I bambini zebra

I bambini zebra

Agostino era un bambino che frequentava la scuola elementare e, secondo la sua maestra, era particolarmente fortunato.
Difatti la sua insegnante lo aveva classificato come bambino zebra, termine coniato, dalla psicologa Jeanne Siaud-Facchin, per indicare i bambini che hanno in comune con le zebre la capacità di fondersi con l’ambiente circostante, avendo in dote un quoziente intellettivo sopra la media.

Questi bambini, inoltre, erano dotati di una profonda sensibilità e straordinarie capacità d’ascolto e di interazione.

Agostino amava ascoltare, a fine giornata, sua nonna Ester che, tra racconti fantastici, leggende e vite di santi, stimolava l’intelligenza del nipote.
Il bimbo traeva grande beneficio da questi racconti, riuscendo ad integrarli anche nel suo percorso scolastico.
Dopo qualche anno, una sera, la nonna gli disse che stava per esaurire il suo repertorio, anche per le lacune di memoria date dall’età.

Consigliò ad Agostino di suggerirle, nelle pause, dei passaggi narrativi, anche se inventati.

I suoi racconti potevano non essere più precisi ma, per allietare le ore serali, ne avrebbero potute coniare loro.
Decisero che questi nuovi racconti li avrebbero chiamati “Storie Belorie”, dato che erano simil vere.
Esortò il nipote a ricordare tutte le storie che lei gli raccontava poiché, queste, gli sarebbero potute servire nella vita.
Gli suggerì anche di trascriverle, in modo grammaticalmente corretto, in un quaderno, in modo che queste potessero essere raccontate, a loro volta, in futuro, avendo tutte una morale.

La nonna auspicò che il nipote diventasse un attore e che avesse il “sacro fuoco” della recitazione.

Trascorsero diversi anni, nei quali Agostino continuò brillantemente i propri studi e giunto alla laurea, dedicò la tesi, conseguita con il massimo dei voti, a sua nonna.
Rientrato a casa, le portò, pieno di gratitudine, il bacio accademico ricevuto dopo aver discusso la propria tesi sui bambini zebra, evidenziando che questi, spesso, hanno in comune dei nonni fantastici che raccontano loro delle bellissime storie con morale.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Il rito della prosperità (Festa di San Giorgio)

Il rito della prosperità
(Festa di San Giorgio)

Il 23 aprile è il giorno della ricorrenza (della morte) di San Giorgio, protettore di tutti i cavalieri che hanno combattuto il male, il quale, in quasi tutte le storie e nelle leggende, veniva rappresentato dal drago.
Cavaliere viene chiamato in Veneto pure un bruco, il Bombyx Mori, conosciuto come baco da seta.
Proprio in questa data, le piccolissime uova del bruco venivano messe in incubazione sotto un caldo cuscino e, addirittura, venivano nascosti in gran segreto tra i seni procaci delle donne di casa, per accelerare la schiusa delle uova.

Mai nessun cavaliere fu così coccolato e viziato, nonostante fosse, per giunta, un insetto.

I bruchi rappresentavano la fonte del primo guadagno dell’anno, atteso dalle donne, soprattutto da quelle che si dovevano sposare, le quali erano in trepidante attesa della propria dote.
Molto spesso ciò avveniva attraverso la vendita dei preziosi bozzoli di seta.
Ricordo ancora oggi quando, un giorno, da ragazzo, andai a trovare un compagno di scuola e di giochi e non trovandolo subito in casa, iniziai a girovagare per le stanze, come facevo di solito.
Giunsi in un grande locale adibito all’allevamento del baco da seta.
L’allevamento era suddiviso in graticole e, nella stessa stanza, intravidi due donne di mezza età.
Non fui notato, quindi poté assistere ad un singolare rito ancestrale, risalente, molto probabilmente, ad una epoca precristiana e riferito all’antico culto della Dea Madre.
Le donne si erano alzate vistosamente le lunghe gonne fino al ventre, mostrando le bianche nudità, con in testa una corona, realizzata con le foglie e con i rami di gelso, e così “bardate” fecero tre giri intorno alle graticole, mormorando frasi a me incomprensibili.
Non rimasi però turbato dalla singolare scena!

Anzi, rimasi divertito!

