La storia di un campanile

La storia di un campanile

Quando ero bambino mio padre mi raccontò una storia, che ricordo chiaramente anche oggi:
“Una parrocchia vicino a quella che frequentavo, costruì con le chiacchiere dei ricchi e le offerte dei poveri, una bellissima chiesa.
I parrocchiani ne sono, tutt’ora, fieri.

Costruendola, però, ebbero un serio problema.

Giunti alla costruzione del campanile, rimasero senza fondi.
Per questa ragione lo lasciarono, per un lungo periodo, incompleto, suscitando, in questo modo, il sarcasmo dei cittadini delle altre comunità.
Alcuni buontemponi di un borgo confinante, portarono, una notte, un carro di letame.
Lo disposero intorno alla chiesa, come provocazione.
Anche nel loro borgo avevano iniziato a costruire una chiesa, contemporaneamente a quella non conclusa, ma a differenza loro, la propria era già terminata.
L’umiliazione inferta fu così tanta che il parroco cercò una soluzione al problema.

Organizzò una grande pesca di beneficenza pro-campanile.

Chiese al più ricco del paese, non che nobile, di contribuire donando uno dei suoi tanti vitelli.
Questi rispose di sì, ma mise un vincolo.
Alla fine, il proprietario del bovino doveva essere nuovamente lui, facendo avere il biglietto vincente a un suo mezzadro di fiducia.
Il buon parroco, dopo aver recitato in latino il versetto del Vangelo (MC 10,25), in cui è scritto che è più facile che un cammello entri nella cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli, acconsentì controvoglia.”

Anche oggi, quando casualmente mi trovo a passare nelle vicinanze del campanile, mi ritorna in mente questo racconto.
Alcuni anni fa, la parrocchia in questione commissionò uno studio di ricerca sulla chiesa e sul campanile ai più titolati e bravi storici locali.
Questi pubblicarono un voluminoso tomo nel quale erano dedicate diverse pagine alla chiesa ed al campanile.

Ma del racconto di mio padre non vi era traccia, nonostante la storia fosse molto significativa.

Giunsi alla conclusione che, quando si racconta la storia di un paese in un libro, qualcosa manca sempre.
A tramandare gli episodi meno presentabili, fortunatamente, ci pensa però la tradizione orale.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

La cattedrale con magnifiche vetrate

La cattedrale con magnifiche vetrate

C’è una cattedrale con magnifiche vetrate!
Una di esse, in particolare, attira l’attenzione per la sua singolare bellezza ed i giochi di luce.

Ecco la sua storia:

Durante la costruzione della cattedrale il maestro e gli artigiani più bravi lavoravano in laboratori allestiti all’interno del cantiere.
Un mattino, al maestro si presentò un giovane forestiero che portava alla cintura gli arnesi da artigiano.
“Ho già gli operai e gli scultori che mi servono!” disse il maestro ed indicò, sgarbatamente, la porta d’uscita allo straniero.
“Non chiedo di lavorare le pietre!” disse lo sconosciuto.
“Mi piacerebbe soltanto realizzare una vetrata, come prova, senza alcun impegno o spesa da parte vostra!”
Il maestro accettò e concesse al giovane una vecchia “baracca” inutilizzata accanto alla discarica del cantiere.

Nei mesi seguenti nessuno gli badò.

Il giovane lavorava nella sua “baracca” silenzioso ed alacre!
E venne il giorno in cui portò fuori la sua opera segreta.
Era una vetrata di incredibile splendore, con colori luminosi che nessuno aveva mai visto prima.
Senza dubbio più incantevole di tutte le altre vetrate della cattedrale!
La fama della stupenda vetrata si sparse e cominciò ad arrivare gente, da vicino e da lontano, per ammirarla.
“Dove hai preso tutti questi meravigliosi pezzi di vetro così brillanti e luminosi?” chiedevano, sorpresi ed eccitati allo stesso tempo, i maestri artigiani.

E lo straniero rispose:

“Oh, ho trovato frammenti qua e là, dove lavoravano gli operai!
Questa vetrata è fatta con i pezzi scartati da altri come inutili!” (Racconto per Pasqua)

Brano senza Autore

La cattedrale del Re Casimiro

La cattedrale del Re Casimiro

Il superbo re Casimiro decise di lasciare un segno della sua munificenza elevando una cattedrale favolosa al centro della città.
Perché il merito della realizzazione fosse tutto e soltanto suo, emanò un decreto per il quale nessuno avrebbe potuto contribuire gratuitamente alla costruzione sotto pena di morte.
“È opera mia e soltanto mia!” proclamava il re.
L’edificio si innalzò splendido e solenne.
Gli operai del re lavoravano a turni massacranti.
E anche le bestie, buoi e cavalli, adibiti al trasporto si accasciavano sfiancati.
Il re fece scolpire una grande lapide di marmo da collocare sulla facciata del duomo:

“Elevato alla gloria di Dio per opera di Re Casimiro!”

