Beniamino

Beniamino

Beniamino era un bambino delizioso.
Quando sgambettava nella culla, in mezzo alle lenzuoline e le coperte di raso celesti, sembrava proprio un angioletto.
La mamma, il papà, le nonne e le zie non sì stancavano di vezzeggiarlo e di ripetergli tante parole dolci e carine.
La nonna materna diceva:
“Guardate che piccole graziose orecchie che ha, e come ci sentono bene!
Certamente diventerà un grande musicista!”
La nonna paterna, per non essere da meno, incalzava:
“Osservate piuttosto la sua adorabile boccuccia e come dice bene ‘nghée, ‘nghée.
Sicuramente diventerà un grande poeta!”

La zia Clotilde cinguettava:

“Macché, macché!
Sono i piedini che devono essere ammirati:
sarà un grandissimo ballerino, ve lo dico io che me ne intendo!”
A sentire tutti questi complimenti, i genitori di Beniamino esprimevano tanta soddisfazione, con il cuore gonfio d’orgoglio paterno e materno.
Beniamino cresceva un po’ capriccioso, ma papà, mamma, nonne e zie si consolavano facilmente dicendo:
“Sono tutti così, da piccoli!”
Così arrivò, anche per Beniamino, il momento di varcare, con aria baldanzosa e lo zainetto nuovo, il portone della scuola elementare.
I primi tempi furono felici.
Beniamino si comportava come tutti gli altri:
non era più gentile né più maleducato dei suoi compagni.
Ma con il passare del tempo, la situazione peggiorò.
Beniamino cominciò a trasformarsi.
Piano piano, senza che nessuno se ne accorgesse, divenne cattivo e prepotente.
Si divertiva a far cadere dalla giostra i bambini più piccoli; giocando a calcio nel cortile scalciava più gli avversari che il pallone; trovava sempre qualcuno con cui litigare.

Faceva la “spia” per farsi bello con la maestra.

“Dov’è finito il mio bell’angioletto?” si disperava la mamma di Beniamino, davanti alle note che i maestri gli scrivevano sul diario.
“Uffa!” sbuffava Beniamino, “Ce l’hanno tutti con me!”
Prometteva di migliorare, ma il giorno dopo se n’era già dimenticato.
Alla Scuola Media le cose non migliorarono.
Beniamino diventò un attaccabrighe impertinente.
Imparò a tempo di record tutte le peggiori parolacce e non si faceva certo pregare a ripeterle, specialmente sull’autobus, tanto per sembrare “più grande”.
Le mamme del quartiere minacciavano i figli:
“Guai a te se ti vedo con Beniamino:
è un ragazzaccio!”
Se qualcuno raccontava barzellette sporche, Beniamino era il primo ad ascoltare.
Se c’era da prendere in giro o canzonare qualcuno, Beniamino era del numero.

Aveva pochi amici, ma tutti della sua risma.

La loro impresa preferita era riuscire a rubacchiare qualcosa ai supermercati e poi scappare.
Anche la zia Clotilde, che pure gli voleva bene, si beccò una rispostaccia così volgare, che per il dispiacere fu costretta a mettersi a letto.
“Ma se fanno tutti così!” continuava a ripetere Beniamino, quando qualcuno lo rimproverava.
La cosa strana cominciò quando compì i quattordici anni.
E questa volta Beniamino cominciò a preoccuparsi per davvero.
Durante l’adolescenza il corpo cambia, ma lo specchio rivelava a Beniamino che in lui avvenivano dei cambiamenti inconsueti.
Le sue orecchie si allungavano sempre di più, appuntite verso l’alto, e prendevano una strana grigia pelosità.
I suoi piedi gli prudevano spesso e soprattutto non sopportavano più né calze né scarpe.
Prendevano anch’essi uno strano colorito grigiastro, finché un giorno si trasformarono in due zoccoli d’asino
Beniamino li guardò inorridito.
Ma invece di dire:
“Che cosa mi succede?” si mise a ragliare come un asino, “Ihah! Ihah!”
A quel roboante raglio, tutti i suoi parenti accorsero.
Il povero Beniamino, con le lacrime agli occhi, non sapeva spiegarsi.
“È nell’età del cambiamento di voce.” disse zia Clotilde, ma non ci credeva neppure lei.

Una cosa era certa.