Pur non riuscendo a capire lo scopo di quello “spettacolo”, non ebbi mai il coraggio di chiedere ai miei il significato di quello che avevo visto.
Infatti, nonostante anche a casa mia si allevasse il baco da seta, non rividi più la scena vista a casa del mio amico.
Continuai a coltivare i bachi da seta con passione finché, dopo essere rimasto l’unico e l’ultimo nel mio paese, fui costretto a smettere nel 1989, a causa dell’inquinamento ambientale portato da un insetticida irrorato a sproposito nei frutteti.
Il baco da seta, essendo una sentinella ecologica, non tollerava questo insetticida.
In quegli anni, su nostro invito, il parroco veniva a benedire l’allevamento e, in quel momento, veniva esposta per la cerimonia una immagine sacra della Madonna, come auspicio devozionale per la buona riuscita dell’allevamento.

Solo in età adulta, leggendo testi di antropologia religiosa,

ricordai il rito ancestrale a cui avevo assistito, non subito da me interpretato, essendo una prerogativa segreta delle donne, sopravvissuta nei secoli.
Penso di essere stato uno degli ultimi, casuali, spettatori che lo possono ancora raccontare.
Diverse volte ripensai alla scena che vidi, vissuta nel mio tranquillo e secolare borgo di Levada, e giunsi alla conclusione che nei muri e nei sassi dell’epoca sono celati, ancora oggi, segreti che a breve andranno persi per sempre, a causa del cambiamento urbanistico e culturale che il mio borgo e la nostra nazione hanno subito negli ultimi 70 anni.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

La foto, che è stata gentilmente fornita dall’autore, lo vede impegnato in una delle varie attività agricole che, ormai, svolge da anni.

La ragazza ed il mastelletto (Mastellina)

La ragazza ed il mastelletto (Mastellina)

Tanti, tanti anni fa, in un piccolo villaggio, vivevano un uomo e una donna.
Prima essi avevano abitato in una città, in un palazzo bello e ricco.
Ora invece vivevano poveramente in una misera capanna.
In tanta sfortuna, la loro unica consolazione era la figlia che avevano.
Sebbene ancor molto giovane, tutti l’ammiravano già per la sua straordinaria bellezza.
Ma, ahimé, prima che la ragazza fosse cresciuta, il padre morì e dopo pochi mesi anche la madre cadde gravemente malata.
“Che sarà di mia figlia, quando anch’io sarò morta?” ripeteva piangendo la donna, “È povera, e la sua bellezza sarà per lei soltanto un castigo.”
Quando la poverina sentì d’esser prossima a morire, chiamò a sé la ragazza, le raccomandò di essere buona e coraggiosa, e le disse di portarle il mastelletto di legno che stava dietro la porta.
La ragazza ubbidì e si inginocchiò accanto al letto della madre morente.
La donna alzò il mastelletto e lo mise in testa alla figlia in modo da nasconderle quasi completamente la faccia.
“Ora, figlia mia,” disse la donna, “promettimi di non toglierti mai di testa questo mastelletto.
Altrimenti, sarai molto infelice.”

La ragazza promise.

Morta che fu la madre, la ragazza campò come meglio poteva.
Lavorava sodo aiutando i contadini nei campi, e mai nessuno udì da lei una parola di lamento per quel che doveva fare.
La gente che la vedeva sempre col mastelletto in testa cominciò a chiamarla Mastellina.
A poco a poco tutti dimenticarono che sotto quella strana maschera si nascondeva il più bel volto del paese.
Un ricco possidente nei cui campi la ragazza lavorava, finì per accorgersi di lei, ammirato dalla sua modestia e diligenza.
Un giorno la chiamò, e le offrì di andare a servizio nella sua casa a curare la moglie ch’era molto malata.
La ragazza accettò l’incarico e svolse così bene il suo compito da meritarsi la fiducia di tutti.
Un giorno, il maggiore dei figli del padrone tornò a casa dalla città dove studiava.
Conobbe Mastellina, prese ad ammirare il suo carattere tranquillo e la sua indole buona, e andava chiedendo alla gente del villaggio notizie su di lei.
Seppe così che era un povera orfanella, da tutti chiamata Mastellina a causa appunto del mastelletto che portava in testa per nascondere, si diceva, i brutti lineamenti del suo viso.
Ma una sera, il giovanotto si avvicinò a Mastellina che portava un pesante secchio pieno d’acqua e vide il volto della ragazza riflesso nell’acqua del secchio.

Era di una bellezza eccezionale.

