Dio, la principessa ed il rabbi

Dio, la principessa ed il rabbi

Una volta una principessa chiese al rabbi Jossi ben Chalafta:
“Che cosa fa Dio, tutto il giorno?”

Il buon rabbi rispose:

“Mette insieme le coppie.
Decide chi dove sposare chi.
Questo uomo a quella donna, questa donna a quell’uomo, e così via!”
“Non è granché!” ribatté la principessa, “Questo lo posso fare anch’io.
Posso mettere insieme migliaia di coppie in un solo giorno.”
Rabbi Jossi rimase in silenzio.
Che fece la principessa?
Andò nei suoi palazzi, prese mille schiavi e mille schiave e li sposò tra loro.

Disse:

“Questo deve sposare quella, quella deve essere sposata a questo!”
Durante la notte quasi tutte le coppie litigarono e si picchiarono a sangue.
Al mattino andarono dalla principessa.
Uno aveva la testa rotta, l’altra un occhio pesto, un altro il naso ammaccato…
La principessa mandò a chiamare il rabbi Jossi, gli raccontò tutta la storia e concluse:

“Avevi ragione.

Mi accorgo che solo Dio può mettere insieme uomini e donne.”
Allora si udì una voce dal Cielo:
“Anche per me la cosa non è facile.”

Brano senza Autore

La gattina siamese ed il levriero

La gattina siamese ed il levriero

“Hai sentito la novità?” disse la gattina siamese al cane.
“Quale?” rispose il levriero.
“Le pari opportunità tra donne e uomini.
Ora c’è un comma aggiunto all’articolo 51 della Costituzione che ratifica queste opportunità.
È passato ieri al Senato con voto unanime!” spiego la gattina.

“E tu come lo sai?” ribatté il cane.

“Che domande!
L’ha detto ieri la tivvù e stamattina la notizia è su tutti i giornali!” concluse trionfante la gattina.
“Sei sempre aggiornata.” rispose galante il cane.
Poi grattandosi un orecchio con la zampa, continuò:
“Ma tu credi che serva davvero quel comma a migliorare la presenza delle donne nelle faccende pubbliche?”

“Credo di sì.

Tutto sta a renderlo operativo!” rispose la siamese.
“Intanto,” riprese il levriero, “il 90% del Parlamento italiano è formato da uomini, e il restante 10%… quello soltanto è formato da donne.
Lo sapevi che è la percentuale più bassa di tutti gli Stati, anche di quelli del Terzo Mondo?
Eccetto naturalmente, i Paesi dove la donna non è considerata:
cioè, non ha status sociale, non ha diritti!”
“Terribile!” esclamò la gattina, “Pensa se fossi nata in quei Paesi!”

Il cane sorrise:

“Ma tu non sei una donna, sei una gattina!”
“Vuoi dire che, a differenza delle donne, in quei posti avrei potuto avere uno status sociale?
Dei diritti, voglio dire!” domandò la gattina.
“Probabilmente sì!” rispose convinto il levriero.
E la gattina si sentì felice di valere più delle donne di quei Paesi.

Brano senza Autore.

La divisione dei fagioli

La divisione dei fagioli

Correva l’anno bisestile 1948.
Uno dei primi anni in cui l’Italia stava cercando di riprendersi dalla seconda guerra mondiale, con una difficile ricostruzione da cui ripartire, mentre il mondo stava per dividersi in due blocchi geopolitici, quello comunista e quello occidentale, che daranno inizio, nei successivi anni, alla guerra fredda ed alla costruzione del muro di Berlino.
La società veneta era in grande fermento, soprattutto quella contadina, aggravata dall’atavico assetto dell’istituzione patriarcale, che costringeva a vivere e lavorare, sotto lo stesso tetto, fratelli con prole allora numerosa.
A gestire, con le rigide regole di quell’epoca, era di norma il vecchio capofamiglia che, quando veniva a mancare,

rendeva la divisione per i figli quasi obbligatoria.

