È tempo, vieni!

È tempo, vieni!

Un’anziana signora stava stirando!
Arrivò l’Angelo della morte e le disse:
“È tempo, vieni!”

La donna rispose:

“Va bene, ma lasciami finire di stirare tutta la biancheria!
Chi lo fa altrimenti?
E poi devo cucinare; mia figlia lavora fino a tardi:
ha bisogno di qualcosa da mangiare quando torna a casa sfinita…
Lo capisci questo?”
L’Angelo se ne andò…
Dopo un po’ di tempo, tornò!
Chiese alla donna se fosse pronta a lasciare la casa…
“È tempo, vieni!” le disse.

La donna rispose:

“Questa è la mia ora per il turno alla casa di riposo per anziani!
Là mi aspettano almeno dieci persone dimenticate dalla loro famiglia…
Posso piantarle in asso, così?”
L’Angelo se ne andò!
Dopo un po’ di tempo tornò e disse:
“È l’ora, andiamo!”
La donna rispose:
“Sì, sì!
Hai ragione!
È giusto!
Ma chi va a prendere il mio nipotino alla Scuola Materna se io non ci sono più?”
L’Angelo sospirò:
“D’accordo, aspetterò finché il tuo nipotino potrà andare a Scuola da solo!”
Alcuni anni dopo, la donna era stanca e piena di acciacchi e, seduta sulla sua poltrona, pensava:
“Adesso potrebbe arrivare l’Angelo…
Dopo tutta la fatica, la Casa di Dio deve essere meravigliosa!”
L’Angelo arrivò…

La donna chiese:

“Mi porti, adesso, nelle braccia di Dio?”
L’Angelo rispose:
“Dove credi di essere stata in tutto questo tempo?”

Brano senza Autore

Il capitale della famiglia

Il capitale della famiglia

Un papà aveva passato la cera sulla carrozzeria dell’auto e ora la strofinava accuratamente per renderla splendente.
Il figlio undicenne lo aiutava, passando lo straccio sui paraurti.
“Vedi, ragazzo mio,” diceva il padre, “l’auto è un capitale della famiglia, dobbiamo dedicargli cure, attenzioni e tempo.”

“Certo, papà.” rispose il ragazzino.

“Ecco, bravo!” si complimentò il padre.
Seguì un momento di silenzio.
“Allora, io non sono un capitale della famiglia?” mormorò piano il figlio.

“Perché?” domandò il padre.

“Tu non hai mai tempo per me!” rispose deluso il figlio.

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Un mio amico ha un figlio fanatico della pallacanestro.
Al mio amico la pallacanestro non è mai interessata.
Ma un’estate egli sacrificò le ferie per portare il figlio a vedere tutti gli incontri delle nazionali ai campionati europei di pallacanestro.
Il viaggio richiese oltre tre settimane e costò una bella cifra.

Al mio amico fu chiesto al suo ritorno:

“Ma davvero ti piace così tanto la pallacanestro?”
“Per niente,” rispose, “ma mi piace tanto mio figlio.”

Brano senza Autore

Il bambino e la cameriera

Il bambino e la cameriera

La famiglia si accomodò ad un tavolo del ristorante.
La cameriera raccolse prima le ordinazioni degli adulti e poi si rivolse al piccolo di sette anni.

“Tu che cosa prendi?” gli domandò.

Il bambino si guardò intorno timidamente e disse:
“Vorrei un panino con la salsiccia.”
La cameriera non aveva ancora iniziato a scrivere, quando la madre del piccolo la fermò.

“Macché panino,” disse,

“gli porti una bistecca con carote e purè di patate!”
La cameriera non le fece caso e chiese al bambino:
“Come lo vuoi il panino, col ketchup o con la senape?”
“Ketchup, grazie.” rispose il bambino.
“Arrivo fra un minuto.” disse la cameriera, mentre ritornava in cucina.

A tavola erano tutti ammutoliti per lo stupore.

Alla fine il bambino fissò i presenti a uno a uno ed esclamò:
“Ehi! Lei crede che io esisto davvero!”