Egli decise subito di sposare la giovane serva.
I suoi genitori non approvarono la sua scelta, ma il giovane fu irremovibile e tanto disse e tanto fece che riuscì a fissare la data delle nozze.
Mastellina rimase molto male quando seppe che i suoi padroni non l’accettavano volentieri come nuora in casa loro.
Essa piangeva giorno e notte, e pregò il suo fidanzato di sposare una donna che potesse portargli una ricca dote.
Ma una notte essa vide in sogno sua madre, la quale le disse:
“Non temere, figlia mia.
Sposa pure il figlio del tuo padrone.”
La ragazza ne fu felice, si alzò tutta allegra e cominciò a prepararsi per le nozze.
Prima della cerimonia nuziale, tutti volevano togliere dal capo della sposa quello strano casco, ma nessuno ci riuscì.

Lo sposo però disse:

“Io le voglio tanto bene, e la sposerò così com’è!”
Le nozze furono celebrate.
Dopo la cerimonia ci fu uno splendido banchetto:
tutti erano intorno alla sposa a brindare alla sua salute, quando, all’improvviso, il mastelletto si spaccò in due cadendo per terra a pezzi con gran fracasso.
Oh meraviglia!
I pezzi erano tutti d’oro, d’argento e di pietre preziose.
Così la povera ragazza poté vantare una dote più bella e più ricca di quella di una principessa.
Ma quel che più stupì gli invitati fu la straordinaria bellezza della sposa.
I brindisi in onore della coppia felice non si contarono più; grida, canti e risate andarono avanti fino al mattino.

Brano di Bruno Ferrero

Tutti noi possiamo fare la differenza (La storia di Shay)

Tutti noi possiamo fare la differenza (La storia di Shay)

Ad una cena di beneficenza per una scuola che cura bambini con problemi di apprendimento, il padre di uno degli studenti fece un discorso che non sarebbe mai più stato dimenticato da nessuno dei presenti.
Dopo aver lodato la scuola ed il suo eccellente staff, egli pose una domanda:
“Quando non viene raggiunta da interferenze esterne, la natura fa il suo lavoro con perfezione.
Purtroppo mio figlio Shay non può imparare le cose nel modo in cui lo fanno gli altri bambini.
Non può comprendere profondamente le cose come gli altri.
Dov’è il naturale ordine delle cose quando si tratta di mio figlio?”
Il pubblico alla domanda si fece silenzioso.

Il padre continuò:

“Penso che quando viene al mondo un bambino come Shay, handicappato fisicamente e mentalmente, si presenta la grande opportunità di realizzare la natura umana e avviene nel modo in cui le altre persone trattano quel bambino.”
E da quel momento in poi, cominciò a narrare una storia:
“Shay e suo padre passeggiavano nei pressi di un parco dove Shay sapeva che c’erano bambini che giocavano a baseball.
Shay chiese:
“Pensi che quei ragazzi mi faranno giocare?”
Il padre di Shay sapeva che la maggior parte di loro non avrebbe voluto in squadra un giocatore come Shay, ma sapeva anche che se gli fosse stato permesso di giocare, questo avrebbe dato a suo figlio la speranza di poter essere accettato dagli altri a discapito del suo handicap, cosa di cui Shay aveva immensamente bisogno.
Il padre si Shay si avvicinò ad uno dei ragazzi sul campo e chiese (non aspettandosi molto) se suo figlio potesse giocare.
Il ragazzo si guardò intorno in cerca di consenso e disse:
“Stiamo perdendo di sei punti e il gioco è all’ottavo inning.

Penso che possa entrare nella squadra:

lo faremo entrare nel nono!”
Shay entrò nella panchina della squadra e con un sorriso enorme, si mise la maglia del team.
Il padre guardò la scena con le lacrime agli occhi e con un senso di calore nel petto.
I ragazzi videro la gioia del padre all’idea che il figlio fosse accettato dagli altri.
Alla fine dell’ottavo inning, la squadra di Shay prese alcuni punti ma era sempre indietro di tre punti.
All’inizio del nono inning Shay indossò il guanto ed entrò in campo.
Anche se nessun tiro arrivò nella sua direzione, lui era in estasi solo all’idea di giocare in un campo da baseball e con un enorme sorriso che andava da orecchio ad orecchio salutava suo padre sugli spalti.