La lapide fu murata sotto il rosone.
Il giorno della consacrazione della cattedrale, il re arrivò in testa al corteo dei dignitari.
Un drappo di seta copriva la lapide.
Quando la piazza fu piena di gente festante, davanti al cardinale e al capitolo dei canonici schierati e pronti a benedire, il re fece cenno di togliere il velo della lapide.
Un sussurro di meraviglia percorse la folla, mentre il re diventava livido.

Sulla lapide si leggeva a grandi caratteri d’oro:

“Elevato alla gloria di Dio per opera di re Casimiro e di Teresa!”
Furibondo, il re cercò di far cancellare il nome intruso.
Ogni mattina ricompariva.
Diede ordine di trovare quella Teresa.
Gli portarono davanti una donna dagli abiti modesti che tremando, confessò che una sera, tornando dai campi, aveva visto i cavalli e i buoi stremati e, di nascosto, aveva dato loro un po’ di fieno.

Il re Casimiro capi che il suo desiderio era folle e superbo.

Il Signore stesso aveva scritto sulla lapide il nome della umile donna dal gran cuore.
E quel nome è là ancora oggi, dopo mille anni.

Brano tratto dal libro “365 piccole storie per l’anima.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

Il sasso inutile

Il sasso inutile

C’era una volta su una strada un sasso che non serviva a niente.
Era un bel sasso, di forma tondeggiante, grosso più o meno come la testa di un uomo, di un bel grigio-azzurro.
Ma nessuno lo degnava di uno sguardo.
Un sasso è solo un sasso, a chi può interessare?
Al principio spuntava appena dalla terra al centro di una strada che portava in città.
Non gli mancava la compagnia.
Quasi tutti quelli che passavano di là inciampavano.
Qualcuno si accontentava di lanciare colorite imprecazioni, altri maledicevano il povero sasso.
Gli zoccoli ferrati dei cavalli lo colpivano violentemente, facendo sprizzare sciami di scintille che brillavano nella notte.

Il sasso era sempre più triste.

Che razza di vita era mai la sua!
Un giorno una carrozza che procedeva veloce per la strada ebbe un impatto così violento con il povero sasso da lasciargli un segno ben visibile, che sembrava una ferita.
Nell’urto ebbe la peggio la ruota, che si spezzò.
Il vetturino, furibondo, con un ferro cavò il sasso e lo scagliò lontano.
Il sasso rotolò malinconicamente per un po’ e si arrestò fra altri sassi nella scarpata.
“Ci mancavi solo tu, rompi scatole!” gli gridarono gli altri sassi, “Quanto sei pesante, ciccione!” gli dissero due pietre piatte e sottili, cosparse di mica scintillante.
Se le pietre avessero lacrime, il sasso sarebbe scoppiato in un pianto desolato.
Sprofondò in un silenzio pieno di angoscia e di tristezza.
Solo una lumaca lo prese in simpatia e gli lasciò per ricordo una scia luccicante di bava.
Il povero sasso desiderò sprofondare nel terreno e sparire per sempre.

Ma un mattino due mani robuste lo sollevarono:

“Questo serva a me!” disse una voce.
“E gli altri?” chiese un uomo.
“Possono servire anche loro.
Raccoglieteli.” fu la risposta.
Gli altri sassi venivano gettati in un carro.
Il sasso tondeggiante fece il viaggio nella bisaccia dell’uomo.
Quando uscì, si trovò in un cantiere brulicante di operai.
Tutti erano all’opera per innalzare una magnifica costruzione, che, pure incompleta, già svettava nel cielo.
E i muri, le possenti arcate, le guglie che svettavano nel cielo, tutto era formato da pietre grigio-azzurre come lui.
“Questo è il paradiso!” pensò il sasso, che non aveva mai visto niente di più bello.
Le mani dell’uomo passarono sulla superficie del sasso con una ruvida carezza.
“Finirai lassù, anche tu, amico mio!” disse la voce, “Ho un progetto magnifico per te.

Dovrai soffrire un po’, ma ne varrà la pena.”

Il sasso venne portato in un angolo dove un gruppo di uomini stava scolpendo figure di santi di pietra.
Una delle statue era senza testa.
L’uomo la indicò e disse:
“Ho trovato la testa per quello!”
Sfiorò nuovamente il sasso con le mani e continuò:
“È perfetto.
Sembra fatto apposta, e anche questa piccola fenditura mi ha fatto venire un’idea…”
Al sasso pareva di sognare:
nessuno lo aveva mai definito “perfetto”.
Subito dopo però fu stretto in una morsa e uno strumento acuminato cominciò a ferirlo senza pietà.
L’uomo lo scalpellava con vigore e perizia.