Brano senza Autore

L’amicizia in istituto

L’amicizia in istituto

Il piccolo e zoppo Leonardo (detto Leo) e Tommaso erano arrivati all’istituto per bambini senza famiglia lo stesso giorno, pochi mesi dopo la nascita.
Le volontarie erano molto buone con loro, un po’ meno i bambini della scuola pubblica che frequentavano.
Erano crudeli spesso con il timido Leo, ma Tommaso sapeva metterli a posto, perché era un bambino robusto e intelligente:

il più bravo a scuola e il più svelto in cortile.

Era Tommaso che aiutava Leo, gli stava sempre vicino.
Lo consolava quando aveva paura, lo aspettava durante le passeggiate, giocava con lui perché non sentisse la malinconia del suo handicap, lo faceva ridere raccontandogli le storie buffe.
All’istituto venivano spesso le coppie che facevano conoscenza con i bambini e li portavano fuori a mangiare in vista di una possibile adozione.
Nessuno si interessava a Leo e Tommaso inventava sempre una scusa o si metteva a fare mattane per non uscire.
Lo aveva fatto solo due volte, con il dottor Turrini e sua moglie Anna.
Una domenica, il dottor Turrini chiamò Tommaso e lo guardò negli occhi:
“Sei un bambino veramente in gamba!

Ti piacerebbe venire a vivere con noi?

Saresti in affidamento per un po’, ma noi ti vorremmo adottare.
Come un vero figlio.
Che ne dici?”
Tommaso rimase senza parole.
Avere una mamma e un papà, come tutti.
“Oh, oh s-s-sì, signore!” mormorò.
Improvvisamente la gioia svanì dai suoi occhi.
Se Tommaso se ne andava, chi si sarebbe preso cura del piccolo e zoppo Leo?
“lo … vi ringrazio tanto, signore!” disse, “Ma non posso venire, signore!”

E prima che il dottore scorgesse le sue lacrime, corse via.

Poco dopo, il dottore lo andò a cercare con una delle volontarie.
Tommaso stava aiutando Leo a infilarsi la scarpa speciale.
Il dottore lanciò uno sguardo penetrante a Tommaso:
“È per lui che non sei voluto venire a stare con noi, figliolo?”
“Beh, io … io sono tutto quello che lui ha.” rispose il bambino.

Brano tratto dal libro “Ma noi abbiamo le ali.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Avere gli occhi scuri

Avere gli occhi scuri

Emy era una bella bimba di tre anni…
Viveva in una cittadina americana sulla costa atlantica!
Amava la sua famiglia e ammirava gli occhi azzurri di suo padre, di sua madre e dei suoi fratelli.
Tutti in casa di Emy avevano occhi azzurri!
Tutti tranne Emy!
Il sogno di Emy era avere occhi azzurri come il mare, e li desiderava più di ogni altra cosa…
Un giorno udì la maestra dire:
“Dio risponde a tutte le preghiere!”
Emy trascorse tutto il giorno a pensarci…

A sera, andando a letto, s’inginocchiò e pregò:

“Papà del Cielo, grazie per aver creato il mare, che è bellissimo!
Grazie per la mia famiglia…
Grazie per la mia vita!
Mi piacciono moltissimo tutte le cose che hai fatto e quelle che stai facendo ma, vorrei chiederti, per favore, quando domattina mi sveglierò, potrei avere degli occhi azzurri come quelli di mamma?
Nel nome di Gesù, Amen!”
Appena sveglia, il giorno dopo, corse allo specchio!
Guardò…
Ma, i suoi occhi erano castano scuro, come sempre!

Perché Dio non l’aveva ascoltata?

Forse per rendere più forte la sua fede?
Quel giorno Emy si rese conto che anche un “No” era una risposta!
Nonostante tutto, la bambina conservò intatta la sua fiducia in Dio…
Diversi anni dopo, Emy partì come missionaria volontaria in India!
Il suo compito era “riscattare” i bambini che le famiglie più povere vendevano ai mercanti come “pezzi di ricambio” per i trapianti…
Però, per entrare nei “giri” del traffico senza essere riconosciuta come straniera, doveva travestirsi da indiana!
Passava polvere di caffè sulla pelle, tingeva i capelli, si vestiva con il “sari”, ed entrava, liberamente, nei luoghi di vendita dei bambini…
Poteva camminare, tranquilla, per tutto il “mercato infantile”, poiché sembrava, in tutto e per tutto, un’indiana!

