Un padre premuroso (L’abbraccio dell’orso)

Un padre premuroso
(L’abbraccio dell’orso)

Un uomo molto giovane aveva appena avuto un figlio e viveva per la prima volta l’esperienza della paternità.
Nel suo cuore regnavano la gioia e l’amore, che scorrevano a fiumi dentro di lui.
Un giorno gli venne voglia di entrare in contatto con la natura perché, da quando era nato il suo bimbo, vedeva tutto bello e perfino il rumore di una foglia che cadeva gli sembrava musica.
Decise quindi di andare nel bosco per goderne tutta la bellezza e sentire il canto degli uccelli.
Camminava placidamente respirando l’umidità che c’è in quei posti quando, improvvisamente, vide un’aquila su un ramo, e fu sorpreso dalla sua bellezza.
Anche l’aquila aveva avuto la gioia di avere dei piccoli, ed aveva intenzione di arrivare fino al fiume più vicino, catturare un pesce,

e portarlo nel suo nido come cibo per i suoi aquilotti.

Era una responsabilità molto grande allevare e formare i suoi piccoli, affrontando le sfide che la vita offre.
Nel notare la presenza dell’uomo, l’aquila lo guardò e gli chiese:
“Dove vai buon uomo?
Vedo nei tuoi occhi la gioia.”
L’uomo le rispose:
“Sai mi è nato un figlio e sono venuto nel bosco perché sono felice.
D’ora in poi lo proteggerò sempre, gli darò da mangiare, e non permetterò mai che soffra il freddo.
Giorno dopo giorno lo difenderò dai nemici che avrà e non lascerò mai affrontare situazioni difficili.
Non permetterò che mio figlio abbia le stesse difficoltà che ho avuto io, non dovrà mai sforzarsi per nessuna cosa.
Come padre, sarò forte come un orso, e con la potenza delle mie braccia lo circonderò, l’abbraccerò e non permetterò mai che niente e nessuno possa turbarlo.”
L’aquila lo ascoltava attonita, senza riuscire a credere a ciò che udiva.

Poi lo guardò e gli disse:

“Ascoltami bene.
Quando la natura mi ha dato l’ordine di covare le mie uova, di costruirmi un nido, confortevole, sicuro, protetto dai predatori, mi ha detto anche di mettere dei rami con molte spine, e sai perché?
Perché quando i miei piccoli saranno forti per volare, farò sparire tutta la comodità delle piume.
Non resistendo sulle spine, si vedranno costretti a costruirsi il proprio nido.
Tutta la valle sarà per loro, a patto che realizzino con i loro sforzi l’aspirazione di conquistarla.
Se li abbracciassi, la loro aspirazione verrebbe frenata, e questo distruggerebbe in maniera irreversibile la loro individualità, ne farebbe degli individui indolenti senza coraggio di lottare, né gioia di vivere.

Prima o poi piangerei per il mio errore,

perché vedrei i miei aquilotti trasformati in ridicoli rappresentanti della loro specie, e mi riempirei di rimorso e gran vergogna nel vedere l’impossibilità di gioire per i loro trionfi.
Io, amico mio,” disse l’aquila, “amo i miei figli più d’ogni altra cosa, però non sarò mai complice della loro superficialità e immaturità!”
L’aquila tacque, poi, con maestosità si alzò in volo per perdersi all’orizzonte.
L’uomo tornandosene a casa, meditò sul terribile errore che avrebbe commesso dando a suo figlio l’abbraccio dell’orso.
Giunto a casa abbracciò il suo bimbo per alcuni secondi, poi si rese conto che il piccolo cominciava a muovere le gambe e braccia come per dimostrare il suo bisogno di libertà, senza che nessun orso protettivo lo ostacolasse.
Da quel giorno l’uomo cominciò a prepararsi per diventare il migliore dei padri.

Brano tratto dal libro “Guida per genitori; PNL con i bambini.” di Eric de la Parra Paz

Il leone, il moscerino ed il ragno

Il leone, il moscerino ed il ragno

Sulla riva del ruscello, un moscerino minuscolo si era addormentato.
Ma dal profondo della foresta arrivò un ruggito sordo e possente.
Il povero moscerino sì spaventò terribilmente.
Un grande, grosso, grasso leone alla ricerca della cena, ruggiva a pieni polmoni.
Il moscerino gridò indignato:
“Ehilà! La volete smettere?
Cos’è tutto sto trambusto?
Non potete lasciar dormire in pace la brava gente?
Che diritto avete di stare qui?”
Il leone sbuffò:
“Che diritto?
Il mio diritto!

