al lavoro, i bambini a scuola, Maria Rosa davanti allo specchio a mettere i bigodini ai suoi bei capelli color del grano.
I giovanotti la sbirciavano e sospiravano.
Quasi tutti si erano dimenticati del mostro, che, a onor del vero, non dava fastidio a nessuno.
Solo, ogni tanto, si udiva un rumore terribile.
La gente diceva:
“Ma guarda, il mostro ha starnutito, si è di nuovo raffreddato!” e tornavano alle loro occupazioni.
Un giorno un camion carico di mattoni passò troppo velocemente su una buca della strada e perse due mattoni.
Tommaso, un ragazzino che passava di là, si fermo e ne raccolse uno.
Samuele, un suo amico che usciva dalla scuola, dove si era fermato a finire i compiti, lo vide.
“Ehi, Tom! Che cosa vuoi fare con quel mattone?”
“Ho voglia di andare a tirarlo sulla testa del mostro che abita la caverna nera.
Non abbiamo bisogno di mostri in questo paese!”

Samuele replicò ridendo:

“Scommettiamo che non hai il coraggio?”
Ma Tommaso se ne andava tutto impettito con il suo mattone in mano.
Samuele raccolse l’altro mattone:
“È vero, non abbiamo bisogno di quel mostro, qui.
Aspettami, Tom, vengo con te!”
Tommaso disse:
“D’accordo, ma l’idea è stata mia e sono io che tirerò il primo mattone!”
Un contadino appoggiato alla staccionata del suo prato li vide passare:
“Dove andate?”
Tommaso spiegò:
“Andiamo a buttare questi mattoni sulla testa del mostro che abita lassù, nella caverna nera!”
Il contadino disse:
“Per me non avrete il coraggio.
E poi, come farete a far uscire il mostro dalla caverna?
È sempre rintanato dentro e lo si sente solo starnutire qualche volta!”

“Griderò:

“Vieni fuori, mostro!
Dovrà ben uscire!” dichiarò Tommaso.
Il contadino borbottò:
“Aspettate un attimo, ho un mattone che mi serve a tener aperta la porta; lo prendo e vengo con voi. Non abbiamo bisogno di mostri qui!”
Tommaso, Samuele e il contadino se ne andarono insieme con un mattone sotto il braccio. Passarono accanto all’orto della signora Zucchini.
“Dove andate?” chiese la signora Zucchini quando li vide.
“Andiamo a gettare questi mattoni sulla testa del mostro che abita nella caverna nera!” rispose Tommaso.
La signora Zucchini sogghignò:
“Non ne avrete il coraggio.
Dicono che sia orribile e peloso.
E poi, dopotutto, non dà fastidio a nessuno!”
Tommaso e Samuele protestarono:
“Non importa, non abbiamo bisogno di un mostro qui!”
“Scapperà come un coniglio e noi diventeremo gli eroi del paese!” aggiunse il contadino.
“Vengo anch’io!” decise la signora Zucchini, “Ho qualche mattone in un angolo; chiamerò anche i miei sette figli:

voglio che anche loro siano degli eroi!”

Quando i sette bambini arrivarono, il più grande domandò:
“Non c’è nessuno che voglia abitare nella caverna nera:
perché non la lasciamo al mostro?”
La madre gli rispose:
“Perché è un mostro, tutto qui.
Allora taci, prendi un mattone e seguici!”
Piano piano si formò una lunga coda di gente con un mattone in mano.
Chiudeva la fila il maestro con tutti i bambini della scuola.
Il sindaco ordinò che tutti gli abitanti di Dolceacqua prendessero un mattone dal vicino cantiere e si mettessero in marcia per tirarlo sulla testa del mostro che abitava nella caverna nera.
“Lo faremo scappare nel paese vicino!” gridò la signora Zucchini, “L’abbiamo tenuto abbastanza, noi!
Che vada a disturbare gli altri, adesso!”
Tutti gridarono:
“Urrà, bene!
Non abbiamo bisogno di mostri in questo paese!”

E si misero in marcia verso la caverna nera.

Proprio quel giorno, il mostro aveva deciso di pigrottare un po’ di più a letto e di terminare il suo libro preferito, facendo colazione con succo d’arancia e due uova al tegamino.
Improvvisamente sentì un rumore di passi e il vociare di persone che si avvicinavano e pensò: “Finalmente una visita!
È tanto tempo che sono solo!”
Saltò giù dal letto, si mise una camicia pulita e la cravatta, si lavò ben bene anche dietro le orecchie e si pulì i denti con spazzolino e dentifricio.
Poi aprì la porta e uscì, salutando tutti con un gran sorriso.
Tutti gli abitanti di Dolceacqua si fermarono impietriti:
Tommaso, Samuele, il contadino, la signora Zucchini e i suoi sette figli, i vicini, il sindaco, il maestro e i bambini della scuola.
Sembravano delle belle statuine.
Il mostro sorrise ancora e li invitò:
“Entrate, entrate.
Ho appena fatto il caffè!”