Un giorno, una sua amica missionaria la guardò travestita e le disse:

“Oh, Emy!
Hai mai pensato a come avresti fatto a travestirti se avessi avuto gli occhi chiari come tutti quelli della tua famiglia?
Siamo proprio al servizio di un Dio intelligente!
Ti ha dato occhi molto scuri perché sapeva che sarebbero stati essenziali per la missione che ti avrebbe affidato nella vita!”

Brano senza Autore

Diventerai una persona straordinaria

Diventerai una persona straordinaria

C’è un vecchio detto dalle mie parti:
“Se a una libellula togli le ali, avrai un brutto insetto.
Ma se a un brutto insetto aggiungi le ali, avrai una libellula.”
Questo detto mi ha fatto tornare in mente la mia maestra delle scuole elementari, la signora Dalla Torre, la quale aveva previsto grandi cose per il mio futuro.
Ora vi racconterò brevemente un fatto che ora che ci penso, ha proprio cambiato in positivo la mia vita.

Ero un ragazzino ordinario da tutti i punti di vista.

Ero di statura normale e provenivo da una famiglia del ceto medio.
Non ero lo studente più brillante, ma non ero nemmeno il peggiore della classe.
Ricordo la signora Dalla Torre come una donna severa sui trentacinque anni.
Aveva un figlio che frequentava la mia stessa scuola:
io lo conoscevo bene perché l’anno precedente giocavamo nella stessa squadra di calcio.
Un giorno, mentre attraversavo il cortile alla fine delle lezioni, il figlio della signora Dalla Torre si avvicinò e mi invitò ad andare a giocare ai videogiochi a casa sua.
L’idea mi tentava, ma avevo paura di imbattermi nella signora Dalla Torre.

Compresa la mia esitazione,

il mio amico mi assicurò che sua mamma rientrava di rado prima delle quattro del pomeriggio.
Acconsentii, facendo presente che me ne sarei andato prima di quell’ora.
Ci divertimmo moltissimo con i suoi videogiochi, che ci rapirono al punto da farci dimenticare l’orario.
Ad un certo punto la porta di casa si spalancò e sentii la signora Dalla Torre entrare.
Mi irrigidii, immaginando che sarei stato sgridato oppure messo in castigo per aver giocato invece di fare i compiti.
Con mia sorpresa, la signora Dalla Torre mi salutò con un gran sorriso.
Si rivolse a me con gentilezza e mi abbracciò come se fossi suo figlio.
Grazie a quell’abbraccio compresi che la mia maestra in realtà era una persona gentile e amorevole, che in classe appariva severa per mantenere il controllo dei suoi scolari.
Preparò una merenda buonissima a base di Nutella, una cosa che accordava a suo figlio soltanto in rare occasioni:

mi fece sentire così un ospite speciale.

Mentre mangiavo mi accarezzò affettuosamente il capo e disse:
“Sarai un buon studente e un autentico modello per i tuoi amici.
Sono sicura che diventerai una persona straordinaria, che porterà saggezza e felicità a tantissima gente.”
Nel mio giovane cuore provai un’emozione difficile da esprimere a parole.
Di fatto, dopo quel giorno, mi misi a studiare sodo e cercai di essere un esempio positivo per gli altri studenti.
Poiché la signora Dalla Torre aveva riposto la sua fiducia in me, ero determinato a non deluderla.
Oggi, ora, penso di essere diventato ciò che sono, grazie alle sue parole di quel pomeriggio.
Senza quel suo incoraggiamento non avrei avuto la fiducia necessaria per eccellere negli studi, né per diventare docente universitario e guida spirituale.
Oggi non manco mai di infondere motivazione nei miei studenti e al prossimo.

Brano senza Autore

Il sogno di Rodolfo

Il sogno di Rodolfo

Anticamente, quando i genitori volevano inculcare nei figli l’idea che l’uomo, fin dall’infanzia, deve battere le vie della santità, senza lasciare le questioni della religione per la vecchiaia, erano soliti raccontare loro delle storie, come questa.
Il giovane Rodolfo, uomo forte e sano, di bell’aspetto, non immaginava che sarebbe un giorno morto o, per lo meno, pensava questo gli sarebbe accaduto dopo molti e molti anni.
In un freddo pomeriggio di ottobre del 1321, egli si inoltrò in una folta foresta, durante una passeggiata.
Ormai all’imbrunire, avvistò tra gli alberi qualcosa che gli sembrava una parete.
Stanco, si avvicinò e vide che era un’antica cappella abbandonata.
Entrò.

