Il pinguino colorato

Il pinguino colorato

Quando mise fuori la testa dall’uovo, fu accolto dalla felicità di tutti.
La comunità dei pinguini dell’Isola Azzurra si strinse intorno a Priscilla e Dagoberto, i suoi genitori, che avevano gli occhi luccicanti e non stavano più nel frac per l’orgoglio.
Perché Filippo era davvero un bel neonato di pinguino.
Aprì il becco ed emise un robusto vagito.
Tutti i pinguini presenti applaudirono.
“È un ottimo segno!” disse lo zio Fortebecco, “È impaziente di affrontare la vita!”
Filippo, in effetti, partì alla carica della vita con una gran dose di energia.
Appena le sue zampette furono abbastanza robuste, si allontanò dallo sguardo premuroso dei genitori per infilarsi fra i più discoli dei piccoli pinguini della comunità.

Erano tutti più anziani di lui, ma nessuno lo batteva in coraggio e temerarietà.

Fu Filippo il primo piccolo di pinguino che osò scivolare dalla punta del grande iceberg fino al mare, anche se poi non poté sedersi per due settimane a causa del bruciore sotto la coda.
Fu sempre Filippo, il coraggioso piccolo pinguino, che portò via la colazione all’enorme e spaventoso tricheco Baffodiferro.
Nella banda dei “pinguini irsuti”, chiamati così perché si rifiutavano sistematicamente di lasciarsi pettinare le piume del capo dalle loro mamme, Filippo divenne l’incontrastato boss.
“Perché sei sempre così agitato, Filippo mio?” gli chiedeva la mamma, un po’ in ansia per quel figlio che cresceva così scapestrato.
Con gli amici, Dagoberto era sinceramente preoccupato:
“Quel monello ha bisogno di una bella strigliata!”
Così spesso, alla sera, Dagoberto, Priscilla e Filippo rappresentavano, senza volerlo, la versione pinguinesca del processo di Norimberga.
“È tutta colpa tua!” diceva la mamma.
“No, tua!” esclamava il papà, “Anzi, è colpa di Filippo!”
La mamma piangeva, papà sbatteva la porta e Filippo gridava:

“Non ne posso più!”

Un giorno il pinguino Filippo se ne stava sdraiato su una roccia a picco sul mare ed osservava annoiato il formicolio dei pinguini della comunità.
Sembravano tutti felici; lui, invece si sentiva pieno di amarezza.
“Che barba!
Un posto tutto bianco, grigio e nero.
Dove nessuno si fa i fatti suoi…
Deve pur esserci un paese colorato.
Pieno di gente colorata.
Potrei diventare anch’io pieno di colori…
Non ne posso più di questa camicia bianca e di questo ridicolo frac!”
E, impulsivo com’era, si lasciò scivolare giù dalla roccia, si tuffò tra le onde e nuotò via dall’Isola Azzurra.
Approdò alla Terraferma.

Gli avevano sempre raccomandato di evitare il litorale.

I pinguini si tenevano prudentemente alla larga dagli anfratti in ombra degli scogli, dove le onde infrangevano con violenza rabbiosa, e foche, piccoli cetacei e altri predatori si acquattavano per far strage degli imprudenti.
“Adesso sono libero e faccio come mi pare!” si disse Filippo.
Si arrampicò a fatica e si incamminò sulla spiaggia.
Un forte sbattere d’ali alle sue spalle lo mise in guardia.
Un giovane cormorano aveva deciso di attaccarlo.
Ma Filippo era robusto e dotato di un becco forte e tagliente.
Lottarono per un po’, facendo volare piume da tutte le parti.
Filippo ci mise tutta la sua rabbia.
Il cormorano cominciò a perdere sangue da una ferita alla gola e si spaventò.
Si ritirò dal combattimento e volo via lamentandosi e imprecando.
“Aah!”” fece Filippo, gonfiando il petto con soddisfazione.
Alcune gocce di sangue del cormorano erano finite sulle sue piume bianche.