Con quelle orecchie e quegli zoccoli da asino, per non parlare della voce, Beniamino non poteva tornare a scuola.
“Dobbiamo cercare un medico, il più grande che c’è.
Ti saprà certamente guarire!” disse il papà.
Cercarono sulle Pagine Gialle, ma non trovarono nessun medico specializzato nella cura di ragazzi che diventano asini.
Così un mattino freddo e nebbioso, Beniamino lasciò i suoi genitori e la sua casa.
Andava per il mondo a cercare qualcuno che lo guarisse da quella strana malattia che fa diventare animali gli uomini.
Beniamino attraversò il mondo da nord a sud e poi da est a ovest.
Interrogò dottori, stregoni, sciamani, guaritori di tutti i tipi.
Tutti erano molto gentili con lui, ma poi gli dicevano che le sue orecchie pelose erano molto utili contro il freddo, che i suoi zoccoli gli facevano risparmiare le scarpe e che la sua voce era comoda quando la nebbia era fitta fitta.
Passarono sette anni.
Beniamino ora conosceva le lacrime, apprezzava la gentilezza, sapeva quanto ferivano i rifiuti e le villanie.
Senza accorgersene, era diventato un altro.
Ma il suo problema rimaneva.
Stava per rassegnarsi al suo triste destino, quando giunse alla grande villa dei marchesi Bellaspina.
Tutti quelli che vedeva però erano in lacrime.
Piangevano il marchese e la marchesa, singhiozzavano le cameriere, gemeva il maggiordomo, uggiolavano i cani, si lamentavano i gatti.
Uno spettacolo da strappare il cuore.
In un profluvio di lacrimoni, la marchesa spiegò a Beniamino il motivo di tanto dolore:

“Ahinoi!

La nostra bella Rosalia, nostra figlia, è stata rapita.
L’ha portata via il perfido Battistone e l’ha nascosta sulla Montagna del Diavolo, dove nessuno osa salire!”
Beniamino si commosse:
“Non piangete più.
Andrò sulla montagna e la troverò!”
La Montagna del Diavolo era aspra, ma Beniamino era più che mai deciso ad affrontare il bandito.
Tendeva le sue lunghe orecchie d’asino per sentire anche il minimo rumore.
Passando davanti all’imboccatura di una grotta nera e paurosa, percepì un flebile lamento.
Coraggiosamente s’inoltrò nel nero imbuto dove svolazzavano i pipistrelli.
Ora sapeva dove si trovava Rosalia.
Il bandito aveva disseminato sul terreno della grotta taglientissimi pezzi di vetro e chiodi affilati, ma, con i suoi zoccoli d’asino, Beniamino poteva correre, mentre con la sua voce roboante gridava continuamente:
“Ihah! Ihah!”
Gridava con tutte le sue forze, sperando che Rosalia sentisse e gli rispondesse per guidarlo nei mille cunicoli della grande grotta nera.
Tendeva le sue orecchie a destra e a sinistra, finché sentì chiaramente un singhiozzo.
Sfregò un fiammifero su una pietra e vide Rosalia legata a un palo.
Com’era bella!
Beniamino la slegò, poi fece un inchino e mormorò:

“Buongiorno, madamigella, io mi chiamo Beniamino!”

In quel momento si accorse che la sua voce era una bella voce baritonale, perfettamente umana.
Aveva talmente gridato che la sua voce d’asino si era rotta.
Aveva talmente ascoltato che le sue orecchie d’asino erano cadute come foglie morte.
I suoi zoccoli si erano talmente consumati sui pezzi di vetro e sui chiodi che erano spariti.
Al loro posto c’erano due bei piedoni umani.
Al colmo della felicità, ma anche per paura di un improvviso ritorno di Battistone, Beniamino prese in braccio la bella Rosalia e fuggì più veloce che poteva, correndo con i nuovi piedi sul sentiero spianato dai suoi zoccoli.
Quando arrivò a Bellaspina tutti lo abbracciarono e baciarono.
Anche Rosalia naturalmente che, per non essere da meno, lo sposò.
Ebbero tre figli.
Il primo fu ballerino, il secondo musicista e il terzo poeta.
Perché Beniamino e Rosalia vegliarono attentamente che a nessuno di loro crescessero orecchie, zoccoli o voce d’asino.