Io sono il re della foresta.

Faccio quello che mi piace, dico quello che mi piace, mangio chi mi piace, vado dove mi piace, perché io sono il re della foresta!”
“Chi ha detto che voi siete il re?” domandò tranquillamente il moscerino.
“Chi l’ha detto?…” ruggì il leone, “Io lo dico, perché io sono il più forte e tutti hanno paura di me.”
“Ma io, tanto per fare un esempio, non ho paura di voi, quindi voi non siete re.”
“Non sono re? Ripetilo se hai coraggio!”.
“Certo, lo ripeto. E non sarete re se non vi battete contro di me e non vincete.”
“Battermi con te?” sbuffò il leone calmandosi un po’.

“Chi ha mai sentito niente di simile?

Un leone contro un moscerino?
Piccolo atomo insignificante, con un soffio ti mando in capo al mondo!”
Ma non mandò niente da nessuna parte.
Ebbe un bel soffiare e sforzarsi con tutta la forza dei polmoni.
Tutto quel che ottenne fu un moscerino che faceva l’altalena sullo stelo d’erba e gridava:
“Sono più forte di voi!
Sono io il re!”
Allora il leone perse definitivamente il senso delle proporzioni e si buttò avanti a fauci spalancate per inghiottire il moscerino, ma inghìotti solo una zolla d’erba.
E l’astuto insettino dov’era?
Proprio in una narice del leone e là cominciò a solleticarlo e punzecchiarlo.
Il leone sbatteva la testa contro gli alberi, si graffiava con i suoi unghioni, strepitava, ruggiva…
“Oh! Il mio naso!
Il mio povero naso!
Pietà!
Esci di lì!
Sei tu il re della foresta, sei tutto quello che vuoi…

Ma esci dal mio naso!” piagnucolò infine il leone.

Allora il moscerino volò fuori dalla narice del leone, che mortificato e umiliato sparì nel profondo della foresta.
Il moscerino cominciò a danzare di gioia:
“Sono il re, re, re, re!
Ho battuto un leone!
L’ho fatto scappare!
Sono il più forte e il più furbo, io!”.
A forza di saltellare, esultando, qua e là, il moscerino non si accorse di essersi avvoltolato in qualche cosa di fine, e di leggero e di forte… dei lunghi fili bianchi, quasi invisibili tra i fili d’erba e che si attorcigliavano intorno al corpo dell’insetto, legando le sue zampe e le sue ali.
Il ragno arrivò sulle sue otto zampe, borbottando:
“Che bello stuzzichino per la cena…”

Grossi o piccoli, i superbi sono sempre stupidi.

Brano tratto dal libro “Ma noi abbiamo le ali.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Ci sono persone…

Ci sono persone…

Ci sono persone che ti piacciono perché le stimi, altre perché sono intelligenti, altre perché sono belle.
Ci sono quelle di cui apprezzi l’ironia, la spontaneità, il coraggio.
Ci sono quelle che ti stupiscono con un gesto,

quelle su cui puoi contare sempre, quelle che ti insegnano qualcosa.

Ci sono persone che ti piacciono per come si muovono, per il tono della voce, perché sanno raccontare le cose.
Ci sono quelle che ti conquistano con la determinazione, con la bontà, con il talento.
Ci sono esseri umani che ti fanno commuovere,

che ti illuminano, che hanno il tuo stesso sangue.

Ci sono gli amici che scegli, quelli che ti deludono e perdoni, quelli grazie ai quali cambi, quelli per cui non cambi mai.
Ci sono persone che ti convincono, che ti sorprendono, che ti affascinano.
E poi ci sono le persone che senti.
E non necessariamente sono queste cose, forse ne sono alcune, a volte nessuna.

Magari non sono perfette, non sono infallibili e sbagliano tutto.

Eppure sono le persone che senti.
Quelle che sembra che qualcuno vi abbia sintonizzato sulla stessa frequenza radio in un tempo in cui la radio non esisteva ancora.