Erano le donne a proporre maggiormente i propri uomini per la gestione del nucleo famigliare e per la divisione dei beni, sperando di ottenere più autonomia e libertà.
La parola più gettonata era democrazia.
Non sempre la divisione avveniva in un clima sereno.
Risultava sempre difficile ottenere la parte migliore dal poco che si aveva e, nel tirare la coperta troppo corta, qualcuno rimaneva sempre scoperto.
In questo contesto, a Levada, due fratelli decisero di procedere alla spartizione dell’eredità, assoldando un mediatore per dividere casa, terra e bestiame.
Per le cose restanti decisero di fare da soli, per cercare di risparmiare.

Sorsero, però, subito dei problemi.

L’incidente più eclatante avvenne nel granaio dove, dopo essersi strattonati per la divisione di un sacco di mais e uno di preziosi e nutrienti fagioli, fecero cadere per le scale i due sacchi, che si ruppero.
I cereali si mischiarono con i legumi provocando un vero e proprio disastro, anche se l’aspetto cromatico dei vari colori era veramente bello da vedere.
Tutta la famiglia, bambini compresi, fu costretta a separare i due prodotti con una pazienza certosina, ma nel contempo aiutò tutti a riflettere ed a riportare calma e armonia.
La divisione dei beni proseguì.
Grazie a questo episodio nacque una grande e duratura solidarietà, che si perpetuò nel tempo.
Anche oggi, i discendenti diretti beneficiano di quel particolare episodio.
Inoltre ne trae giovamento anche il paese, che li fa operare in armonia per la riuscita della festa patronale.

Emilio Durighello,

testimone bambino di allora, si commuove nell’evocare l’episodio e conserva gelosamente, ancora oggi, una piccola manciata di quei fagioli, riservati per il gioco collettivo della tombola.
Per il proprietario, il tempo trascorso li ha impreziositi di valore, dato che, quei fagioli fanno riaffiorare nella sua mente un vivo ricordo della singolare vicissitudine famigliare.
I fagioli possiedono, come caratteristica magica, la forza di unire e mai quella di dividere, come avviene nel campo, nel baccello, in pentola ed in famiglia.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Il massaggio e l’acqua di petali rosa

Il massaggio e l’acqua di petali rosa

Si chiamava “Bella come l’aurora” e viveva serenamente in un piccolo villaggio di pescatori sulle rive del Fiume Azzurro.
Fu chiesta in moglie dal più ricco dei pescatori del fiume.
I primi anni della giovane coppia furono veramente felici e spensierati.
Ma tutta quella felicità infastidiva e irritava sempre di più la suocera di Katy, che era stata rapidamente spodestata dal cuore del figlio, dei familiari e dei servi dalla bella nuora.
Così cominciò a tormentarla in ogni modo ed a diffondere le più orribili dicerie sul suo conto.
Esasperata, la bella Katy decise di vendicarsi uccidendo la suocera.

In preda a questa cupa decisione, si recò da uno stregone per procurarsi un filtro di morte.

Lo stregone l’ascoltò attentamente e poi le diede una fiala che conteneva un liquido rosa da mescolare ogni giorno nel tè della suocera, poi le propose, per stornare da sé ogni sospetto, di praticare ogni mattino sulle spalle, la nuca e la fronte della suocera un massaggio dolce e rilassante:
“In questo modo la morte la sorprenderà lentamente nel giro di sei mesi!”
Katy paziente e ostinata, per mesi versò regolarmente gocce di liquido rosa nel tè della suocera e praticò con la stessa pazienza il dolce massaggio ogni giorno.
Il massaggio quotidiano tesseva una rete nuova tra le due donne, che divennero amiche.

Il loro cuore cambiò.

La suocera notò quanto la nuora fosse gentile e generosa oltre che bella.
Katy riscopriva ogni giorno il cuore materno della suocera.
Dopo qualche mese, Katy aveva praticamente dimenticato il motivo delle quotidiane visite, delle gocce di liquido rosa nel tè e del massaggio alla suocera:
tutto questo era diventato una tranquilla e piacevole abitudine, fatta di complicità, di lunghe chiacchierate e di tenerezza.
Ma un giorno, all’improvviso, fu costretta a ricordarsene.
La suocera innocentemente disse:
“Stiamo bene insieme.
Che peccato che io debba morire molto prima di te…”.
Katy si alzò e corse dallo stregone per avere l’antidoto al veleno della fiala.
Si gettò in ginocchio e lo supplicò, spiegandogli quello che era successo e come fosse cambiato il suo cuore.