Brano di Bruno Ferrero

Aspetta un attimo, tesoro! (Samuele e la mamma)

Aspetta un attimo, tesoro! (Samuele e la mamma)

Ultimamente la fretta ha preso il sopravvento e la mia frase più frequente è:
“Aspetta un attimo, tesoro!”
Lo dico a mio figlio mentre accudisco la sua sorellina; lo dico a mia figlia mentre aiuta suo fratello e lo dico persino al mio paziente marito.
Mi ritrovo a pronunciare questa frase in una serie infinita di circostanze.
Alcune settimane fa, mio figlio mi ha chiesto di preparargli la merenda e io, naturalmente, gli ho risposto:

“Aspetta un attimo, tesoro!”

Mi sono affrettata a finire quello che stavo facendo e poi sono corsa a preparargli la merenda.
Lui si è seduto al tavolo e ha cominciato a mangiare di gusto mentre io già pensavo di tornare a occuparmi delle mie faccende, ma poi ho deciso di prendermi una pausa e di sedermi insieme a lui.
“Grazie per avere aspettato che finissi di riporre i piatti, prima di prepararti la merenda.
Sei stato davvero molto paziente!”
Lui annuì e continuò a riempirsi la bocca di Nutella.
“Sai una cosa, Samuele, ultimamente sono davvero molto indaffarata.
Ti devo chiedere sempre di aspettare un minuto prima di soddisfare le tue richieste.
Capisci, vero, perché qualche volta devi aspettare?”

Lui mi guardò con un’espressione buffa sul viso:

“Sì!” mi dici, “Un secondo, Samuele!” così mi puoi ascoltare con tutti e due le orecchie.
Se ti parlo mentre stai facendo qualcos’altro, mi puoi sentire soltanto con un orecchio.
Ma se aspetto con pazienza poi tu mi puoi sentire meglio!” mi disse annuendo solennemente.
Rimasi di stucco.
Il mio bambino, che non aveva ancora compiuto i cinque anni, aveva già trovato una spiegazione più che plausibile alla situazione.
Capii che quando gli dicevo:
“Aspetta un secondo!” lui interpretava quella frase come una dimostrazione d’affetto.
Era come se io gli dicessi:
“Aspetta un secondo, così ti potrò rivolgere tutta la mia attenzione!” o “Quello che stai dicendo è molto importante per me, voglio sentirlo con entrambe le orecchie!”
“Samuele, hai assolutamente ragione!” gli risposi, “Ti voglio tanto bene e mi piace tanto trascorrere il mio tempo con te.
Voglio sentire quello che mi dici con entrambe le orecchie perché tu sei molto importante nella mia vita!” aggiunsi abbracciandolo forte.
Quella sera, mentre rimboccavo le coperte a Samuele, lui mi prese la faccia fra le mani e cominciò a soffiarmi prima dentro un orecchio poi dentro l’altro.
Non capii che cosa stesse facendo e gli chiesi spiegazione del suo comportamento.
“Voglio essere sicuro che le tue orecchie siano pulite, mamma!”

Mi tirò a sé e mi sussurrò:

“Volevo essere certo che mi sentissi con tutti e due le orecchie mentre ti dicevo che ti voglio bene più del mondo intero!”
Sentii le lacrime salirmi agli occhi mentre gli rispondevo:
“Oh, tesoro, ti voglio tanto bene, anch’io più del mondo intero!”
“Ed io ancora un briciolo di più!” confermò lui con la sua adorabile vocina.

Brano senza Autore

Amiche del cuore

Amiche del cuore

“Per piacere, resta!” imploravo.
Ann era la mia migliore amica, l’unica ragazzina del vicinato, e non volevo che andasse via.
Stava seduta sul mio letto, con gli occhi blu privi di espressione.
“Mi annoio!” disse arrotolandosi gli spessi riccioli rossi intorno a un dito.
Era venuta a giocare solo mezz’ ora prima.
“Per piacere, non andare!” chiesi supplichevole, “Tua mamma ha detto che potevi restare per un’ ora!”
Ann fece per alzarsi, poi vide un paio di mocassini indiani in miniatura sul mio comodino.
Con le loro perline dai colori vivaci sulla morbida pelle, quei mocassini erano la cosa che mi era più preziosa.
“Rimarrò se me li dai!” disse Ann.

Aggrottai le sopracciglia.