Brano di Luana Fruzzetti

Un cerchio nell’acqua

Un cerchio nell’acqua

Il piccolo stagno sonnecchiava perfettamente immobile nella calura estiva.
Pigramente seduto su una foglia di ninfea, un ranocchio teneva d’occhio un insetto dalle lunghe zampe che stava spensieratamente pattinando sull’acqua:
presto sarebbe stato a tiro e il ranocchio ne avrebbe fatto un solo boccone, senza tanta fatica.
Poco più in là, un altro minuscolo insetto acquatico, un ditisco,

guardava in modo struggente una graziosa ditisca:

non aveva il coraggio di dichiararle il suo amore e si accontentava di ammirarla da lontano.
Sulla riva a pochi millimetri dall’acqua un fiore piccolissimo, quasi invisibile, stava morendo di sete.
Proprio non riusciva a raggiungere l’acqua, che pure era così vicina.
Le sue radici si erano esaurite nello sforzo.
Un moscerino invece stava annegando.

Era finito in acqua per distrazione.

Ora le sue piccole ali erano appesantite e non riusciva a risollevarsi e l’acqua lo stava inghiottendo.
Un pruno selvatico allungava i suoi rami sullo stagno.
Sulla estremità del ramo più lungo, che si spingeva quasi al centro dello stagno, una bacca scura e grinzosa, giunta a piena maturazione, si staccò e piombò nello stagno.
Si udì un “pluf!” sordo, quasi indistinto, nel gran ronzio degli insetti.
Ma dal punto in cui la bacca era caduta in acqua, solenne e imperioso, come un fiore che sboccia, si allargò il primo cerchio nell’acqua.
Lo seguì il secondo, il terzo, il quarto…
L’insetto dalle lunghe zampe fu carpito dalla piccola onda e messo fuori portata dalla lingua del ranocchio.

Il ditisco fu spinto verso la ditisca e la urtò:

si chiesero scusa e si innamorarono.
Il primo cerchio sciabordò sulla riva e un fiotto d’acqua scura raggiunse il piccolo fiore che riprese a vivere.
Il secondo cerchio sollevò il moscerino e lo depositò su un filo d’erba della riva, dove le sue ali poterono asciugare.
Quante vite cambiate per qualche insignificante cerchio nell’acqua.

Brano tratto dal libro “Cerchi nell’acqua.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Saremo sempre ciò che siamo:

un intreccio di forza e coraggio, di paure e malinconie, di voglia di non mollare, di audacia e speranza.
Saremo sempre noi:

“Quei bimbi diventati grandi…” con la favola nel cuore.

Quei ragazzi diventati uomini e donne, che non smetteranno mai di amare la vita e l’amore!
Sempre, finché avremo forza di respirare.

Citazione di Raffaella Frese.

Sono invincibili, torniamo a casa!

Sono invincibili, torniamo a casa!

Castel del Porco era un piccolo maniero ove regnava la felicità e gli abitanti trascorrevano serenamente lo scorrere del tempo.
Uno sventurato giorno però, Federico dalle Tasche Vuote, decise di conquistarlo, aiutato dai suoi temibili cavalieri.

Le battaglie che seguirono furono molto aspre e i valorosi soldati del castello,

anche se in pochi, si difendevano con grande forza e coraggio.
Ma Federico era persona molto superba e non si dava per vinto, così ordinò ai suoi uomini di assediare il castello giorno e notte.
Con il passare dei giorni all’interno della fortezza i soldati diventavano sempre più deboli perché il cibo scarseggiava e la situazione appariva disperata.
L’unica cosa rimasta ancora da mangiare era un grosso porco, insufficiente per saziare tutti.

Quando ormai tutto sembrava perduto, il capitano ebbe un’idea geniale e ordinò:

“Cominciate a ridere, ballare e festeggiare.
Arrostite il porco e gettatelo già dalle mura!”
Gli uomini rimasero sbalorditi chiedendosi se il loro comandante fosse uscito di senno,

ma così fecero poiché riponevano grande fiducia in lui.

Quando Federico dalle Tasche Vuote udì i festeggiamenti e vide il porco gettato dalle mura, pensò che i suoi avversari avessero viveri ancora in abbondanza e forza per affrontare mille battaglie; così esclamò rosso dalla rabbia:
“Sono invincibili, torniamo a casa!”