Il pinguino guardò le macchie rosse e disse:

“Bene! Comincio ad essere colorato!”
Ondeggiando, ma più che mai risoluto a continuare la sua esplorazione, Filippo si inoltrò tra le rocce.
“Ehi, amico!” una voce alle sue spalle lo fece voltare di scatto.
Era pronto di nuovo a combattere, ma di fronte si trovò solo un gabbiano giovane e inoffensivo.
“Ti ho visto sistemare il cormorano!” disse il gabbiano, “Sei un duro, tu!”
“Certo!” rispose Filippo.
“Ti invito a pranzo!” insinuò furbescamente il gabbiano.
“Che cosa vuoi dire?” chiese Filippo.
“Andiamo a rubare le uova dai nidi delle rondini di mare, che ne dici?
In due non oseranno farci niente!” spiegò il gabbiano.
Fecero una scorpacciata di uova.
Le povere rondini di mare tentarono invano di difendere i loro nidi.
I due briganti mulinavano ali e becchi.

Alla fine, Filippo si guardò il petto:

era tutto macchiato dal giallo e arancione dei tuorli d’uovo.
“Altri colori!” si disse, “Questa è vita!”
Dietro di lui, si sentiva solo il disperato pigolare delle rondini di mare, che piangevano i nidi e le uova distrutte.
Si installò in una grotta di ghiaccio azzurra, e ne fece il suo covo.
Un gruppetto di gabbiani e perfino un’otaria con un occhio solo lo riconobbero come capo banda.
Le scorribande del gruppetto furono ben presto temute da tutti.
Filippo veniva chiamato semplicemente “Il pinguino colorato”.
Infatti la sua elegante livrea bianca e nera era sparita sotto i segni delle imprese che aveva affrontato.
Oltre il rosso del sangue e il giallo delle uova rubate, c’erano tracce verdi, azzurre e anche ciuffi di pelo argentato, che gli erano rimasti attaccati dopo un’epica lotta contro un Husky randagio.
Ma che serviva essere diventato davvero il primo pinguino a colori, se non poteva farsi ammirare dai suoi vecchi amici e dalla sua famiglia?

Il pensiero dell’Isola Azzurra prese a torturarlo.

Anche se non voleva ammettere, sentiva un bel po’ di nostalgia dell’allegra comunità dei pinguini.
“Avere una vita colorata non è proprio come me la immaginavo!” si diceva sempre più spesso.
Quella esistenza di fughe, attacchi, lotte e brigantaggio non gli piaceva più tanto.
Un mattino riprese la via del mare e tornò a casa
I primi pinguini dell’Isola Azzurra che incontrò erano dei piccoli che giocavano sulle lastre di ghiaccio galleggianti.
Appena lo videro si misero a strillare e scapparono gridando:
“Un mostro!
Un mostro!”
Gli adulti fecero largo al suo passaggio, ma non per fargli onore.
Lo guardavano tutti con una sorta di ribrezzo.
“Ma perché?
Idioti, sono io, non mi riconoscete?” brontolava Filippo.
“Filippo, figliuolo, lo sapevo che saresti tornato!”
La mamma naturalmente lo riconobbe, ma non osò abbracciarlo.
“Ma in che stato sei!”
“Bentornato, Filippo!” gli disse anche il papà.

Ma non lo toccò.

Le comari tutt’intorno borbottavano:
“Che disgrazia!
Poveri genitori…”
Per la prima volta nella sua vita, a Filippo venne voglia di piangere.
Improvvisamente comprese che i suoi colori continuavano a tenerlo lontano; lo rendevano straniero alla comunità dell’Isola Azzurra.
Mentre lui, solo adesso, si accorgeva che soltanto lì poteva essere veramente felice.
Ma come si fa a tornare indietro?
“Papà!” chiese, “Vorrei cancellare questi colori e ricominciare, se è possibile!”
Dragoberto esitò, poi guardò Filippo negli occhi e disse:
“C’è un mezzo solo:
devi tuffarti dalla Grande Cascata.
Laggiù l’acqua è così violenta e rapida che nessun colore può resistere.
Ma è tremendamente rischioso.
Ci vorrà il tuo coraggio.
Te la senti di farlo?”
“Si, papà!” rispose Filippo.

La voce si sparse in un attimo.

Nel giro di pochi minuti c’erano tutti, grandi e piccoli, intorno alla grande cascata.
Non riuscirono a trattenere un “Oh!” sincero quando in alto, dove il fiume precipitava in mare con un fragoroso boato, apparve Filippo.
Sembrava così piccolo lassù.
Rimase un attimo fermo a concentrarsi, poi spiccò il salto.
Un salto stupendo, come se improvvisamente gli fossero spuntate le ali.
La corrente lo ghermì come un fuscello e lo scagliò violentemente nel mare ribollente e schiumante.
Il pinguino sparì nel vortice.
Tutti trattennero il fiato.
Poi ad un tratto Filippo riemerse.
La forza stessa dell’acqua lo proiettò in alto e tutti videro che le sue piume erano diventate immacolate e che i colori erano scomparsi.
Allora esplosero in un festoso:
“Urrà!” che coprì perfino il tuonare dell’acqua.