Non potevo immaginare di separarmi da quei mocassini.
“Ma me li ha dati la zia Reba!” protestai.
Mia zia era stata una donna bella e gentile, e io l’adoravo.
Non era mai troppo occupata per dedicarmi un po’ di tempo.
Ci inventavamo storie buffe e ridevamo tanto.
Il giorno in cui era morta, avevo pianto per ore sotto una coperta, incapace di credere che non l’avrei più rivista.
In quel momento, mentre tenevo con cura i mocassini nella mano, ero invasa dal dolce ricordo di zia Reba.
“Andiamo.” incitava Ann, “Sono la tua migliore amica!”
Come se ci fosse bisogno di ricordarmelo!
Non so che cosa mi prese, ma desideravo più di ogni altra cosa avere qualcuno che giocasse con me.
Lo volevo così tanto che porsi i mocassini ad Ann!
Dopo che li ebbe riposti in tasca, andammo in bicicletta sul vialetto per diverse volte e presto fu tempo per lei di tornare a casa.
Sconvolta per quello che avevo fatto, non avevo comunque voglia di giocare.

Quella sera sostenni di non avere fame e andai a letto senza cena.

Una volta nella mia stanza, iniziai davvero a sentire la mancanza dei mocassini!
Dopo che la mamma mi ebbe rimboccato le coperte e spento la luce, mi chiese cosa ci fosse che non andasse.
Le raccontai tra le lacrime di come avessi tradito la memoria di zia Reba e di quanto mi sentissi in colpa.
La mamma mi abbracciò con calore, ma tutto quello che mi disse fu:
“Bene, immagino che dovrai decidere cosa fare.”
Le sue parole non mi furono d’aiuto.
Sola nel buio, cercai di chiarirmi le idee.
“La legge dei bambini dice che non devi dare una cosa e poi riprendertela.” mi dicevo, “Ma è stato un affare conveniente?
Perché ho permesso ad Ann di giocare con i miei sentimenti?
Ma soprattutto, Ann è davvero la mia migliore amica?”
Decisi che cosa avrei fatto.
Mi agitai e mi rivoltai per tutta la notte, non vedendo l’ora che si facesse giorno.
A scuola, il giorno seguente, affrontai Ann.
Trassi un profondo respiro e le chiesi di rendermi i mocassini.

Sbarrò gli occhi e mi guardò a lungo.

“Per piacere!” pensavo, “Per piacere!”
“Okay.” disse infine, tirando fuori dalla tasca i mocassini, “Tanto non mi piacevano.”
Fui sopraffatta da una sensazione di sollievo.
Dopo qualche tempo io e Ann smettemmo di giocare insieme.
Scoprii nei dintorni dei bambini che non erano niente male, e spesso mi invitavano a giocare a softball.
Mi feci anche nuove amiche in altri quartieri.
Nel corso degli anni, ho avuto altre amiche del cuore.
Ma non ho più supplicato per la loro compagnia.
Sono arrivata a capire che gli amici sono persone che vogliono trascorrere il tempo con te, senza chiedere niente in cambio.

Brano di Mary Beth Olson

Domenica a Messa senza scuse

Domenica a Messa senza scuse

Una domenica, alla porta della chiesa, fu appeso questo cartello:

“Per consentire a tutti di venire in chiesa domenica prossima, abbiamo organizzato una speciale domenica “senza scuse!”

Saranno sistemati dei letti in sacrestia per tutti quelli che dicono:

“La domenica è l’unico giorno della settimana in cui posso dormire!”

Sarà allestita una speciale sezione di morbide poltrone per coloro che trovano troppo scomodi i banchi.

Un collirio sarà offerto a quelli che hanno gli occhi troppo affaticati dalla nottata alla tv.

Un elmetto d’acciaio temprato sarà regalato a tutti coloro che dicono:

“Se vado in chiesa potrebbe cadermi il tetto in testa!”

Morbide coperte saranno fornite a quelli che dicono che la chiesa è troppo fredda e ventilatori a quelli che dicono che è troppo calda.

Saranno disponibili cartelle segnapunti per coloro che vogliono fare la classifica delle persone “che vanno sempre in chiesa ma sono peggio degli altri.”

Parenti e amici saranno chiamati in soccorso delle signore che non possono, contemporaneamente, andare in chiesa e preparare il pranzo.

Verranno distribuiti dei distintivi con la scritta:

“Ho già dato!” a tutti coloro che sono preoccupati per la questua.

In una navata saranno piantati alberi e fiori per quelli che cercano Dio solo nella natura.