Tutto era in rovina:

vetrate rotte, banchi capovolti, polvere accumulata, pipistrelli, ecc.
Per lo meno, pensò, ci sono le pareti ed un tetto, è meglio che niente.
Unendo alcuni banchi, improvvisò dunque un letto e, esausto com’era, si addormentò in un baleno.
A notte fonda fu svegliato da un suono di campane.
Estremamente sorpreso, si sfregò bene gli occhi, non riuscendo a credere a quello che vedeva:
la piccola cappella era illuminata e piena di fedeli.
Sull’altare, un sacerdote stava celebrando la Messa.
Vicino al presbiterio, c’era una bara.
Era dunque una Messa funebre, concluse.
“Mi scusi, signora, ma in memoria di chi è celebrata questa Messa?” chiese.
“Allora non sa chi è morto?
È uno che si è perso in questa foresta, mentre faceva una passeggiata ed è stato trovato morto oggi…

Rodolfo ebbe un sussulto.

Con uno strano presentimento, volle sapere chi fosse quel giovane.
Si avvicinò alla bara, sollevò il velo che copriva il volto del defunto e… sentì un terribile brivido lungo la schiena.
Il morto era lui!
Era ormai invecchiato, certamente, ma non c’era alcun dubbio che era proprio lui quello che si trovava nella bara.
Lanciò un grido di spavento e… si svegliò.
Comprese allora che quel terribile sogno era un avvertimento del cielo: egli sarebbe morto esattamente di lì a 50 anni.
Uscì dalla chiesa e ritornò nella bella casa della sua agiata famiglia, dove era in corso una magnifica festa.
In mezzo all’allegria e ai divertimenti, pensò:
“50 anni è molto tempo.
Vuoi sapere una cosa?

Farò una ripartizione intelligente:

nei primi 25 anni, mi godrò la vita e nei 25 seguenti mi preparerò seriamente alla morte.
Trascorse così 25 anni in divertimenti, viaggi, feste, gite e continua allegria.
Ma… passarono molto rapidamente!
Allora, il Conte decise:
“Guarda, guarda, 25 anni è troppo tempo per prepararsi alla morte, così, i prossimi 15 anni saranno un prolungamento dei 25 anni che sono già passati.
Quando ne mancheranno solo 10, allora sì, mi preparerò seriamente!”
E così accadde… furono altri 15 anni di piaceri, che trascorsero più rapidamente dei 25 anni precedenti.
Ad ogni scadenza, il Conte faceva una nuova “ripartizione intelligente” del tempo restante, giungendo in questo modo, al suo ultimo mese di vita.
Un mese soltanto!
Era, dunque, necessario congedarsi da parenti e amici.
Mandò una lettera a tutti gli amici, invitandoli ad una grande festa.
Dopo 25 giorni, erano tutti riuniti nella sua villa.
Furono tre giorni d’intensa commemorazione.

Gli restavano ora soltanto due giorni!

“Non posso lasciar partire i miei ospiti senza un banchetto di commiato!” pensò il Conte fissando un monumentale pranzo per il 25 ottobre, suo ultimo giorno di vita!
Dopo la festicciola, sentì la necessità di riposare un poco, per poter allora fare una buona confessione.
Mentre era a letto, sentì le prime avvisaglie della morte imminente, chiamò un domestico e, con voce da oltre tomba, lo mandò a chiamare in gran fretta un prete.
Il fedele servitore corse al villaggio vicino, alla ricerca del Parroco.
Nel frattempo Rodolfo, che aveva sprecato i 50 anni di tempo che aveva per prepararsi, cominciò a vedere figure che si muovevano intorno al suo letto, come fossero in attesa del momento di condurlo all’aldilà.
Ansimante, osservava l’ampollina del tempo che stava ormai esaurendosi.
Mancavano appena cinque minuti alla mezzanotte, ed egli udì il rumore del carro che si approssimava, con il prete.

