Tutti noi possiamo fare la differenza (La storia di Shay)

Tutti noi possiamo fare la differenza (La storia di Shay)

Ad una cena di beneficenza per una scuola che cura bambini con problemi di apprendimento, il padre di uno degli studenti fece un discorso che non sarebbe mai più stato dimenticato da nessuno dei presenti.
Dopo aver lodato la scuola ed il suo eccellente staff, egli pose una domanda:
“Quando non viene raggiunta da interferenze esterne, la natura fa il suo lavoro con perfezione.
Purtroppo mio figlio Shay non può imparare le cose nel modo in cui lo fanno gli altri bambini.
Non può comprendere profondamente le cose come gli altri.
Dov’è il naturale ordine delle cose quando si tratta di mio figlio?”
Il pubblico alla domanda si fece silenzioso.

Il padre continuò:

“Penso che quando viene al mondo un bambino come Shay, handicappato fisicamente e mentalmente, si presenta la grande opportunità di realizzare la natura umana e avviene nel modo in cui le altre persone trattano quel bambino.”
E da quel momento in poi, cominciò a narrare una storia:
“Shay e suo padre passeggiavano nei pressi di un parco dove Shay sapeva che c’erano bambini che giocavano a baseball.
Shay chiese:
“Pensi che quei ragazzi mi faranno giocare?”
Il padre di Shay sapeva che la maggior parte di loro non avrebbe voluto in squadra un giocatore come Shay, ma sapeva anche che se gli fosse stato permesso di giocare, questo avrebbe dato a suo figlio la speranza di poter essere accettato dagli altri a discapito del suo handicap, cosa di cui Shay aveva immensamente bisogno.
Il padre si Shay si avvicinò ad uno dei ragazzi sul campo e chiese (non aspettandosi molto) se suo figlio potesse giocare.
Il ragazzo si guardò intorno in cerca di consenso e disse:
“Stiamo perdendo di sei punti e il gioco è all’ottavo inning.

Penso che possa entrare nella squadra:

lo faremo entrare nel nono!”
Shay entrò nella panchina della squadra e con un sorriso enorme, si mise la maglia del team.
Il padre guardò la scena con le lacrime agli occhi e con un senso di calore nel petto.
I ragazzi videro la gioia del padre all’idea che il figlio fosse accettato dagli altri.
Alla fine dell’ottavo inning, la squadra di Shay prese alcuni punti ma era sempre indietro di tre punti.
All’inizio del nono inning Shay indossò il guanto ed entrò in campo.
Anche se nessun tiro arrivò nella sua direzione, lui era in estasi solo all’idea di giocare in un campo da baseball e con un enorme sorriso che andava da orecchio ad orecchio salutava suo padre sugli spalti.

Alla fine del nono inning la squadra di Shay segnò un nuovo punto:

ora, con due out e le basi cariche si poteva anche pensare di vincere e Shay era incaricato di essere il prossimo alla battuta.
A questo punto, avrebbero lasciato battere Shay anche se significava perdere la partita?
Incredibilmente lo lasciarono battere.
Tutti sapevano che era una cosa impossibile per Shay che non sapeva nemmeno tenere in mano la mazza, tanto meno colpire una palla.
In ogni caso, come Shay si mise alla battuta, il lanciatore, capendo che la squadra stava rinunciando alla vittoria in cambio di quel magico momento per Shay, si avvicinò di qualche passo e tirò la palla così piano e mirando perché Shay potesse prenderla con la mazza.
Il primo tiro arrivò a destinazione e Shay dondolò goffamente mancando la palla.
Di nuovo il tiratore si avvicinò di qualche passo per tirare dolcemente la palla a Shay.
Come il tiro lo raggiunse, Shay dondolò e questa volta colpì la palla che ritornò lentamente verso il tiratore.
Ma il gioco non era ancora finito.
A quel punto il battitore andò a raccogliere la palla:
avrebbe potuto darla all’ uomo in prima base e Shay sarebbe stato eliminato e la partita sarebbe finita.
Invece…
Il tiratore lanciò la palla di molto oltre l’uomo in prima base e in modo che nessun altro della squadra potesse raccoglierla.