Alla fine del nono inning la squadra di Shay segnò un nuovo punto:

ora, con due out e le basi cariche si poteva anche pensare di vincere e Shay era incaricato di essere il prossimo alla battuta.
A questo punto, avrebbero lasciato battere Shay anche se significava perdere la partita?
Incredibilmente lo lasciarono battere.
Tutti sapevano che era una cosa impossibile per Shay che non sapeva nemmeno tenere in mano la mazza, tanto meno colpire una palla.
In ogni caso, come Shay si mise alla battuta, il lanciatore, capendo che la squadra stava rinunciando alla vittoria in cambio di quel magico momento per Shay, si avvicinò di qualche passo e tirò la palla così piano e mirando perché Shay potesse prenderla con la mazza.
Il primo tiro arrivò a destinazione e Shay dondolò goffamente mancando la palla.
Di nuovo il tiratore si avvicinò di qualche passo per tirare dolcemente la palla a Shay.
Come il tiro lo raggiunse, Shay dondolò e questa volta colpì la palla che ritornò lentamente verso il tiratore.
Ma il gioco non era ancora finito.
A quel punto il battitore andò a raccogliere la palla:
avrebbe potuto darla all’ uomo in prima base e Shay sarebbe stato eliminato e la partita sarebbe finita.
Invece…
Il tiratore lanciò la palla di molto oltre l’uomo in prima base e in modo che nessun altro della squadra potesse raccoglierla.

Tutti dagli spalti e tutti i componenti delle due squadre incominciarono a gridare:

“Shay corri in prima base!
Corri in prima base!”
Mai Shay in tutta la sua vita aveva corso così lontano, ma lo fece e così raggiunse la prima base.
Raggiunse la prima base con occhi spalancati dall’emozione.
A quel punto tutti urlarono:
“Corri fino alla seconda base!”
Prendendo fiato Shay corse fino alla seconda trafelato.
Nel momento in cui Shay arrivò alla seconda base la squadra avversaria aveva ormai recuperato la palla…
Il ragazzo più piccolo di età che aveva ripreso la palla quindi sapeva di poter vincere e diventare l’eroe della partita, avrebbe potuto tirare la palla all’uomo in seconda base ma fece come il tiratore prima di lui, la lanciò intenzionalmente molto oltre l’uomo in terza base e in modo che nessun altro della squadra potesse raccoglierla.
Tutti urlavano:
“Bravo Shay, vai così!
Ora corri!”
Shay raggiunse la terza base perché un ragazzo del team avversario lo raggiunse e lo aiutò girandolo nella direzione giusta.
Nel momento in cui Shay raggiunse la terza base tutti urlavano di gioia.

A quel punto tutti gridarono:

“Corri in prima, torna in base!”
E così fece:
da solo tornò in prima base, dove tutti lo sollevarono in aria e ne fecero l’eroe della partita.”
“Quel giorno,” disse il padre piangendo, “i ragazzi di entrambe le squadre hanno aiutato a portare in questo mondo un grande dono di vero amore ed umanità!
Shay non è vissuto fino all’estate successiva.
È morto l’inverno dopo ma non si è mai più dimenticato di essere l’eroe della partita e di aver reso orgoglioso e felice suo padre.
Non dimenticò mai l’abbraccio di sua madre quando tornato a casa le raccontò di aver giocato e vinto.”

Ed ora una piccola nota al fondo di questa storia:

“Tutti noi possiamo fare la differenza!”
Tutti noi abbiamo migliaia di opportunità, ogni giorno, di aiutare il “naturale corso delle cose” a realizzarsi.
Ogni interazione tra persone, anche la più inaspettata, ci offre una opportunità:
passiamo una calda scintilla di amore e umanità o rinunciamo a questa opportunità e lasciamo il mondo.
Un uomo saggio una volta disse che ogni società è giudicata in base a come tratta soprattutto i meno fortunati:
“Ora a te fare la differenza!”
Molti fra noi hanno pensato fino ad oggi che la prova di coraggio più grande, fosse restare fedeli a se stessi, essere capaci di andare controcorrente, parlare con integrità:
ma fin qui siamo stati solo fortunati, perché non ci è stato chiesto nulla di più.
Ma ora ci vuole niente a capire che i tempi sono cambiati e impegnarsi in una battaglia politica in questo momento significa essere chiamati ad assumere impegni ben diversi.
In un mondo dove conta solo il successo, in una società dove tutto si compra e tutto si vende, ritengo che ci sia bisogno di persone desiderose di impegnarsi per gli altri con coraggio e con sacrificio.
Perché il coraggio è dote del cuore e solo chi non ha cuore ha paura.
Ed io non ho paura:
lavoro con pazienza ad un grande progetto, lavoro da anni alla tutela e per il rispetto per ogni uomo dei diritti civili fondamentali!