Il dolore era forte, ma non durò molto.

Il sasso inutile si trasformò nella magnifica testa di un santo che fu collocata sulla facciata della cattedrale.
Era la statua che tutti notavano e additavano per una particolarità:
tutti gli altri erano seri e aggrondati, quello era l’unico santo sorridente.
L’artista aveva trasformato la ferita provocata dalla ruota del carro in un magnifico sorriso.
Il sorriso pieno di pace e felicità del sasso che aveva trovato il suo posto.

Brano tratto dal libro “Tante storie per parlare di Dio.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

La divisione dei fagioli

La divisione dei fagioli

Correva l’anno bisestile 1948.
Uno dei primi anni in cui l’Italia stava cercando di riprendersi dalla seconda guerra mondiale, con una difficile ricostruzione da cui ripartire, mentre il mondo stava per dividersi in due blocchi geopolitici, quello comunista e quello occidentale, che daranno inizio, nei successivi anni, alla guerra fredda ed alla costruzione del muro di Berlino.
La società veneta era in grande fermento, soprattutto quella contadina, aggravata dall’atavico assetto dell’istituzione patriarcale, che costringeva a vivere e lavorare, sotto lo stesso tetto, fratelli con prole allora numerosa.
A gestire, con le rigide regole di quell’epoca, era di norma il vecchio capofamiglia che, quando veniva a mancare,

rendeva la divisione per i figli quasi obbligatoria.

Erano le donne a proporre maggiormente i propri uomini per la gestione del nucleo famigliare e per la divisione dei beni, sperando di ottenere più autonomia e libertà.
La parola più gettonata era democrazia.
Non sempre la divisione avveniva in un clima sereno.
Risultava sempre difficile ottenere la parte migliore dal poco che si aveva e, nel tirare la coperta troppo corta, qualcuno rimaneva sempre scoperto.
In questo contesto, a Levada, due fratelli decisero di procedere alla spartizione dell’eredità, assoldando un mediatore per dividere casa, terra e bestiame.
Per le cose restanti decisero di fare da soli, per cercare di risparmiare.

Sorsero, però, subito dei problemi.

L’incidente più eclatante avvenne nel granaio dove, dopo essersi strattonati per la divisione di un sacco di mais e uno di preziosi e nutrienti fagioli, fecero cadere per le scale i due sacchi, che si ruppero.
I cereali si mischiarono con i legumi provocando un vero e proprio disastro, anche se l’aspetto cromatico dei vari colori era veramente bello da vedere.
Tutta la famiglia, bambini compresi, fu costretta a separare i due prodotti con una pazienza certosina, ma nel contempo aiutò tutti a riflettere ed a riportare calma e armonia.
La divisione dei beni proseguì.
Grazie a questo episodio nacque una grande e duratura solidarietà, che si perpetuò nel tempo.
Anche oggi, i discendenti diretti beneficiano di quel particolare episodio.
Inoltre ne trae giovamento anche il paese, che li fa operare in armonia per la riuscita della festa patronale.

Emilio Durighello,

testimone bambino di allora, si commuove nell’evocare l’episodio e conserva gelosamente, ancora oggi, una piccola manciata di quei fagioli, riservati per il gioco collettivo della tombola.
Per il proprietario, il tempo trascorso li ha impreziositi di valore, dato che, quei fagioli fanno riaffiorare nella sua mente un vivo ricordo della singolare vicissitudine famigliare.
I fagioli possiedono, come caratteristica magica, la forza di unire e mai quella di dividere, come avviene nel campo, nel baccello, in pentola ed in famiglia.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

L’asta di ferro (Il passamano)

L’asta di ferro
(Il passamano)

C’era una volta, nel deposito di un vecchio magazzino, un’asta di ferro abbandonata in un angolino insieme ad altri pezzi di scarto, in balia del freddo e soprattutto dell’umidità.
Il ferro, abbandonato lì da tanti anni, si sentiva sempre più arrugginito ed inutile.
Spesso ricordava i grandi sogni che lo avevano accompagnato durante la sua giovinezza:
diventare parte di una costruzione importante, o un’opera d’arte famosa di qualche bravo artista, o…

Ma niente di tutto questo.

L’asta di ferro ricordava con grande tristezza anche il giorno in cui fu buttata via perché considerata uno scarto.
Ormai era avvolta da uno strato di ruggine che la scoraggiava e le spegneva ogni barlume di speranza.
Un giorno, però, passò da quelle parti un abile fabbro a cui serviva un’asta di ferro proprio di quella misura.

Dopo averla prelevata la portò subito alla sua bottega.

All’asta di ferro non sembrava vero tutto questo.
Il fabbro la osservò attentamente e le disse che le avrebbe dato una forma, ma che ciò sarebbe costato fatica e sacrificio.
Sicché subito il fabbro cominciò a lavorarci su, infilandola prima nel fuoco ardente, poi dandole molti colpi di martello, in seguito immergendola nell’acqua e così via di nuovo, fino a quando, dopo tanto lavoro, il fabbro disse:

“Ecco, ora hai una forma.”