Brano senza Autore, tratto dal Web

La bambola di sale

La bambola di sale

Una bambola di sale voleva ad ogni costo il mare.
Era una bambola di sale, ma non sapeva che cosa fosse il mare.
Un giorno decise di partire.
Era l’unico modo per soddisfare la sua esigenza.
Dopo un interminabile pellegrinaggio attraverso territori aridi e desolati, giunse in riva al mare e scoprì qualcosa di immenso, affascinante e misterioso nello stesso tempo.
Era l’alba, il sole cominciava a sfiorare l’acqua accendendo timidi riflessi, e la bambola non riusciva a capire.
Rimase lì impalata a lungo, solidamente piantata al suolo, la bocca aperta.
Dinanzi a lei, quell’ estensione seducente.

Si decise.

Domandò al mare:
“Dimmi chi sei?”
“Sono il mare.” rispose.
“E che cos’è il mare?” chiese la bambola di sale.
“Sono io!” rispose il mare.
“Non riesco a capire, ma lo vorrei tanto.
Spiegami che cosa posso fare.” esclamò la bambola.
“E’ semplicissimo: toccami…” disse il mare.
Allora la bambola si fece coraggio.

Mosse un passo e avanzò verso l’acqua.

Dopo parecchie esitazioni, sfiorò quella massa con un piede.
Ne ricavò una strana sensazione.
Eppure aveva l’impressione di cominciare a comprendere qualcosa.
Allorché ritrasse la gamba, si accorse che le dita dei piedi erano sparite.
Ne risultò spaventata e protestò:
“Cattivo!
Che cosa mi hai fatto?
Dove sono finite le mie dita?”
Replicò imperturbabile il mare:
“Perché ti lamenti?
Semplicemente hai offerto qualche cosa per poter capire.
Non era quello che chiedevi?

L’altra patì:

“Sì veramente, non pensavo, ma…”
Stette a riflettere un po’.
Poi avanzò decisamente nell’acqua.
E questa, progressivamente, la avvolgeva, le staccava qualcosa, dolorosamente.
Ad ogni passo, la bambola perdeva qualche frammento.
Ma più avanzava, più si sentiva impoverita di una parte di sè, e più aveva la sensazione di capire meglio.
Ma non riusciva ancora a dire cosa fosse il mare.
Cavò fuori la solita domanda:
“Che cosa è il mare?”
Un’ ultima ondata inghiottì ciò che restava di lei.
E proprio nell’ istante in cui scompariva, perduta nell’onda che la travolgeva e la portava chissà dove, la bambola esclamò:
“Sono io!”

Brano senza Autore, tratto dal Web

È arrivato un mostro!

È arrivato un mostro!

Il paese di Dolceacqua era il più sereno e pacifico della terra.
Come scrivono nei loro libri gli scrittori, era un paesino davvero “ridente.”
Tutto procedeva bene finché una notte blu, per le vie deserte, si sentì uno strano “toc toc, toc toc, toc toc…”, accompagnato da un ansimare cupo e raschiante.
Solo qualche coraggioso si affacciò alla finestra.
Un bisbigliare concitato cominciò a rincorrersi dietro le persiane:
“È un forestiero!”
“Un gigante…”
“Mamma mia, quant’è brutto!”
“Ha l’aria feroce…”
“E’ un mostro! Divorerà i bambini!”

Lo sconosciuto camminava curvo sotto il peso di un grosso sacco.

Aveva gli occhi gialli, la barba irsuta e verde, le unghie lunghe e curve.
Ogni tanto era costretto a fermarsi per soffiarsi il naso:
doveva avere un terribile raffreddore.
Ecco perché ansimava e tossiva come un vecchio mantice sforacchiato.
C’era, al fondo del paese, a due passi dal bosco, una profonda caverna nera.
Il mostro, non trovando niente di meglio, ci si installò.
Nell’osteria del paese si riunirono il giorno dopo tutti, anche le nonne, le mamme e i bambini.
“Io l’ho visto bene e da vicino: è terribile!”

“L’ho guardato negli occhi: fanno paura!”

“Sputa fiamme dalle narici!”
“Io ho sentito il suo ruggito: tremo ancora tutta!” gorgheggiò Maria Rosa, la più bella ragazza del paese.
Tutti i giovanotti sospirarono.
“È il diavolo!” disse una nonna.
“Ma che diavolo! È un orco mangia-uomini… poveri noi!” singhiozzò una vecchietta.
“Bhé, se mangia gli uomini, tu non dovresti preoccuparti!” sghignazzò Battista, il buffone del villaggio.
“Io l’ho visto da vicino vicino!” disse Simone, un ragazzetto di dodici anni.
“Anche io… Ero con lui.” gli fece eco la sorellina Liliana.
“Ecco, anche i bambini!” brontolò Sebastiano, il sindaco, “E dite, ditelo voi, come era quel mostro. Faceva paura, non è vero?”
“No!” disse Simone.
“Non faceva paura!” disse Liliana.