Lo stregone sorrise:

“Alzati, mia bella figliola.
Il liquido che ti ho dato è soltanto acqua di petali di rosa.
Il vero antidoto al veleno dell’odio, che in realtà era dentro di te, è stato il massaggio quotidiano.
Se guardi una persona negli occhi, le stai vicino, parli con lei non potrai più odiarla!”

Brano senza Autore

L’ago perduto

L’ago perduto

In Veneto, fino alla fine degli anni 60, era usanza comune fare una veglia serale, chiamata filò.
Il filò era un vero e proprio rito comunitario, ed il nome, probabilmente, era derivato dal filare la lana o dal tenere il filo del discorso.
Una sera d’estate, la stalla in cui si svolgeva questo evento era particolarmente affollata.

Le ragazze erano affaccendate a ricamare corredi mentre le signore più anziane erano intente a rammendare capi di vestiario.

Gli uomini, invece, mentre confabulavano tra loro del più e del meno, riparavano piccoli attrezzi.
Durante la serata, una giovane di nome Teresa, notando l’arrivo del fidanzatino, si distrasse e non ritrovò più l’ago da ricamo, scatenando il panico tra i partecipanti.
Perdere l’ago, secondo la credenza popolare, portava sfortuna e perderlo in una stalla portava ancora più sfortuna, poiché una mucca avrebbe potuto ingoiarlo provocandone, con la perforazione, una peritonite con esito fatale.

Fu accesa un’altra lampada a petrolio e tutti iniziarono a cercare il benedetto ago.

Il vecchio padrone di casa si mise a imprecare contro Teresa come se fosse cascato il mondo, facendola vergognare.
In questo clima surreale, le donne presenti decisero di creare ancor più tensione, iniziando a recitare i sequeri (forma di preghiera popolare cristiana, che la tradizione consiglia per recuperare le cose perdute) in latino.
Giulia, la mia meravigliosa nonna, vista la situazione, interpretò i sequeri a modo suo e, facendo finta di raccoglierlo per terra, mostrò il suo ago ai presenti esclamando:

“Ecco l’ago perso!”

Questo fu sufficiente per far tornare l’armonia in quell’assemblea e, le ombre da molto mosse si chetarono, per far sì che nell’angolo più buio della stalla, i fidanzatini potessero darsi un bacio rubato.
Solo qualche istante dopo Teresa si accorse che il suo l’ago lo aveva avuto, da sempre, appuntato al petto.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Leggendo un libro

Leggendo un libro

Il calcio è stato definito il gioco più bello del mondo ed annovera milioni di appassionati e di tifosi.
Inoltre, in questo sport, vengono investiti milioni di euro.
Anni fa toccai questo entusiasmo con mano mentre lavoravo in una fabbrica di scarponi da sci che sponsorizzava

una squadra del nostro massimo campionato.

Un giorno trovammo nella bacheca la data in cui questa squadra avrebbe fatto visita alla nostra fabbrica per l’annuale fornitura di scarponi.
Tutti andarono in fibrillazione, soprattutto le donne, che si fecero belle con trucco e parrucco.
Arrivato il fatidico giorno, i colleghi si munirono di bandiere, sciarpe, magliette, oltre che di carta e penna per l’ambito autografo.

I reparti sembravano la curva di uno stadio.

Io, contrariamente agli altri, non fui molto coinvolto da questo incontro dato che ero immerso nella lettura di un libro sui miti greci.
Andai perfino a mangiare da solo alla mensa aziendale quando fu il momento della pausa pranzo, mentre in tutta l’azienda si respirava un clima surreale.
I giocatori arrivarono in fabbrica, salutarono gli operai dalla vetrata ma non fecero il giro dei reparti.
Insieme con i dirigenti della fabbrica raggiunsero la mensa per un brindisi e, vedendomi da solo, mi invitarono ad aggregarmi a loro.
Mi improvvisai super tifoso chiedendo come stesse il loro capitano infortunato.