Dottori e infermieri si dedicheranno alle persone che si ammalano sempre e solo di domenica.

Forniremo apparecchi acustici a quelli che non riescono a sentire la predica e tappi per le orecchie per quelli che ci riescono.

La chiesa sarà addobbata contemporaneamente con le stelle di Natale e i gigli di Pasqua per quelli che l’hanno sempre e solo vista così.”

Sarà bellissimo la domenica, vivere la Messa tutti insieme, vi aspettiamo!

Brano senza Autore

E Dio creò il padre

E Dio creò il padre

Quando il buon Dio decise di creare il padre, cominciò con una struttura piuttosto alta e robusta.
Allora un angelo che era lì vicino gli chiese:
“Ma che razza di padre è questo?
Se i bambini li farai alti come un soldo di cacio, perché hai fatto il padre così grande?
Non potrà giocare con le biglie senza mettersi in ginocchio, rimboccare le coperte al suo bambino senza chinarsi e nemmeno baciarlo senza quasi piegarsi in due!”

Dio sorrise e rispose:

“È vero, ma se lo faccio piccolo come un bambino, i bambini non avranno nessuno su cui alzare lo sguardo.”
Quando poi fece le mani del padre, Dio le modellò abbastanza grandi e muscolose.
L’angelo scosse la testa e disse:
“Ma… mani così grandi non possono aprire e chiudere spille da balia, abbottonare e sbottonare bottoncini e nemmeno legare treccine o togliere una scheggia da un dito!”

Dio sorrise e disse:

“Lo so, ma sono abbastanza grandi per contenere tutto quello che c’è nelle tasche di un bambino e abbastanza piccole per poter stringere nel palmo il suo visetto.”
Dio stava creando i due più grossi piedi che si fossero mai visti, quando l’angelo sbottò:
“Non è giusto.
Credi davvero che queste due barcacce riuscirebbero a saltar fuori dal letto la mattina presto quando il bebè piange?
O a passare fra un nugolo di bambini che giocano, senza schiacciarne per lo meno due?”

Dio sorrise e rispose:

“Sta’ tranquillo, andranno benissimo.
Vedrai: serviranno a tenere in bilico un bambino che vuol giocare a cavalluccio o a scacciare i topi nella casa di campagna oppure a sfoggiare scarpe che non andrebbero bene a nessun altro.”
Dio lavorò tutta la notte, dando al padre poche parole ma una voce ferma e autorevole; occhi che vedevano tutto, eppure rimanevano calmi e tolleranti.
Infine, dopo essere rimasto un po’ soprappensiero, aggiunse un ultimo tocco:
le lacrime.
Poi si volse all’angelo e domandò:
“E adesso sei convinto che un padre possa amare quanto una madre?”

Brano di Erma Bombeck

Nobile e plebeo in mezz’ora

Nobile e plebeo in mezz’ora

Come già narrato precedentemente, in quarta elementare fui bocciato per un gatto.
I miei genitori, preoccupati per il mio futuro visto che avrei dovuto ripetere la quarta classe, mi palesarono la possibilità di andare in un collegio gestito da religiosi, aventi la nomea di essere all’avanguardia per metodi e contenuti di insegnamento.

Accettai questa proposta con grande entusiasmo.

Non ringrazierò mai abbastanza tutti coloro che incontrai nel collegio, perché ebbi una grande opportunità di recupero formativo e di riscatto, essendomi trovato molto bene.
Nell’entrarvi mi accolse il padre rettore:
una figura carismatica che mi fece delle domande amichevoli mettendomi a mio agio.

Vedendo il mio cognome mi chiese:

“Dino, sai che la particella De davanti al cognome è un segno di nobiltà?”
In paese non avevo la percezione di ricchezza e di povertà, tantomeno di nobiltà, dato che eravamo tutti contadini con lo stesso stile di vita e scoprire che potevo avere origini nobili mi fece piacere, anche se non capii appieno il significato.
Non passò mezza ora che tutto cambiò drasticamente.
Come corredo, dovevamo portarci le coperte da casa e nel prepararmi il letto nella grande camerata scoprii che gli altri avevano coperte di marca ed io, invece, di foggia militare.
Scoprii in seguito che una grande quantità di coperte erano rimaste in paese in seguito alla ritirata delle truppe tedesche dall’Italia, e per questo io ne possedevo una.

Scoprii per la prima volta di essere povero, altro che nobile.