Brano senza Autore.

La felicità – Roberto Benigni


La felicità
Roberto Benigni
(a fine pagina troverete il video di questo brano, interpretato da Roberto Benigni e accompagnato dalle musiche di Paolo Buonvino)

La felicità…
Si, la felicità…
A proposito… di felicità… Cercatela, tutti i giorni, continuamente.
Anzi, chiunque mi ascolti ora, si metta in cerca della felicità, ora, in questo momento stesso, perché è lì…
Ce l’avete.

Ce l’abbiamo.

Perché l’hanno data a tutti noi.
Ce l’hanno data in dono quando eravamo piccoli.
Ce l’hanno data in regalo, in dote.
Ed era un regalo così bello che l’abbiamo nascosto, come fanno i cani con l’osso, quando lo nascondono.
E molti di noi lo hanno nascosto così bene che non si ricordano dove l’hanno messo.

Ma ce l’abbiamo, ce l’avete.

Guardate in tutti i ripostigli, gli scaffali, gli scomparti della vostra anima.
Buttate tutto all’aria!
I cassetti, i comodini, che ci avete dentro.
Vedrete che esce fuori.
C’è la felicità!
Provate a voltarvi di scatto, magari la pigliate di sorpresa.

Ma è lì.

Dobbiamo pensarci sempre alla felicità.
E anche se lei qualche volta si dimentica di noi, noi non ci dobbiamo mai dimenticare di lei.
Fino all’ultimo giorno della nostra vita.

E anche se lei qualche volta si dimentica di noi, noi non ci dobbiamo mai dimenticare di lei.
Fino all’ultimo giorno della nostra vita.
Brano tratto dallo spettacolo televisivo “I Dieci Comandamenti.”

Lo spaccapietre di Estimj


Lo spaccapietre di Estimj

Fin dai tempi dei tempi esisteva a Vergny lo spaccapietre.
Il mestiere era antico e se lo trasmettevano di padre in figlio da trentotto generazioni.
Sullo spaccapietre di Vergny ci si poteva contare: guerra o pace, abbondanza o carestia, lui ci sarebbe sempre stato.
Chi andava a Vergny sapeva che ce l’avrebbe trovato.
Così si credeva ma così non fu per sempre.
Un giorno il Sindaco di Vergny si presentò all’ultimo degli spaccapietre e gli disse:
“Ho una bella sorpresa per te: finalmente smetterai di faticare!”

Lo spaccapietre abbassò il martello e rispose:

“Cosa potrebbe sostituirmi se non mio figlio, così come io sostituii mio padre?”
Il sindaco rise e lo invitò a seguirlo fino ad un casolare fuori città, proprio sotto la montagna.
Quindi lo introdusse in una grande stanza, dalle volte altissime, imbiancata di fresco.
Una volta dentro il Sindaco indicò un enorme telo al centro della stanza che copriva qualcosa di davvero imponente e, ancora ridendo, continuò:
“Ecco cosa ti sostituirà!”
Quindi tirò via il telo e scoprì una gigantesca macchina fatta di infiniti rulli ruotanti di varie dimensioni.
“Bella, vero?
È l’ultima novità del progresso meccanico nel campo delle pietre.
Siamo il primo comune ad averla, nel paese e nell’Europa intera.
Ci aspettano anni di prodigi e di traffici intensi.”
Lo spaccapietre rimase con la bocca aperta per qualche minuto.
Infine disse, iniziando a girare intorno alla struttura luccicante:
“Ma come sarebbe a dire?”
“Sarebbe a dire che da domani sei in pensione.
La fabbrica, come vedi, è già pronta.

Non sei contento?”