Brano tratto dal libro “Storie belle e buone.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

La leggenda dei “gattini” dei salici

La leggenda dei “gattini” dei salici

Un’antica leggenda, tramandata di generazione in generazione, la cui origine si perde nella notte dei tempi, vede diversi popoli attribuirsene la paternità, vantandosi del proprio luogo natio come teatro dello svolgimento.
Mamma gatta era disperata perché i suoi gattini erano stati gettati da un padrone malvagio nel fiume per sbarazzarsene.

Il padrone aveva dimenticato, però, che i gatti hanno sette vite.

La gattina non aveva dimenticato la sua discendenza dalle antiche divinità Egizie dei gatti sacri, chiamati Mau, e supplicò i salici affacciati sulle sponde del fiume affinché li salvassero.
Li avrebbe ricompensati, grazie ai suoi poteri, con un grande e perpetuo riconoscimento.
I salici allora tesero i rami sul fiume fino a lambire la corrente e cosi i gattini poterono aggrapparsi e salvarsi.

Da quel giorno, i salici non fiorirono più,

ma ancora oggi, durante la primavera, si ricoprono di morbide infiorescenze bianche come il manto dei gattini salvati.
Anche i rami rimasero, da allora, protesi verso acqua.
Tale infiorescenza ancor oggi viene chiamata “gattini.”

In dialetto veneto questa parola diventa “gattici.”

Mi piace pensare che l’origine di tale leggenda sia veneta, e che il mio pensiero non sia del tutto fuori luogo, anche perché lungo i corsi d’acqua della regione, questi alberi dove non nascono spontaneamente, vengono piantati a ricordo di ciò.
Il paesaggio veneto, da questi alberi, ne trae grande beneficio.
I salici, nel corso dei secoli, vennero decantati da diversi poeti e raffigurati da pittori di ogni epoca.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Attraversare il fiume

Attraversare il fiume

Tre persone si trovarono un giorno davanti ad un fiume dalle acque rapide e minacciose.
Tutte e tre dovevano passare dall’altra parte.

Era molto importante per loro.

Il primo, un mercante scaltro e gran trafficante, abile nel gestire uomini e cose, si inginocchiò e rivolse un pensiero a Dio:
“Signore, dammi il coraggio di buttarmi in queste acque minacciose e di attraversare il fiume.
Dall’altra parte mi attendono affari importanti.
Raddoppierò i miei guadagni, ma devo fare in fretta…”
Si alzò e, dopo un attimo di esitazione si tuffò nell’acqua.

Ma l’acqua lo trascinò a valle.

Il secondo, un soldato noto per l’integrità e la forza d’animo, si mise sull’attenti e pregò:
“Signore, dammi la forza di superare questo ostacolo.
Io vincerò il fiume, perché lottare per la vittoria è il mio motto!”
Si buttò senza tentennare, ma la corrente era più forte di lui e lo portò via.
La terza persona era una donna.

A casa l’attendevano marito e figli.

Anche lei si inginocchiò e pregò:
“Signore, aiutami, dammi il consiglio e la saggezza per attraversare questo fiume minaccioso!”
Si alzò e si accorse che poco lontano un pastore sorvegliava il gregge al pascolo.
“C’è un mezzo per attraversare questo fiume?” gli chiese la donna.
“A dieci minuti di qui, dietro quella duna, c’è un ponte!” rispose il pastore.

Brano di Bruno Ferrero

Tre parole

Tre parole

Un giovane e ambizioso cavaliere era noto per la vita dissoluta e sfrenata.
Un buon frate cercò di farlo riflettere sui rischi che avrebbe corso presentandosi con l’anima cosi carica di peccati all’ultimo giudizio del Signore.
“Non ho nessuna paura!” rispose sprezzante il cavaliere, “So che il Signore è buono e misericordioso.
Poco prima di morire pronuncerò tre parole che mi garantiranno la salvezza eterna.

Dirò:

“Gesù, pietà, perdonami.”
Il frate scosse la testa ed il cavaliere, ridendo, riprese la sua vita depravata.
Un giorno, durante un terribile temporale, cavalcava a spron battuto sulle rive di un fiume gonfio d’acqua.