Tutti dagli spalti e tutti i componenti delle due squadre incominciarono a gridare:

“Shay corri in prima base!
Corri in prima base!”
Mai Shay in tutta la sua vita aveva corso così lontano, ma lo fece e così raggiunse la prima base.
Raggiunse la prima base con occhi spalancati dall’emozione.
A quel punto tutti urlarono:
“Corri fino alla seconda base!”
Prendendo fiato Shay corse fino alla seconda trafelato.
Nel momento in cui Shay arrivò alla seconda base la squadra avversaria aveva ormai recuperato la palla…
Il ragazzo più piccolo di età che aveva ripreso la palla quindi sapeva di poter vincere e diventare l’eroe della partita, avrebbe potuto tirare la palla all’uomo in seconda base ma fece come il tiratore prima di lui, la lanciò intenzionalmente molto oltre l’uomo in terza base e in modo che nessun altro della squadra potesse raccoglierla.
Tutti urlavano:
“Bravo Shay, vai così!
Ora corri!”
Shay raggiunse la terza base perché un ragazzo del team avversario lo raggiunse e lo aiutò girandolo nella direzione giusta.
Nel momento in cui Shay raggiunse la terza base tutti urlavano di gioia.

A quel punto tutti gridarono:

“Corri in prima, torna in base!”
E così fece:
da solo tornò in prima base, dove tutti lo sollevarono in aria e ne fecero l’eroe della partita.”
“Quel giorno,” disse il padre piangendo, “i ragazzi di entrambe le squadre hanno aiutato a portare in questo mondo un grande dono di vero amore ed umanità!
Shay non è vissuto fino all’estate successiva.
È morto l’inverno dopo ma non si è mai più dimenticato di essere l’eroe della partita e di aver reso orgoglioso e felice suo padre.
Non dimenticò mai l’abbraccio di sua madre quando tornato a casa le raccontò di aver giocato e vinto.”

Ed ora una piccola nota al fondo di questa storia:

“Tutti noi possiamo fare la differenza!”
Tutti noi abbiamo migliaia di opportunità, ogni giorno, di aiutare il “naturale corso delle cose” a realizzarsi.
Ogni interazione tra persone, anche la più inaspettata, ci offre una opportunità:
passiamo una calda scintilla di amore e umanità o rinunciamo a questa opportunità e lasciamo il mondo.
Un uomo saggio una volta disse che ogni società è giudicata in base a come tratta soprattutto i meno fortunati:
“Ora a te fare la differenza!”
Molti fra noi hanno pensato fino ad oggi che la prova di coraggio più grande, fosse restare fedeli a se stessi, essere capaci di andare controcorrente, parlare con integrità:
ma fin qui siamo stati solo fortunati, perché non ci è stato chiesto nulla di più.
Ma ora ci vuole niente a capire che i tempi sono cambiati e impegnarsi in una battaglia politica in questo momento significa essere chiamati ad assumere impegni ben diversi.
In un mondo dove conta solo il successo, in una società dove tutto si compra e tutto si vende, ritengo che ci sia bisogno di persone desiderose di impegnarsi per gli altri con coraggio e con sacrificio.
Perché il coraggio è dote del cuore e solo chi non ha cuore ha paura.
Ed io non ho paura:
lavoro con pazienza ad un grande progetto, lavoro da anni alla tutela e per il rispetto per ogni uomo dei diritti civili fondamentali!

Brano senza Autore.

Si darà da fare

Si darà da fare

Due pappagalli vivevano nello stesso nido.
Un giorno il nido fu rovinato dal vento impetuoso.

Invece di ripararlo subito, ognuno pensò:

“Lo riparerà il mio compagno!”
E così nessuno aggiustò il nido.
Intanto il buco diventava, di giorno in giorno, sempre più grosso.