La situazione si livellò però nelle settimane seguenti, dato che ero il solo a ricevere ogni domenica la visita dei miei parenti.
A differenza di tanti miei compagni, che erano ricchi sì, ma anche, parcheggiati nel collegio.
Nobile o plebeo, capii che la differenza la fa l’amore e, lo stemma araldico della mia famiglia visibile su Google, mi fa solo sorridere e ricordare quel giorno.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

L’alpinista e Dio

L’alpinista e Dio

Si narra che un alpinista, fortemente motivato a conquistare un’altissima vetta, iniziò la sua impresa dopo anni di preparazione.
Deciso a non spartire la gloria con alcuno, iniziò l’impresa senza compagni.
Iniziò l’ascesa ma si fece tardi, sempre più tardi, senza che egli si decidesse ad accamparsi, insistendo nell’ascesa.

Ben presto si fece buio.

La notte giunse bruscamente sulle alture della montagna e non si poteva vedere assolutamente nulla.
Tutto era tenebra, il buio regnava sovrano, la luna e le stelle erano coperte dalle nubi.
Salendo per un costone roccioso, a pochi metri dalla cima, scivolò e precipitò nel vuoto, cadendo a velocità vertiginosa.
Nella caduta, l’alpinista poteva appena vedere delle macchie scure e sperimentare la sensazione di essere risucchiato dalla forza di gravità.

Continuava a cadere…

In quegli attimi angosciosi, gli passarono per la mente gli episodi più importanti della sua vita.
Rifletteva, ormai vicino alla morte.
D’improvviso avvertì il violento strappo della lunga fune che aveva assicurato alla cintura.
In quel momento di terrore, sospeso nel vuoto, non gli rimase che gridare:
“Dio mio, aiutami!”
Improvvisamente una voce grave e profonda dal cielo gli domandò:

“Cosa vuoi che io faccia?”

“Mio Dio, salvami!” supplicò l’alpinista.
“Credi realmente che io possa salvarti?” chiese la voce.
“Sì, mio Signore. Lo credo.” replicò l’alpinista.
“Allora, recidi la corda che ti sostiene!” esclamò la voce.
Ci fu un momento di silenzio; poi l’uomo si avvinse ancora più fortemente alla corda.

Il resoconto della squadra di soccorso, afferma che l’alpinista fu trovato, ormai morto per congelamento, fortemente avvinghiato alla corda… a soli due metri dal suolo!

Brano senza Autore

È arrivato un mostro!

È arrivato un mostro!

Il paese di Dolceacqua era il più sereno e pacifico della terra.
Come scrivono nei loro libri gli scrittori, era un paesino davvero “ridente.”
Tutto procedeva bene finché una notte blu, per le vie deserte, si sentì uno strano “toc toc, toc toc, toc toc…”, accompagnato da un ansimare cupo e raschiante.
Solo qualche coraggioso si affacciò alla finestra.
Un bisbigliare concitato cominciò a rincorrersi dietro le persiane:
“È un forestiero!”
“Un gigante…”
“Mamma mia, quant’è brutto!”
“Ha l’aria feroce…”
“E’ un mostro! Divorerà i bambini!”

Lo sconosciuto camminava curvo sotto il peso di un grosso sacco.

Aveva gli occhi gialli, la barba irsuta e verde, le unghie lunghe e curve.
Ogni tanto era costretto a fermarsi per soffiarsi il naso:
doveva avere un terribile raffreddore.
Ecco perché ansimava e tossiva come un vecchio mantice sforacchiato.
C’era, al fondo del paese, a due passi dal bosco, una profonda caverna nera.
Il mostro, non trovando niente di meglio, ci si installò.
Nell’osteria del paese si riunirono il giorno dopo tutti, anche le nonne, le mamme e i bambini.
“Io l’ho visto bene e da vicino: è terribile!”

“L’ho guardato negli occhi: fanno paura!”

“Sputa fiamme dalle narici!”
“Io ho sentito il suo ruggito: tremo ancora tutta!” gorgheggiò Maria Rosa, la più bella ragazza del paese.
Tutti i giovanotti sospirarono.
“È il diavolo!” disse una nonna.
“Ma che diavolo! È un orco mangia-uomini… poveri noi!” singhiozzò una vecchietta.
“Bhé, se mangia gli uomini, tu non dovresti preoccuparti!” sghignazzò Battista, il buffone del villaggio.
“Io l’ho visto da vicino vicino!” disse Simone, un ragazzetto di dodici anni.
“Anche io… Ero con lui.” gli fece eco la sorellina Liliana.
“Ecco, anche i bambini!” brontolò Sebastiano, il sindaco, “E dite, ditelo voi, come era quel mostro. Faceva paura, non è vero?”
“No!” disse Simone.
“Non faceva paura!” disse Liliana.