Visto il mio interesse, mi regalarono due biglietti per il derby di Milano.

Tornato al lavoro, tra i musi duri dei colleghi delusi, sbandierai i biglietti, tra l’invidia generale e lo stupore.
Tutti mi chiesero come avessi potuto averli così facilmente ed io risposi:
“Leggendo un libro.”

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Le ali ai progetti di oggi

Le ali ai progetti di oggi

Un giorno i tre grandi agenti del Tempo:
il Passato, il Presente e il Futuro discutevano sull’importanza della loro presenza nella vita degli uomini e delle donne di ogni epoca.

“Io resto sempre nella memoria della gente,”

diceva il Passato, “e ne alimento i ricordi e le emozioni!”
“Io,” intervenne il Presente, “aiuto le persone a discernere e a valutare le esperienze fatte con te, così che possono programmare saggiamente e con meno errori il loro avvenire!”
“E tu, cosa dici di te?” domandò il Tempo rivolto al Futuro che era rimasto in silenzio.

E questi rispose:

“Io sono il domani che dà le ali ai progetti di oggi.”
Ognuno ha un ruolo da svolgere nella vita.
È importante, però, che sia utile a sé e agli altri.

Brano senza Autore.

Il brodo della gallina

Il brodo della gallina

La famiglia è sempre stata il pilastro della società, anche se in questo momento storico è sottoposta a tante, troppe, disgregazioni.
E, sfortunatamente, oggi assistiamo a tanti odiosi e criminali femminicidi.
Le problematiche di un tempo erano diverse, ma la società non era immune da difficoltà.
I problemi erano celati e soppressi dalla società patriarcale,

che si basava su rigide regole in gran parte sfavorevoli alle donne.

Fiorella viveva all’interno di una di queste ed era, come le donne bibliche, criticata e compatita, dato che non riusciva ad avere figli.
Riuscì comunque a rimanere incinta, prima di iniziare ad invecchiare, ed a partorire una bellissima bambina.
Secondo la tradizione veneta, i parenti più stretti dovevano regalare alla neo mamma una gallina, rigorosamente nera, affinché la mangiasse, in modo da riprendersi il più in fretta possibile dalle fatiche del parto per tornare celermente a lavorare nei campi.
Una sua cognata, invece,

ne portò una volutamente bianca e disse alla puerpera:

“Cognata cara, noi ci conosciamo bene e da tanto tempo.
So che tu sei fin troppo moderna e trasgressiva.
Quindi immagino che non ti offenderai di certo per il colore della mia gallina!”
Fiorella intuì il significato ambiguo e capì di essere stata scoperta.
La bambina, che aveva partorito, non era di suo marito.
Questa non si turbò e replicò:
“Io accetto la tua gallina bianca in deroga alla tradizione solamente se tu, fra qualche giorno, verrai a condividere con me una scodella del suo brodo!”
Quando Fiorella, al tempo stabilito, porse la scodella di brodo fumante alla cognata, questa si lamentò siccome, all’interno della stessa, non erano presenti i classici grandi occhi di grasso, tipici della gallina.

La spiegazione che ne seguì fu sarcastica:

“Hai perfettamente ragione, cognata mia cara, perché ho aggiunto volutamente acqua calda alla tua scodella!
So che tu sei fin troppo tradizionalista nel vedere le cose a modo tuo.
In questo caso, però, meno “occhi” indagatori ci sono, meglio è per il cheto vivere di tutti!”

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

L’albero prodigioso

L’albero prodigioso

In un paese lontano si trovava un albero prodigioso.
Nessuno conosceva la sua età.
Alcuni dicevano che era più vecchio della terra.
Donne e uomini venivano a supplicarlo.
Anche i lupi, nelle notti senza luna, ululavano verso di lui.

Ma nessuno osava mangiare i suoi frutti.

Eppure erano frutti magnifici, enormi, innumerevoli, che pendevano dalle due ramificazioni dell’albero.
Metà di questi frutti erano velenosi.
Nessuno sapeva quale delle due metà.
Dei due grandi rami, uno portava la vita, l’altro la morte.
Venne una grande carestia e la gente del paese soffriva la fame.
Solo l’albero rimaneva imperturbabile, carico di frutti splendidi.