Tutti i suoi denti brillavano, ne aveva tanti e molto appuntiti.

Il mostro insisteva: “Entrate, per piacere, sono così contento di vedervi!”
Ma nessuno capiva la lingua del mostro.
Sentivano solo dei terribili grugniti e dei suoni che facevano accapponare la pelle.
Lasciarono cadere i mattoni e se la diedero a gambe, correndo a più non posso.
Nella confusione la piccola Liliana si prese una brutta storta alla caviglia, ma nessuno senti il suo “Ahia!”
Erano tutti troppo occupati a fuggire.
Così il mostro si trovò, un po’ imbarazzato, a contemplare un mucchio di mattoni e una bambina con i lacrimoni perché aveva male alla caviglia.
Il mostro corse in casa e prese la valigetta del pronto soccorso.
In quattro e quattr’otto, spalmò sulla caviglia di Liliana la pomata “Baciodimamma” che fa guarire tutto, la fasciò con cura e asciugò le lacrime della bambina.
Intanto gli abitanti erano arrivati ansimanti nella piazza centrale.
Non ebbero tempo di riprendere fiato.

Una voce gridò:

“Il mostro ha preso Liliana!”
“Se la mangerà!” strillò la signora Zucchini.
“Corriamo a liberarla!” disse un coraggioso.
Ripresero tutti la strada della caverna nera.
Ben decisi stavolta a liberare la piccola Liliana.
Quando arrivarono trovarono il mostro e Liliana che giocavano a dama, ridendo, scherzando e bevendo una cioccolata calda dal profumo delizioso.
“Ooooh!” dissero tutti insieme.
“Ah! Siete tornati, meno male!” disse il mostro, “Non ero riuscito a ringraziarvi del vostro splendido regalo.
La caverna è umida e malsana e perciò sono sempre raffreddato.
Con i mattoni che mi avete portato mi costruirò una bella casetta.
Grazie, davvero, di cuore!”
Chissà come, questa volta la gente capì il discorso del mostro.
E lo aiutarono tutti a costruire una graziosa casetta in fondo al paese.
Il più felice era Tommaso, che alla fine disse:
“Avete visto che ho fatto uscire il mostro dalla caverna nera?”

Brano tratto dal libro “Nuove storie. Per la scuola e la catechesi.” di Bruno Ferrero

Il piccolo re solitario

Il piccolo re solitario

Lontano, lontano da qui, in un mare dal nome strano, c’era una piccola isola, con le spiagge bianche e le colline verdi.
Sull’isola c’era un castello e nel castello viveva un piccolo re.
Era un re abbastanza strano, perché non aveva sudditi.
Nemmeno uno.
Ogni mattina il piccolo re, dopo aver sbadigliato ed essersi stiracchiato, si lavava le orecchie e si spazzolava i denti; poi si calcava in testa la corona e cominciava la sua giornata.
Se splendeva il sole, il piccolo re correva sulla spiaggia a fare sport.
Era un grande sportivo.

Deteneva infatti tutti i record del regno:

da quello dei cento metri di corsa sulla sabbia, al lancio della pietra, a tutte le specialità di nuoto, eccetto lo sci acquatico, perché non trovava nessuno che guidasse il reale motoscafo.
E dopo ogni gara, il re si premiava con la medaglia d’oro.
Ne aveva ormai tre stanze piene.
Ogni volta che si appuntava la medaglia sul petto, si rispondeva con garbo:
“Grazie, maestà!”
Nel castello c’era una biblioteca, e gli scaffali erano pieni di libri.
Al re piacevano molto i fumetti d’avventure.
Un po’ meno le fiabe, perché nelle fiabe tutti i re avevano dei sudditi.

“E io neanche uno!” si diceva il re, “Ma come dice il proverbio:

è meglio essere soli che male accompagnati.”
E quando faceva i compiti, si dava sempre dei bellissimi voti.
“Con i complimenti di sua maestà!” si dichiarava.
Una sera, però, sentì un certo nonsoché che lo rendeva malinconico; camminò fino alla spiaggia, deciso a cercare qualche suddito, e pensava:
“Se solo avessi cento sudditi!”
Allora proseguì sulla spiaggia verso destra, ma la riva era completamente deserta.
“Se solo avessi cinquanta sudditi!” disse il re; tornò indietro e camminò sulla spiaggia verso sinistra fino a che poté, ma la riva era ugualmente deserta.
Il re si sedette su uno scoglio ed era un po’ triste; e di conseguenza non si accorse nemmeno che quella sera c’era un magnifico tramonto.