E aggiunse: “Era solo diverso da noi!”

Se ne andarono tutti a casa e, mentre camminavano in fretta per le strade silenziose, avevano una gran paura di incontrarsi faccia a faccia con il mostro.
Sbirciavano in su, verso il bosco.
Dove si intravedeva la gran bocca nera della caverna in cui era andato ad abitare il mostro.
Proprio in quel momento, ingigantito dall’eco della caverna, si udì un tremendo, roboante starnuto.
“È il mostro! Aiuto!” e strillando a più non posso tutti si rifugiarono in casa e chiusero a tripla mandata tutte le serrature che trovarono.
Le mamme rimboccarono le coperte ai bambini:
“Non abbiate paura, qui siamo al sicuro!”
I papà chiusero le finestre e misero un robusto randello dietro alla porta.
“Se osa venire da queste parti, dovrà vedersela con noi.”

Nei giorni seguenti, a Dolceacqua, la vita riprese normalmente.

I papà e le mamme al lavoro, i bambini a scuola, Maria Rosa davanti allo specchio a mettere i bigodini ai suoi bei capelli color del grano.
I giovanotti la sbirciavano e sospiravano.
Quasi tutti si erano dimenticati del mostro, che, a onor del vero, non dava fastidio a nessuno.
Solo, ogni tanto, si udiva un rumore terribile.
La gente diceva:
“Ma guarda, il mostro ha starnutito, si è di nuovo raffreddato!” e tornavano alle loro occupazioni.
Un giorno un camion carico di mattoni passò troppo velocemente su una buca della strada e perse due mattoni.
Tommaso, un ragazzino che passava di là, si fermo e ne raccolse uno.
Samuele, un suo amico che usciva dalla scuola, dove si era fermato a finire i compiti, lo vide.
“Ehi, Tom! Che cosa vuoi fare con quel mattone?”
“Ho voglia di andare a tirarlo sulla testa del mostro che abita la caverna nera.
Non abbiamo bisogno di mostri in questo paese!”

Samuele replicò ridendo:

“Scommettiamo che non hai il coraggio?”
Ma Tommaso se ne andava tutto impettito con il suo mattone in mano.
Samuele raccolse l’altro mattone:
“È vero, non abbiamo bisogno di quel mostro, qui.
Aspettami, Tom, vengo con te!”
Tommaso disse:
“D’accordo, ma l’idea è stata mia e sono io che tirerò il primo mattone!”
Un contadino appoggiato alla staccionata del suo prato li vide passare:
“Dove andate?”
Tommaso spiegò:
“Andiamo a buttare questi mattoni sulla testa del mostro che abita lassù, nella caverna nera!”
Il contadino disse:
“Per me non avrete il coraggio.
E poi, come farete a far uscire il mostro dalla caverna?
È sempre rintanato dentro e lo si sente solo starnutire qualche volta!”

“Griderò:

“Vieni fuori, mostro!
Dovrà ben uscire!” dichiarò Tommaso.
Il contadino borbottò:
“Aspettate un attimo, ho un mattone che mi serve a tener aperta la porta; lo prendo e vengo con voi. Non abbiamo bisogno di mostri qui!”
Tommaso, Samuele e il contadino se ne andarono insieme con un mattone sotto il braccio. Passarono accanto all’orto della signora Zucchini.
“Dove andate?” chiese la signora Zucchini quando li vide.
“Andiamo a gettare questi mattoni sulla testa del mostro che abita nella caverna nera!” rispose Tommaso.
La signora Zucchini sogghignò:
“Non ne avrete il coraggio.
Dicono che sia orribile e peloso.
E poi, dopotutto, non dà fastidio a nessuno!”
Tommaso e Samuele protestarono:
“Non importa, non abbiamo bisogno di un mostro qui!”
“Scapperà come un coniglio e noi diventeremo gli eroi del paese!” aggiunse il contadino.
“Vengo anch’io!” decise la signora Zucchini, “Ho qualche mattone in un angolo; chiamerò anche i miei sette figli:

voglio che anche loro siano degli eroi!”