“Ma…” provò a replicare lo spaccapietre.
“Non preoccuparti: non morirai di fame.
La pensione che ti darò sarà congrua ai tuoi cinquanta anni di fatiche.”
Così detto schiacciò un bottone e la macchina prese a digerire sassi grossi quanto piccole montagne con la voracità di un dinosauro.
Lo spaccapietre si sentì gelare.
“E…” tentò nuovamente di rispondere lo spaccapietre.
“E tuo figlio dovrà trovarsi un altro mestiere, come ogni bravo giovane che si rispetti.
Non è il primo, non sarà l’ultimo.
Non c’è niente di male in questo.”
Il rumore divenne assordante.
“Però…” provò ad obiettare lo spaccapietre.
“La fabbrica andrà avanti da sola.
Come vedi è progettata per non essere governata da nessuno.
Uno dei nostri operai verrà qui di tanto in tanto per vedere se tutto funziona come deve.”
replicò il sindaco.

“Sì ma…”

Mentre parlava, lo spaccapietre venne interrotto nuovamente dal sindaco:
“Niente ferie, niente malattia.
In un giorno spaccherà le pietre che tu spaccavi in un anno, direttamente dentro la montagna.
Ti fa invidia, vero?
Vorresti avere la sua forza?
I suoi denti?
Le sue braccia possenti?
Niente da fare, sei solo un uomo.
Mettiti il cuore in pace.”
“E…” provò ad aggiungere inutilmente.
“Può bastare.
Ti accompagno a casa.
Sii felice e goditi la tua vecchiaia.
Il tuo mestiere lo lasci in buone mani.” concluse il sindaco.
Una volta a casa lo spaccapietre si accasciò davanti al camino.
Doveva dire a suo figlio, che già era apprendista spaccapietre, di cercarsi un altro mestiere.
Le lacrime gli scesero sulla zuppa e le mangiò insieme ai fagioli.
Sua moglie non seppe fare altro che massaggiargli i calli delle mani, come ogni sera.
Avrebbe voluto dirgli qualcosa, ma non le venne tra le labbra nessuna buona parola.
Le uniche che seppe pronunciare furono:

“Ti insegnerò a ricamare le tovaglie!”

Dopo di queste non disse più niente.
Lo spaccapietre le prese per buone e non fu contento.
Sperava che avrebbe aiutato suo figlio fino alla morte, come suo padre con lui.
Quindi le rispose:
“Grazie, ma le tovaglie le lascio volentieri a qualcun altro.”
E così dicendo si addormentò piangendo.
Un mese dopo il figlio partì con il primo treno per il sud.
Era grande abbastanza per andare a cercarsi lavoro da solo, dovunque vi fosse stato.
Per consolare il padre, già sopra il treno, gli disse che quel mestiere, in fondo, non gli piaceva.
Che era felice di partire.
Che avrebbe trovato di meglio, senza dover rinunciare ad una famiglia, ad una casa e ad un buon pasto ogni giorno della settimana.
“Sei sicuro? Forse… cercando… insistendo…” chiese amorevolmente il padre.
“Sono sicuro!” rispose il figlio.
Lo spaccapietre fece finta di non sentire e lo lasciò partire.
Ricordava i giorni in cui gli spiegava i dettagli del suo lavoro.
Le prime pietre, immense, tra le mani.
I primi lavoretti d’apprendistato.

I primi calli.

Tutto era perduto.
Rimase con lo spaccapietre e sua moglie la giovane figlia.
Povera disgraziata!
Sarebbe cresciuta figlia di un pensionato senza mestiere, nessuno se la sarebbe presa in casa, nemmeno come serva.
Passarono così tre mesi senza gioie e senza miserie.
Finché una mattina lo spaccapietre si levò di buon’ora e si mise in cammino.
La pensione gli bastava per mangiare ma, da quando non aveva più un mestiere, non aveva più fame.
E poi c’era da mettere da parte la dote per la figlia, se la voleva maritare bene.
“Parto.” disse alla moglie.
“E dove vai? Sei vecchio.” lei gli rispose.
“Arriverò a Estimj e lì mi venderò al mercato.” replicò lui.
“E chi ti comprerà? Sei vecchio.” aggiunse lei.
“Qualcuno mi comprerà.
Poi tornerò e vi porterò con me.” rispose tranquillamente lui.
“Se tornerai!… sei vecchio.” ripetè nuovamente la moglie.

“Sai dirmi solo questo?” chiese lo spaccapietre.