“Se solo avessi dieci sudditi, probabilmente sarei più felice!”

Notò lontano sul mare alcuni pescatori sulle loro barche e si rallegrò.
“Sudditi,” gridò il re, “sudditi, da questa parte, ecco il re, urrà!”
Ma i pescatori non lo sentirono, e tutto quel gridare rese rauco il re.
Tornò a casa e scivolò sotto la sua bella trapunta colorata; si addormentò e sognò un milione di sudditi che gridavano “urrà” nel momento in cui lo vedevano.
Non dormì a lungo.
Un vociare forte e disordinato lo svegliò.
Il piccolo re non aveva sudditi, ma aveva dei nemici accaniti.

Erano i pirati del terribile Barbarossa.

Sembravano sbucare dall’orizzonte, con la loro nave irta di cannoni, con i loro baffi spioventi e il ghigno feroce, e i coltellacci fra i denti.
“All’arrembaggio!” gridava Barbarossa, il più feroce di tutti.
E i trentotto pirati entravano urlando nel castello e facevano man bassa di tutto quello che trovavano.
A forza di scorrerie, nel castello era rimasto ben poco di asportabile, così i pirati avevano preso l’abitudine di riportare qualcosa ogni volta per poterlo rubare nella scorreria successiva.
Il piccolo re aveva una paura tremenda dei pirati e soprattutto del crudele Barbarossa che ogni volta sbraitava:
“Se prendo il re, lo appendo all’albero della nave!”
Così, quando sentiva arrivare i pirati, si nascondeva in uno dei tanti nascondigli segreti del castello. Dentro, rannicchiato nel buio, aspettava la partenza dei pirati.

Era così da tanto tempo ormai, e il piccolo re non si sentiva affatto un fifone.

“Se avessi un esercito,” pensava, “Barbarossa e la sua ciurma non la passerebbero liscia!”
Un mattino, il re si svegliò a un suono completamente nuovo.
Lo ascoltò e si rese conto che non aveva mai udito un suono simile.
“Forse sono arrivati i miei sudditi!” pensò il re, e andò ad aprire la porta.
Sul gradino della porta sedeva un enorme gatto arancione.
“Buongiorno,” disse il re con grande dignità, “io sono il re, urrà!”
“E io sono il gatto!” disse il gatto.

“Tu sei mio suddito!” disse il re.

“Lasciami entrare,” ribatté il gatto, “ho fame e ho freddo!”
Il re lasciò entrare il gatto nella sua casa, e il gatto fece un giro intorno e vide quanto era grande e confortevole:
“Che bellissima casa hai!”
“Sì, non è male!” disse il re; e improvvisamente si accorse di tutte le cose che non aveva mai visto in molti anni.
“E’ perché io sono il re!” disse il re; ed era molto soddisfatto.
“Io resterò qui!” decise il gatto, e si sistemò nella casa per vivere con il re; e il re fu felice perché ora aveva finalmente un suddito.
“Dammi del cibo!” disse il gatto, e il re corse via immediatamente per andare a prendere cibo per il gatto.
“Fammi un letto!” disse il gatto; e il re corse alla ricerca di una trapunta e di un cuscino.
“Ho freddo!” disse il gatto; e il re accese un fuoco affinché il gatto potesse scaldarsi.

“Ecco fatto, signor Suddito!” disse il re al gatto.

E il gatto rispose: “Grazie, signor Re!”
E il re non notò neppure che, sebbene fosse il re, serviva il gatto.
Il tempo passava e il re era felice in compagnia del gatto, e il gatto mostrava al re ogni cosa che il re nella sua solitudine era riuscito a dimenticare:
il tramonto, la rugiada del mattino, le conchiglie colorate e la luna che scivolava attraverso il cielo come la barca dei pescatori sul mare.
Qualche volta accadeva al re di passare davanti a uno specchio, e quando vedeva la sua immagine diceva:
“Il re, urrà.”
E si salutava.

Non era più il campione assoluto dell’isola.

Il gatto lo batteva nel salto in alto, in lungo e nell’arrampicata sugli alberi; ma il re continuava a eccellere nel nuoto e nel lancio della pietra.
Un mattino, il re sentì bussare alla porta del castello.
Corse ad aprire, pensando:
“Arrivano i sudditi!”
Si trovò davanti un piccoletto con la faccia allegra.
Era un pinguino, con la camicia bianca e il frac di un bel nero lucente.
“Buongiorno,” disse il re con grande dignità, “io sono il re, urrà.”
“E io sono un pinguino!” disse il pinguino.
“Tu sei mio suddito!” disse il re.

“Lasciami entrare,” ribatté il pinguino, “ho fame e ho i piedi congelati.