Quando i sette bambini arrivarono, il più grande domandò:
“Non c’è nessuno che voglia abitare nella caverna nera:
perché non la lasciamo al mostro?”
La madre gli rispose:
“Perché è un mostro, tutto qui.
Allora taci, prendi un mattone e seguici!”
Piano piano si formò una lunga coda di gente con un mattone in mano.
Chiudeva la fila il maestro con tutti i bambini della scuola.
Il sindaco ordinò che tutti gli abitanti di Dolceacqua prendessero un mattone dal vicino cantiere e si mettessero in marcia per tirarlo sulla testa del mostro che abitava nella caverna nera.
“Lo faremo scappare nel paese vicino!” gridò la signora Zucchini, “L’abbiamo tenuto abbastanza, noi!
Che vada a disturbare gli altri, adesso!”
Tutti gridarono:
“Urrà, bene!
Non abbiamo bisogno di mostri in questo paese!”

E si misero in marcia verso la caverna nera.

Proprio quel giorno, il mostro aveva deciso di pigrottare un po’ di più a letto e di terminare il suo libro preferito, facendo colazione con succo d’arancia e due uova al tegamino.
Improvvisamente sentì un rumore di passi e il vociare di persone che si avvicinavano e pensò: “Finalmente una visita!
È tanto tempo che sono solo!”
Saltò giù dal letto, si mise una camicia pulita e la cravatta, si lavò ben bene anche dietro le orecchie e si pulì i denti con spazzolino e dentifricio.
Poi aprì la porta e uscì, salutando tutti con un gran sorriso.
Tutti gli abitanti di Dolceacqua si fermarono impietriti:
Tommaso, Samuele, il contadino, la signora Zucchini e i suoi sette figli, i vicini, il sindaco, il maestro e i bambini della scuola.
Sembravano delle belle statuine.
Il mostro sorrise ancora e li invitò:
“Entrate, entrate.
Ho appena fatto il caffè!”

Tutti i suoi denti brillavano, ne aveva tanti e molto appuntiti.

Il mostro insisteva: “Entrate, per piacere, sono così contento di vedervi!”
Ma nessuno capiva la lingua del mostro.
Sentivano solo dei terribili grugniti e dei suoni che facevano accapponare la pelle.
Lasciarono cadere i mattoni e se la diedero a gambe, correndo a più non posso.
Nella confusione la piccola Liliana si prese una brutta storta alla caviglia, ma nessuno senti il suo “Ahia!”
Erano tutti troppo occupati a fuggire.
Così il mostro si trovò, un po’ imbarazzato, a contemplare un mucchio di mattoni e una bambina con i lacrimoni perché aveva male alla caviglia.
Il mostro corse in casa e prese la valigetta del pronto soccorso.
In quattro e quattr’otto, spalmò sulla caviglia di Liliana la pomata “Baciodimamma” che fa guarire tutto, la fasciò con cura e asciugò le lacrime della bambina.
Intanto gli abitanti erano arrivati ansimanti nella piazza centrale.
Non ebbero tempo di riprendere fiato.

Una voce gridò:

“Il mostro ha preso Liliana!”
“Se la mangerà!” strillò la signora Zucchini.
“Corriamo a liberarla!” disse un coraggioso.
Ripresero tutti la strada della caverna nera.
Ben decisi stavolta a liberare la piccola Liliana.
Quando arrivarono trovarono il mostro e Liliana che giocavano a dama, ridendo, scherzando e bevendo una cioccolata calda dal profumo delizioso.
“Ooooh!” dissero tutti insieme.
“Ah! Siete tornati, meno male!” disse il mostro, “Non ero riuscito a ringraziarvi del vostro splendido regalo.
La caverna è umida e malsana e perciò sono sempre raffreddato.
Con i mattoni che mi avete portato mi costruirò una bella casetta.
Grazie, davvero, di cuore!”
Chissà come, questa volta la gente capì il discorso del mostro.
E lo aiutarono tutti a costruire una graziosa casetta in fondo al paese.
Il più felice era Tommaso, che alla fine disse:
“Avete visto che ho fatto uscire il mostro dalla caverna nera?”

Brano tratto dal libro “Nuove storie. Per la scuola e la catechesi.” di Bruno Ferrero