Troppo tardi!

Prima che entrasse il sacerdote, scoccò il primo rintocco delle campane, che annunciavano il nuovo giorno!
Disperato, Rodolfo emise un terribile urlo e… si svegliò veramente.
Con grande sollievo, si rese conto di trovarsi davanti al crocifisso arrugginito della cappella in rovina nel mezzo della foresta, dov’era entrato a riposare poche ore prima.
Non si era trattato che di un sogno.
Ma non di un semplice sogno, no!
Perché il giovane Rodolfo prese sul serio il misericordioso avvertimento.
Da quel momento in poi, seguì con determinazione il cammino della virtù.
Facendo un esame di coscienza quotidiano e la confessione frequente, si mantenne sempre preparato per l’ultimo e più importante giorno della sua vita:
quello del suo incontro con Dio.

Brano senza Autore.

Complice di Cupido

Complice di Cupido

Prima di dedicarmi all’agricoltura, proseguendo così l’attività di famiglia, come già raccontato, lavorai in una fabbrica fino all’età di trent’anni.
La fabbrica è un mondo a se, dove si cresce umanamente e professionalmente, ma solo impegnandosi ed apprendendo le dinamiche del gruppo si riescono a superare i conflitti sempre presenti e a far nascere nuove amicizie che durano tutta la vita.
La mia mansione la svolgevo su una macchina per lo stampaggio della plastica per scarponi da sci di un noto marchio.

La routine del lavoro non era per niente creativa.

Per questa ragione cercavo di umanizzarlo il più possibile, inventandomi ogni tanto qualcosa che ci distraesse dalla monotonia.
Un mio amico di reparto si faceva notare per la sua laboriosità e professionalità, ma anche per la sua timidezza, nonostante desiderasse ardentemente avere una fidanzata.
A causa della sua timidezza aveva delle serie difficoltà con il gentil sesso.

Cercai di andargli incontro con uno stratagemma.

Un giorno gli dissi che, nel reparto adiacente della vicina manovia, c’era una ragazza che lo fissava di continuo.
Oltre ad essere bella ed intelligente, secondo me, era la persona ideale per lui.
Feci avere in tempo reale alla ragazza in questione, la quale era una mia carissima amica, un biglietto dal jolly della fabbrica che aveva ampia libertà di movimento.
Inoltre le segnalai che da tempo era insistentemente ammirata dal mio collega.
Fu bello vederli alzarsi continuamente in punta di piedi per superare gli ostacoli e guadarsi a vicenda, con i riti del corteggiamento, notando, in seguito,

i primi appuntamenti al distributore del caffè.

Ne nacque una relazione duratura che confluì nel matrimonio ed alle nozze fui un invitato di riguardo.
Essere stato complice, in questo caso, di Cupido e delle sue frecce, mi diede una grande soddisfazione, dato che all’inizio della bella storia d’amore seguirono il matrimonio e la prole.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

La divisione dei fagioli

La divisione dei fagioli

Correva l’anno bisestile 1948.
Uno dei primi anni in cui l’Italia stava cercando di riprendersi dalla seconda guerra mondiale, con una difficile ricostruzione da cui ripartire, mentre il mondo stava per dividersi in due blocchi geopolitici, quello comunista e quello occidentale, che daranno inizio, nei successivi anni, alla guerra fredda ed alla costruzione del muro di Berlino.
La società veneta era in grande fermento, soprattutto quella contadina, aggravata dall’atavico assetto dell’istituzione patriarcale, che costringeva a vivere e lavorare, sotto lo stesso tetto, fratelli con prole allora numerosa.
A gestire, con le rigide regole di quell’epoca, era di norma il vecchio capofamiglia che, quando veniva a mancare,

rendeva la divisione per i figli quasi obbligatoria.

Erano le donne a proporre maggiormente i propri uomini per la gestione del nucleo famigliare e per la divisione dei beni, sperando di ottenere più autonomia e libertà.
La parola più gettonata era democrazia.
Non sempre la divisione avveniva in un clima sereno.
Risultava sempre difficile ottenere la parte migliore dal poco che si aveva e, nel tirare la coperta troppo corta, qualcuno rimaneva sempre scoperto.
In questo contesto, a Levada, due fratelli decisero di procedere alla spartizione dell’eredità, assoldando un mediatore per dividere casa, terra e bestiame.
Per le cose restanti decisero di fare da soli, per cercare di risparmiare.