Gli abitanti dei dintorni si avvicinavano indecisi e timorosi.

Erano affamati e soffrivano, ma non volevano morire avvelenati.
Ma, un giorno, un uomo che stava per morire si fermò sotto il ramo di destra, raccolse un frutto e lo mangiò senza esitare.
Rimase in piedi, tranquillo, con un respiro che si faceva sempre più gioioso.
Tutti di colpo si accalcarono verso il ramo di destra e cominciarono a mangiare quei frutti deliziosi e salutari.
Alla sera, gli abitanti dei posto si riunirono in consiglio.
Il ramo di sinistra era non solo inutile, ma anche pericoloso.

Decisero di reciderlo con decisione, dal tronco.

Il giorno dopo, tutti si svegliarono presto e si affrettarono a cercare il loro cibo.
Tutti i frutti del ramo di destra erano caduti in terra e imputridivano nella polvere.
Gli uccelli che abitavano tra le foglie erano scomparsi.
L’albero era morto durante la notte.

Brano tratto dal libro “La vita è tutto quello che abbiamo.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Il narratore (E tu, quale storia vorresti ascoltare?)

Il narratore
(E tu, quale storia vorresti ascoltare?)

C’era una volta un narratore.
Viveva povero, ma senza preoccupazioni, felice di niente, con la testa sempre piena di sogni.
Ma il mondo intorno gli pareva grigio, brutale, arido di cuore, malato d’anima.
E ne soffriva.
Un mattino, mentre attraversava una piazza assolata, gli venne un’idea:
“E se raccontassi loro delle storie?
Potrei raccontare il sapore della bontà e dell’amore, li porterei sicuramente alla felicità!”

Salì su una panchina e cominciò a raccontare ad alta voce.

Anziani, donne, bambini, si fermarono un attimo ad ascoltarlo, poi si voltarono e proseguirono per la loro strada.
Il narratore, ben sapendo che non si può cambiare il mondo in un giorno, non si scoraggiò.
Il giorno dopo tornò nel medesimo luogo e di nuovo lanciò al vento le più commoventi parole del suo cuore.
Nuovamente della gente si fermò, ma meno del giorno prima.
Qualcuno rise di lui.
Qualche altro lo trattò da pazzo.
Ma lui continuò imperterrito a narrare.
Ostinato, tornò ogni giorno sulla piazza per parlare alla gente, offrire i suoi racconti d’amore e di meraviglie.
Ma i curiosi si fecero rari, e ben presto si ritrovò a parlare solo alle nubi e alle ombre frettolose dei passanti che lo sfioravano appena.

Ma non rinunciò.

Scoprì che non sapeva e non desiderava far altro che raccontare le sue storie, anche se non interessavano a nessuno.
Cominciò a narrarle ad occhi chiusi, per il solo piacere di sentirle, senza preoccuparsi di essere ascoltato.
La gente lo lasciò solo dietro le palpebre chiuse.
Passarono cosi degli anni.
Una sera d’inverno, mentre raccontava una storia prodigiosa nel crepuscolo indifferente, sentì che qualcuno lo tirava per la manica.
Aprì gli occhi e vide un ragazzo.
Il ragazzo gli fece una smorfia beffarda:
“Non vedi che nessuno ti ascolta, non ti ha mai ascoltato e non ti ascolterà mai?
Perché diavolo vuoi perdere così il tuo tempo?”
“Amo i miei simili!” rispose il narratore, “Per questo mi è venuta voglia di renderli felici!”

Il ragazzo ghignò:

“Povero pazzo, lo sono diventati?”
“No!” rispose il narratore, scuotendo la testa.
“Perché ti ostini allora?” domandò il ragazzo preso da una improvvisa compassione.
“Continuo a raccontare.
E racconterò fino alla morte.
Un tempo era per cambiare il mondo!” tacque, poi il suo sguardo si illuminò e disse ancora:
“Oggi racconto perché il mondo non cambi me!”

Brano tratto dal libro “A volte basta un raggio di sole.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.