Non voleva mancare ad una festa.

Un fulmine spaventò il cavallo che lo disarcionò e lo fece piombare nella violenta corrente del fiume.
Le ultime tre parole del cavaliere, prima di morire, furono:
“Crepa bestiaccia infame!”

Brano di Bruno Ferrero

A caccia di anatre

A caccia di anatre

Un giovane indiano partì alla caccia di anatre selvatiche sulla riva di un fiume.
Era armato solo di una fionda.
Raccolse alcuni ciottoli sul greto e

cominciò a scagliarli con tutta la sua forza.

Mirava soprattutto agli uccelli che si fermavano incautamente sulla riva.
I sassi lanciati finivano con un tonfo nell’acqua profonda.
Soltanto due ciottoli colpirono a morte due uccelli prima di finire anch’essi nella corrente.
Quando rientrò in città, il giovane aveva due anatre nella bisaccia e ancora uno dei ciottoli in mano.

Nei pressi del bazar,

un gioielliere lo fermò con una esclamazione di sorpresa:
“Ma è un diamante, quello che hai in mano!
Vale almeno mille rupie!”
Il giovane cacciatore impallidì e poi si disperò:

“Ma che stupido sono stato!

Ho usato tutti quei diamanti per uccidere degli uccelli…
Se li avessi guardati bene ora sarei ricco, e invece la corrente li ha portati via!”

Brano tratto dal libro “A volte basta un raggio di sole.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Le due sorgenti (Dare)

Le due sorgenti (Dare)

La montagna si eleva verso il sole.
Ma la montagna pesa, è fatta di sassi.
In qualche recesso delle sue viscere nacquero un giorno due piccole sorgenti d’acqua limpida che cercavano di uscire all’aperto.
Ma la montagna non cedeva.
Le opprimeva, le soffocava.
Durò un bel pò di tempo, finché, facendosi largo a poco a poco, le sorgenti riuscirono a venire alla luce ai piedi della montagna.
Com’erano stanche!
Ma non c’era tempo per riposarsi.
Appena erano scaturite dalla terra sentirono delle grida provenire dal muschio, dall’erba, dai fiorellini, dalle rose alpine:

“Dateci da bere! Dateci da bere!”

“Fossi matta!” disse la prima sorgente “Ho faticato senza sosta laggiù sottoterra, mentre voi, pigri, ve ne stavate al sole.
Non vi darò proprio niente!”
“Non ci darai niente?” disse il muschio piccato “E allora noi non ti lasceremo passare!”
“Ti sbarreremo la strada con le nostre numerose radici!” dichiarò l’erba.
“Ti copriremo, così nessuno ti troverà!” minacciarono i cespugli di rose alpine e di rovo.
La seconda sorgente fu più condiscendente.
“Bevi, sorella erba, però fatti da parte perchè io possa proseguire il mio cammino!”
Bevvero un poco anche i cespugli ma si tennero fuori dalla corrente.
Il muschio succhiò l’acqua soltanto da una parte.
“A me basta solo inumidire la radice.” disse la rosa alpina.

“Corri pure avanti!”

La sorgente correva…
Dava da bere a tutte le piante e tutte le cedevano il passo.
E siccome correva molto rapidamente, la gola della montagna dalla quale usciva si puliva e si allargava sempre più.
La sua acqua era fresca e limpida come cristallo.
Rotolava giù dalla montagna nella valle, saltando sopra i sassi, bagnando i prati, lambendo le radici dei salici e più si dava a tutti e più diventava forte e impetuosa.
Lei stessa non sapeva come.
Le piante l’amavano e lasciavano che altre sorgenti s’unissero a lei.
Così essa divenne un grande fiume nel quale vivevano numerosissimi pesci e navigavano tanti battelli.
Alla fine arrivò al mare.
Quando giunse alla foce, l’azzurro padre Oceano la prese fra le sue braccia e la baciò sulla fronte.

“E tua sorella?

Dov’è tua sorella sorgente?” chiese.
“Ah, padre!
Purtroppo è diventata paludosa, marcia e puzzolente!” rispose la sorgente.
“Così è la vita, figliola mia!” disse il padre Oceano.
“Tua sorella non voleva dare agli altri ciò che aveva ricevuto.
Vedi?
Anch’io oggi ti ricevo in restituzione del vapore che da me è salito verso la montagna.
La vita è dare.
Tenere per se è la morte!”

Brano senza Autore, tratto dal Web