E aggiunse: “Era solo diverso da noi!”

Se ne andarono tutti a casa e, mentre camminavano in fretta per le strade silenziose, avevano una gran paura di incontrarsi faccia a faccia con il mostro.
Sbirciavano in su, verso il bosco.
Dove si intravedeva la gran bocca nera della caverna in cui era andato ad abitare il mostro.
Proprio in quel momento, ingigantito dall’eco della caverna, si udì un tremendo, roboante starnuto.
“È il mostro! Aiuto!” e strillando a più non posso tutti si rifugiarono in casa e chiusero a tripla mandata tutte le serrature che trovarono.
Le mamme rimboccarono le coperte ai bambini:
“Non abbiate paura, qui siamo al sicuro!”
I papà chiusero le finestre e misero un robusto randello dietro alla porta.
“Se osa venire da queste parti, dovrà vedersela con noi.”

Nei giorni seguenti, a Dolceacqua, la vita riprese normalmente.

I papà e le mamme al lavoro, i bambini a scuola, Maria Rosa davanti allo specchio a mettere i bigodini ai suoi bei capelli color del grano.
I giovanotti la sbirciavano e sospiravano.
Quasi tutti si erano dimenticati del mostro, che, a onor del vero, non dava fastidio a nessuno.
Solo, ogni tanto, si udiva un rumore terribile.
La gente diceva:
“Ma guarda, il mostro ha starnutito, si è di nuovo raffreddato!” e tornavano alle loro occupazioni.
Un giorno un camion carico di mattoni passò troppo velocemente su una buca della strada e perse due mattoni.
Tommaso, un ragazzino che passava di là, si fermo e ne raccolse uno.
Samuele, un suo amico che usciva dalla scuola, dove si era fermato a finire i compiti, lo vide.
“Ehi, Tom! Che cosa vuoi fare con quel mattone?”
“Ho voglia di andare a tirarlo sulla testa del mostro che abita la caverna nera.
Non abbiamo bisogno di mostri in questo paese!”

Samuele replicò ridendo:

“Scommettiamo che non hai il coraggio?”
Ma Tommaso se ne andava tutto impettito con il suo mattone in mano.
Samuele raccolse l’altro mattone:
“È vero, non abbiamo bisogno di quel mostro, qui.
Aspettami, Tom, vengo con te!”
Tommaso disse:
“D’accordo, ma l’idea è stata mia e sono io che tirerò il primo mattone!”
Un contadino appoggiato alla staccionata del suo prato li vide passare:
“Dove andate?”
Tommaso spiegò:
“Andiamo a buttare questi mattoni sulla testa del mostro che abita lassù, nella caverna nera!”
Il contadino disse:
“Per me non avrete il coraggio.
E poi, come farete a far uscire il mostro dalla caverna?
È sempre rintanato dentro e lo si sente solo starnutire qualche volta!”

“Griderò:

“Vieni fuori, mostro!
Dovrà ben uscire!” dichiarò Tommaso.
Il contadino borbottò:
“Aspettate un attimo, ho un mattone che mi serve a tener aperta la porta; lo prendo e vengo con voi. Non abbiamo bisogno di mostri qui!”
Tommaso, Samuele e il contadino se ne andarono insieme con un mattone sotto il braccio. Passarono accanto all’orto della signora Zucchini.
“Dove andate?” chiese la signora Zucchini quando li vide.
“Andiamo a gettare questi mattoni sulla testa del mostro che abita nella caverna nera!” rispose Tommaso.
La signora Zucchini sogghignò:
“Non ne avrete il coraggio.
Dicono che sia orribile e peloso.
E poi, dopotutto, non dà fastidio a nessuno!”
Tommaso e Samuele protestarono:
“Non importa, non abbiamo bisogno di un mostro qui!”
“Scapperà come un coniglio e noi diventeremo gli eroi del paese!” aggiunse il contadino.
“Vengo anch’io!” decise la signora Zucchini, “Ho qualche mattone in un angolo; chiamerò anche i miei sette figli:

voglio che anche loro siano degli eroi!”