Sono stufo di abitare su un iceberg!”
Il re lasciò entrare il pinguino nella sua casa e gli presentò il gatto, che fu molto felice di fare conoscenza con il pinguino.
“Penso che mi fermerò qui con voi.” disse il pinguino.
Il re ne fu felicissimo.
Adesso aveva due sudditi.
Corse a preparare una buona cenetta per il pinguino, mentre il gatto portava al nuovo ospite due soffici pantofole.
“Io farò il maggiordomo.
Mi ci sento portato!” dichiarò il pinguino, “Terrò in ordine il castello e servirò gli aperitivi in terrazza!”

Così furono in tre a guardare i tramonti.

Ed era ancora meglio che in due.
Il re non vinceva più molte gare sportive, perché il pinguino lo batteva nel nuoto e nei tuffi.
Scoprì, sorprendentemente, che si può essere contenti anche se non si vince sempre.
Ma una sera, lontano all’orizzonte, apparve la nave del pirata Barbarossa.
“Presto scappiamo a nasconderci!” gridò il re.
“Neanche per sogno!” disse il gatto, “Siamo in tre e possiamo battere quei prepotenti!”
“Certo!” ribatté il pinguino, “Basta avere un piano!”
“Nell’armeria del castello c’è l’armatura del gigante Latus!” disse il re.
“Bene!” disse il gatto, “Ci infileremo nell’armatura e affronteremo i pirati!”
“Il gatto si metterà sulle mie spalle, e il re sul gatto, così potrà brandire la spada.” continuò il pinguino.

“Approvo il piano!” concluse il re.

Così fecero.
Quando approdarono alla spiaggia, i pirati rimasero paralizzati dalla sorpresa.
Verso di loro, a grandi passi ondeggianti, avanzava un gigante che brandiva un enorme e minaccioso spadone.
“È tornato il gigante Latus!” gridarono, “Si salvi chi può!”
E si buttarono in acqua per raggiungere la nave.
Da allora nessuno li vide mai più.
Sulla spiaggia dell’isola il piccolo re, il gatto e il pinguino si abbracciarono ridendo.
Poi il gatto e il pinguino sollevarono il re e lo gettarono in aria gridando:
“Re è il migliore amico che c’è, urrà!”

Brano tratto dal libro “Nuove storie. Per la scuola e la catechesi.” di Bruno Ferrero

Un giorno un giovane ragazzino chiese a suo nonno…


Un giorno un giovane ragazzino chiese a suo nonno

Un giorno un giovane ragazzino chiese a suo nonno:
“Nonno, come hai potuto vivere prima senza tecnologia, senza internet, senza computer, senza droni, senza bitcoin, senza telefoni cellulari, senza Facebook e senza gli altri social network?”
Il nonno rispose:
“Proprio come la tua generazione vive oggi, senza umanità, senza dignità, senza compassione, senza vergogna, senza onore, senza rispetto, senza personalità, senza carattere, senza amore e senza modestia.
Noi, oggi che voi ci chiamate “vecchi”, siamo stati benedetti, la nostra vita è la prova.

In bicicletta non abbiamo mai usato il casco.

Dopo la scuola, abbiamo fatto i compiti da soli e siamo sempre andati a giocare nei prati fino al tramonto.
Abbiamo giocato con amici veri, non con amici su Internet.
Se mai abbiamo avuto sete, abbiamo bevuto acqua dalla fontanella, non dall’acqua in bottiglia.
Non ci siamo mai ammalati ad usare lo stesso bicchiere con i nostri amici.
Non siamo mai ingrassati mangiando pane e pasta tutti i giorni.

Non è successo niente ai nostri piedi nonostante camminassimo scalzi.

Non abbiamo mai usato integratori per mantenerci sani.
Abbiamo creato con le nostre mani i nostri giocattoli e giocato con loro.
I nostri genitori non erano ricchi ma ci hanno dato tanto amore, non video giochi per tenerci buoni.
Non abbiamo mai avuto telefoni cellulari, DVD, Play Station, Xbox, videogiochi, personal computer, internet… ma, abbiamo avuto veri amici.
Abbiamo visitato la casa dei nostri amici senza essere stati invitati e ci siamo goduti con loro pane e olio a merenda.

I membri adulti della famiglia vivevano nelle vicinanze per godersi il tempo tra di loro.

Potremmo essere stati in foto in bianco e nero, ma troviamo ricordi molto colorati in quelle foto.
Siamo una generazione unica e più comprensiva, perché siamo l’ultima generazione che ha ascoltato i loro genitori… ed anche la prima che ha dovuto ascoltare i propri figli.
Siamo un’edizione limitata!
Godeteci e fatene tesoro.

Brano senza Autore, tratto dal Web