Aveva deciso di passare la montagna per raggiungere Estimj, la grande città accanto al fiume.
Una volta lì avrebbe offerto la sua arte e la sua esperienza al miglior offerente.
Certo, sapeva fare soltanto lo spaccapietre, ma era già qualcosa.
Di sicuro avrebbe trovato qualcuno in grado di apprezzare le sue doti e la sua abilità.
Poi avrebbe richiamato con sé la sua famiglia e sarebbe invecchiato contento.
Avrebbe regalato alla figlia una bella dote e l’avrebbe sposata ad un uomo di giudizio.
Infine sarebbe morto come tutti i vecchi e al suo funerale la città avrebbe pianto.
Camminando su per la montagna giunse al grande fiume che divideva le due città di Vergny e di Estimj.
Si era già preparato a passare oltre quando vide che di là dal ponte la strada era interrotta.
Una grande frana, scendendo dalla montagna, l’aveva interamente sommersa.
“Come farò a raggiungere la città?” pensò.
Poi, vista la gravità della situazione, considerando che non aveva fretta, passò il ponte, si tolse la giacchetta e si mise subito a lavorare.
Era importante ripristinare quanto prima la via maestra.
Del resto erano mesi che non pesava più una sola pietra.

Un po’ di sana fatica l’avrebbe ritemprato.

Dopo alcune ore di lavoro, spostando e spezzando pietra su pietra, con attrezzi rudimentali, si trovò fra le mani il corpo di una giovane donna.
La ragazza, ferita, era svenuta ma ancora in vita.
Aveva soltanto bisogno di calore, riposo e cure.
“Adesso devo andare in città.
Questa giovane ha bisogno d’essere medicata.
E manca poco all’apertura del mercato.
Fortuna che ho quasi finito.
Il resto del lavoro, poche pietre, lo potrà compiere qualcuno degli addetti alla manutenzione delle strade.”
Detto questo si caricò la giovane sulle spalle e partì.
Appena in città lo spaccapietre consegnò la giovane ad un’infermiera dell’ospedale e si recò al mercato.
“Hei… lei… dove scappa?” chiese l’infermiera.
“Devo andare assolutamente al mercato!” rispose il vecchio spaccapietre.

“Ma questa giovane?” continuò l’infermiera.

“Era sepolta sotto una frana, accanto al ponte.
Presto, non perda tempo con me: è ancora in vita!” replicò lui.
“Ma lei: come si chiama?
Qualcuno vorrà sapere!” provò ad aggiungere l’infermiera.
“Che importa, infermiera: le salvi la vita, il resto andrà da sé!” concluse.
“Vendesi fatica di spaccapietre esperto.
Cinquant’anni di lavoro e di maestria.
Opere pulite e senza polvere…”
Il mercato era pieno d’ogni ben di dio.
Lo spaccapietre si mise in mostra, urlò come tutti gli altri e aspettò per l’intera mattinata.
Non lo volle comprare nessuno.
Qualcuno gli chiese di dare dimostrazione della sua forza.
Ci provò ma era talmente stanco, dopo tutto quel lavoro notturno, che non riuscì a sollevare nemmeno un sassolino.
“A Vergny c’è una macchina che trita la montagna senza una sola goccia di sudore!” gli dissero.
“Che costa poco e che lavora parecchio.

Soprattutto senza un’ombra di difetto.

Si dice che nessuno le faccia da guardia e che faccia tutto da sola.
A Vergny stanno arricchendo a vista d’occhio.
Tutti vanno a Vergny per le pietre.
A che serve, ormai, uno spaccapietre?”
Era seduto sconsolato sui gradini del Duomo, a stomaco vuoto, quando sentì da una radio accesa accanto ad una finestra aperta la seguente notizia:
“Questa mattina la figlia del Gran Magnate del Tabacco di Estimj, ancora priva di sensi, è stata lasciata in ospedale da uno sconosciuto.
La giovane, sveglia da circa un’ora, ha raccontato d’aver perso conoscenza vicino a Ponte Salvo, sepolta da una frana.
Sta bene e, per sua fortuna, non ha riportato alcuna lesione né interna né esterna.
Solo qualche graffio e qualche esile ferita.
Ma poteva andarle molto peggio.
Il Sindaco di Estimj si è detto disponibile, come segno di riconoscenza e a nome della città tutta, ad esaudire qualsiasi desiderio gli sia fatto pervenire dallo sconosciuto salvatore, purché si presenti!”
La notizia sollevò il morale dello spaccapietre, che si alzò e si mise in cammino verso il Municipio della grande città.
“Gli chiederò la grazia di darmi lavoro come spaccapietre in questa città.

È grande e ne avrà bisogno.