Sorsero, però, subito dei problemi.

L’incidente più eclatante avvenne nel granaio dove, dopo essersi strattonati per la divisione di un sacco di mais e uno di preziosi e nutrienti fagioli, fecero cadere per le scale i due sacchi, che si ruppero.
I cereali si mischiarono con i legumi provocando un vero e proprio disastro, anche se l’aspetto cromatico dei vari colori era veramente bello da vedere.
Tutta la famiglia, bambini compresi, fu costretta a separare i due prodotti con una pazienza certosina, ma nel contempo aiutò tutti a riflettere ed a riportare calma e armonia.
La divisione dei beni proseguì.
Grazie a questo episodio nacque una grande e duratura solidarietà, che si perpetuò nel tempo.
Anche oggi, i discendenti diretti beneficiano di quel particolare episodio.
Inoltre ne trae giovamento anche il paese, che li fa operare in armonia per la riuscita della festa patronale.

Emilio Durighello,

testimone bambino di allora, si commuove nell’evocare l’episodio e conserva gelosamente, ancora oggi, una piccola manciata di quei fagioli, riservati per il gioco collettivo della tombola.
Per il proprietario, il tempo trascorso li ha impreziositi di valore, dato che, quei fagioli fanno riaffiorare nella sua mente un vivo ricordo della singolare vicissitudine famigliare.
I fagioli possiedono, come caratteristica magica, la forza di unire e mai quella di dividere, come avviene nel campo, nel baccello, in pentola ed in famiglia.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Il punto interrogativo

Il punto interrogativo

Era molto grazioso e, come tutti i punti interrogativi, aveva l’aria molto intelligente.
Da un po’ di tempo, però, girava per il paese sconsolato, amareggiato, deluso e depresso.
Apparentemente, nessuno lo voleva più!
Tutti ricorrevano, con sempre maggiore frequenza, al suo nemico acerrimo:
il punto esclamativo!

Tutti gridavano:

“Avanti!
Fermi!
Muoviti!
Togliti dai piedi!”
Il “punto esclamativo” è tipico dei prepotenti, e oramai i prepotenti dominano il mondo.
Anche per le strade e le vie cittadine, dove un tempo il “punto interrogativo” si sentiva un re, non c’era più nessuno che chiedeva:
“Come stai?” sostituito ora da:
“Ehilà!”
Non c’era più nessuno che fermava l’auto, abbassava il finestrino e chiedeva:
“Per favore, vado bene per Bergamo?”
Ora, usavano tutti il “navigatore satellitare” che impartisce gli ordini con decisione:

“Alla prima uscita, svoltare a destra!”

Stanco di girovagare, si rifugiò in una famiglia.
I bambini hanno sempre amato i punti interrogativi.
Ma, anche là, trovò un padre ed un figlio adolescente, che duellavano tutto il giorno, con i punti esclamativi…
“Non mi ascolti mai!” disse il figlio
“Non m’importa che cosa pensi!
Qui comando io!” esclamò il padre
“Basta! Me ne vado per sempre!” esclamò il figlio.
Alla fine, il padre era spossato e deluso; il figlio mortificato e scoraggiato, quindi aggressivo.
E soffrivano, perché non c’è niente di più lacerante, che essere vicini fisicamente e lontani spiritualmente.
Il punto interrogativo si appostò sotto il lampadario, ed alla prima occasione entrò in azione…
Accigliato e con i pugni chiusi, il padre era pronto allo scontro, ma dalla sua bocca uscì un:
“Che ne pensi?” che stupì anche lui.

Il figlio tacque, sorpreso:

“Davvero lo vuoi sapere, papà?”
Il padre annuì. Parlarono.
Alla fine, dissero quasi all’unisono:
“Mi vuoi ancora bene?”
Il “punto interrogativo” felice, faceva le capriole sopra il lampadario!

Brano tratto dal libro “C’è ancora qualcuno che danza.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.