L’asta di ferro era diventata un elegante passamano.
Da quel giorno divenne utile a tanta gente; molti si appoggiarono a quel passamano per salire e scendere le scale.

Brano tratto dal libro “Nove Vie in Betlemme.” di Angelo Valente

Le calze di Giovanni

Le calze di Giovanni

Nel XIX secolo, in una cittadina inglese, dopo mesi di lavoro, una schiera di muratori aveva terminato la costruzione di un’altissima ciminiera per una fabbrica.
L’ultimo operaio era sceso dalla vertiginosa impalcatura di legno.
L’intera popolazione della città era là per festeggiare l’evento e soprattutto per assistere alla caduta spettacolare dell’impalcatura.

Appena il castello di assi e travi crollò tra il frastuono,

la polvere, le risate e le grida della gente, con stupore si vide spuntare sulla sommità della ciminiera la testa di un muratore che aveva appena terminato il lavoro nel colletto interno.
La folla degli spettatori ammutolì di colpo e l’orrore cominciò a serpeggiare in mezzo a loro:
“Ci vorranno giorni per alzare un’altra impalcatura.
E fino ad allora quel muratore sarà morto di freddo, di sete o di fame!”
In mezzo alla gente c’era anche la mamma del muratore, che sembrava disperata.
Ma poi ad un tratto si fece largo ed arrivata sotto la ciminiera fece un segno al figlio e gridò: “Giovanni, togliti le calze!”

Un mormorio si diffuse:

“Poverina, il dolore le ha fatto perdere la ragione!”
Ma la donna insistette.
Per non preoccuparla oltre, Giovanni si tolse la calza.
La donna gridò di nuovo:
“Rovesciala e cerca il nodo, poi tira!”
L’uomo ubbidì e ben presto si trovò in mano una grossa manciata di lana.
“Fai lo stesso con l’altra e lega insieme i fili e poi buttane giù il capo.
E tieni l’altro ben saldo fra le dita!”

Giovanni eseguì.

Al filo di lana fu legato un filo di cotone che l’uomo tirò fino in cima.
Poi al filo di cotone fu attaccata una cordicella e alla cordicella una corda ed infine alla corda un robusto cavo.
Giovanni lo fissò saldamente alla ciminiera e scese in mezzo agli “Urrà” della gente.

La tua vita e la tua salvezza dipendono da cose piccole e fragili, che molto probabilmente già possiedi.
Basta pensarci.

Brano tratto dal libro “I fiori semplicemente fioriscono.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

I tre spaccapietre


I tre spaccapietre

Durante il Medioevo, un pellegrino aveva fatto voto di raggiungere un lontano santuario, come si usava a quei tempi.
Dopo alcuni giorni di cammino, si trovò a passare per una stradina che si inerpicava per il fianco desolato di una collina brulla e bruciata dal sole.
Sul sentiero spalancavano la bocca grigia tante cave di pietra.
Qua e là degli uomini, seduti per terra, scalpellavano grossi frammenti di roccia per ricavare degli squadrati blocchi di pietra da costruzione.
Il pellegrino si avvicinò al primo degli uomini.
Polvere e sudore lo rendevano irriconoscibile, negli occhi feriti dalla polvere di pietra si leggeva una fatica terribile.
Il suo braccio sembrava una cosa unica con il pesante martello che continuava a sollevare ed abbattere ritmicamente.

“Che cosa fai?” chiese il pellegrino.

“Non lo vedi?” rispose l’uomo, sgarbato, senza neanche sollevare il capo.
“Mi sto ammazzando di fatica”.
Il pellegrino non disse nulla e riprese il cammino
S’imbatté presto in un secondo spaccapietre.
Era altrettanto stanco, ferito, impolverato.

“Che cosa fai?” chiese anche a lui il pellegrino.

“Non lo vedi? Lavoro da mattino a sera per mantenere mia moglie e i miei bambini.”, rispose l’uomo.
In silenzio, il pellegrino riprese a camminare.
Giunse quasi in cima alla collina.
Là c’era un terzo spaccapietre.
Era mortalmente affaticato, come gli altri.
Aveva anche lui una crosta di polvere e sudore sul volto, ma gli occhi feriti dalle schegge di pietra avevano una strana serenità.

“Che cosa fai?” chiese il pellegrino.

“Non lo vedi?” rispose l’uomo, sorridendo con fierezza, “Sto costruendo una cattedrale.”
E con il braccio indicò la valle dove si stava innalzando una grande costruzione, ricca di colonne, di archi e di ardite guglie di pietra grigia, puntate verso il cielo.

Brano senza Autore, tratto dal Web