E inoltre di permettermi di trasferire con me anche mia moglie e mia figlia e di trasmettere la mia arte e il mio mestiere a mio figlio, come da trentotto generazioni avviene nella mia famiglia.
E di farmi vivere contento finché non sarò sepolto.”
Al Municipio lo spaccapietre fu ammesso a colloquio ma non fu creduto.
La storia che raccontò sembrava combaciare con quella narrata dalla figlia del Gran Magnate del Tabacco, ma chi la raccontava era troppo vecchio per una simile opera, gli rispose il Sindaco in persona, e troppo stolto.
“Le assicuro che ero proprio io, sulla montagna…” disse lo spaccapietre.
“Basta così! L’accuso di attentare al buon nome della città, nonché alla mia buona fede personale e a quella del Gran Magnate del Tabacco.”
Così dicendo il Sindaco chiamò le guardie e lo fece rinchiudere in galera.
La notizia dell’arresto corse in fretta per l’intera città e anche oltre:
“Un vecchio spaccapietre, licenziato dal suo lavoro per inedia, ha rivendicato il salvataggio della giovane figlia del Gran Magnate del Tabacco.
Fonti ben informate raccontano che, per la sua buona azione, abbia chiesto in ricompensa una casa, un lotto di terra, un conto milionario in una banca fuori paese, un posto alle Poste per il figlio debosciato, un marito barone per la figlia svergognata, una pensione d’invalida per la moglie nullatenente e per se stesso una vasca idromassaggio, un cane di razza e un’amante fotomodella di non più di ventidue anni.

È stato arrestato per menzogna acclamata.”

Fortunatamente i giornali pubblicarono anche la sua foto.
La città ci sputò sopra ma l’infermiera che quella mattina aveva accolto la ragazza lo riconobbe e testimoniò per lui in tribunale.
Il pianto della giovane donna salvata, nel sentire la voce dell’anziano spaccapietre mentre raccontava ancora una volta tutta la storia, fu la prova decisiva della sua buona fede.
Il Gran Magnate del Tabacco pianse con la figlia e gli regalò una scatola di sigari in legno d’abete.
Dopo quindici mesi lo spaccapietre di Vergny venne così rilasciato con le scuse della Magistratura, del Tribunale, della Corte, del Guardiacella e del Sindaco in persona.
“Mi chieda qualsiasi cosa: ho con lei un enorme debito da saldare!”
Lo spaccapietre non sapeva più cosa chiedere.
In tutto quel tempo il figlio aveva trovato un buon lavoro come netturbino, la figlia si era fidanzata con un promettente banchiere figlio di banchieri e lui era invecchiato a vista d’occhio.
Adesso le pietre le poteva solo carezzare.
“Vorrei tornare a casa, e niente più.”
Il Sindaco crollò di schianto.
Stava preparando la sua ricandidatura al seggio più alto della città e voleva presentarsi ai suoi concittadini con un gesto di grande impatto emotivo.
Tirò le somme e pronunciò:
“Se non chiede nulla le darò io qualcosa.”
Così detto tirò fuori da un cassetto una grossa chiave d’oro.
“Le consegno le chiavi della città!

Da oggi sarà questa la sua casa!”

“Il Municipio?” chiese il vecchio spaccapietre, ingenuamente.
“Ma no!” proseguì il Sindaco ridacchiando:
“La città intera.
Scelga una casa e sarà sua.
Un giardino e sarà suo.
Un pezzo di terra e sarà suo.
Al resto penserò io, purché si sappia.
Le farò avere un congruo compenso e una congrua pensione.
Il tutto a spese del paese.
Lo spaccapietre ringraziò per l’offerta e scelse la casa più modesta.
La scelse perché da ogni finestra si poteva vedere la montagna.
Che poi avesse un solo bagno, due stanze e una cucina non gli importava.
Si fece fare pure una rimessa per i suoi attrezzi e le sue pietruzze.
Già si vedeva a fabbricare piccoli portavasi in marmo sotto l’ombra di un pino nei pomeriggi estivi.
Quindi invitò la moglie a raggiungerlo e maritò la figlia e il figlio; e tutto proseguì per il meglio.
La conclusione, dopo tanti anni, si può ancora leggere nella targa affissa a Estimj in Piazza Mastù, proprio di fronte al Duomo:
“Qui riposò un giorno lo spaccapietre che spostò una montagna, salvò una donna e recitò canzoni per il carcere circondariale.”

Brano senza Autore, tratto dal Web