Quando i sette bambini arrivarono, il più grande domandò:
“Non c’è nessuno che voglia abitare nella caverna nera:
perché non la lasciamo al mostro?”
La madre gli rispose:
“Perché è un mostro, tutto qui.
Allora taci, prendi un mattone e seguici!”
Piano piano si formò una lunga coda di gente con un mattone in mano.
Chiudeva la fila il maestro con tutti i bambini della scuola.
Il sindaco ordinò che tutti gli abitanti di Dolceacqua prendessero un mattone dal vicino cantiere e si mettessero in marcia per tirarlo sulla testa del mostro che abitava nella caverna nera.
“Lo faremo scappare nel paese vicino!” gridò la signora Zucchini, “L’abbiamo tenuto abbastanza, noi!
Che vada a disturbare gli altri, adesso!”
Tutti gridarono:
“Urrà, bene!
Non abbiamo bisogno di mostri in questo paese!”

E si misero in marcia verso la caverna nera.

Proprio quel giorno, il mostro aveva deciso di pigrottare un po’ di più a letto e di terminare il suo libro preferito, facendo colazione con succo d’arancia e due uova al tegamino.
Improvvisamente sentì un rumore di passi e il vociare di persone che si avvicinavano e pensò: “Finalmente una visita!
È tanto tempo che sono solo!”
Saltò giù dal letto, si mise una camicia pulita e la cravatta, si lavò ben bene anche dietro le orecchie e si pulì i denti con spazzolino e dentifricio.
Poi aprì la porta e uscì, salutando tutti con un gran sorriso.
Tutti gli abitanti di Dolceacqua si fermarono impietriti:
Tommaso, Samuele, il contadino, la signora Zucchini e i suoi sette figli, i vicini, il sindaco, il maestro e i bambini della scuola.
Sembravano delle belle statuine.
Il mostro sorrise ancora e li invitò:
“Entrate, entrate.
Ho appena fatto il caffè!”

Tutti i suoi denti brillavano, ne aveva tanti e molto appuntiti.

Il mostro insisteva: “Entrate, per piacere, sono così contento di vedervi!”
Ma nessuno capiva la lingua del mostro.
Sentivano solo dei terribili grugniti e dei suoni che facevano accapponare la pelle.
Lasciarono cadere i mattoni e se la diedero a gambe, correndo a più non posso.
Nella confusione la piccola Liliana si prese una brutta storta alla caviglia, ma nessuno senti il suo “Ahia!”
Erano tutti troppo occupati a fuggire.
Così il mostro si trovò, un po’ imbarazzato, a contemplare un mucchio di mattoni e una bambina con i lacrimoni perché aveva male alla caviglia.
Il mostro corse in casa e prese la valigetta del pronto soccorso.
In quattro e quattr’otto, spalmò sulla caviglia di Liliana la pomata “Baciodimamma” che fa guarire tutto, la fasciò con cura e asciugò le lacrime della bambina.
Intanto gli abitanti erano arrivati ansimanti nella piazza centrale.
Non ebbero tempo di riprendere fiato.

Una voce gridò:

“Il mostro ha preso Liliana!”
“Se la mangerà!” strillò la signora Zucchini.
“Corriamo a liberarla!” disse un coraggioso.
Ripresero tutti la strada della caverna nera.
Ben decisi stavolta a liberare la piccola Liliana.
Quando arrivarono trovarono il mostro e Liliana che giocavano a dama, ridendo, scherzando e bevendo una cioccolata calda dal profumo delizioso.
“Ooooh!” dissero tutti insieme.
“Ah! Siete tornati, meno male!” disse il mostro, “Non ero riuscito a ringraziarvi del vostro splendido regalo.
La caverna è umida e malsana e perciò sono sempre raffreddato.
Con i mattoni che mi avete portato mi costruirò una bella casetta.
Grazie, davvero, di cuore!”
Chissà come, questa volta la gente capì il discorso del mostro.
E lo aiutarono tutti a costruire una graziosa casetta in fondo al paese.
Il più felice era Tommaso, che alla fine disse:
“Avete visto che ho fatto uscire il mostro dalla caverna nera?”

Brano tratto dal libro “Nuove storie. Per la scuola e la catechesi.” di Bruno Ferrero