Allora il pappagallo più giovane pensò:

“Il mio compagno non sopporterà più a lungo l’idea di vivere in un nido così rovinato, e presto si darà da fare!”
A sua volta il pappagallo vecchio pensò:
“Provvederà il giovane a ripararlo; in fondo ha meno anni di me: è il più forte!”
Il mesi passarono e soggiunse il freddo.

I due, infreddoliti, pensarono:

“Il mio compagno non potrà resistere ancora a lungo: questa volta si darà, sicuramente, da fare per riparare il nido e proteggersi dal freddo”.
Ma nessuno si decideva.
Una sera, quello che rimaneva del nido, fu spazzato dal vento e cadde a terra.
I due pappagalli morirono congelati.

Brano senza Autore.

Due sassolini azzurri

Due sassolini azzurri

Due sassolini, grossi sì e no come una castagna, giacevano sul greto di un torrente.
Stavano in mezzo a migliaia di altri sassi, grossi e piccoli, eppure si distinguevano da tutti gli altri.
Perché erano di un intenso colore azzurro.
Loro due sapevano benissimo di essere i più bei sassi del torrente e se ne vantavano dal mattino alla sera.
“Noi siamo i figli del cielo!” strillavano, quando qualche sasso plebeo si avvicinava troppo.
“State a debita distanza!
Noi abbiamo il sangue blu.
Non abbiamo niente a che fare con voi!”
Erano insomma due sassi boriosi e insopportabili.
Passavano le giornate a pensare che cosa sarebbero diventati, non appena qualcuno li avesse scoperti:
“Finiremo certamente incastonati in qualche collana insieme ad altre pietre preziose come noi!”

“Sul dito bianco e sottile di qualche gran dama!”

“Sulla corona della regina d’Olanda!”
Un bel mattino, mentre i raggi del sole giocavano con le trine di spuma dei sassi più grandi, una mano d’uomo entrò nell’acqua e raccolse i due sassolini azzurri.
“Evviva!” gridarono i due all’unisono, “Si parte!”
Finirono in una scatola di cartone insieme ad altri sassi colorati.
“Ci rimarremo ben poco!” dissero, sicuri della loro indiscussa bellezza.
Poi una mano li prese e li schiacciò di malagrazia contro il muro in mezzo ad altri sassolini, in un letto di cemento tremendamente appiccicoso.
Piansero, supplicarono, minacciarono.
Non ci fu niente da fare.
I due sassolini azzurri si ritrovarono inchiodati al muro.
Il tempo ricominciò a scorrere, lentamente.
I due sassolini azzurri erano sempre più arrabbiati e non pensavano che ad una cosa: fuggire.
Ma non era facile eludere la morsa del cemento, che era inflessibile e incorruttibile.

I due sassolini non si persero di coraggio.

Fecero amicizia con un filo d’acqua, che scorreva ogni tanto su di loro.
Quando furono sicuri della lealtà dell’acqua, le chiesero il favore che stava loro tanto a cuore. “Infiltrati sotto di noi, per piacere.
E staccaci da questo maledetto muro!”
Fece del suo meglio e dopo qualche mese i sassolini già ballavano un po’ nella loro nicchia di cemento.
Finalmente, una notte umida e fredda, Tac! Tac!:
i due sassolini caddero per terra.
“Siamo liberi!” esclamarono.
E mentre erano sul pavimento, lanciarono un’occhiata verso quella che era stata la loro prigione:
“Ooooh!”
La luce della luna che entrava da una grande finestra illuminava uno splendido mosaico.
Migliaia di sassolini colorati e dorati formavano la figura di Nostro Signore.
Era il più bel Gesù che i due sassolini avessero mai visto.
Ma il volto… il dolce volto del Signore, in effetti, aveva qualcosa di strano.

Sembrava quello di un cieco.

Ai suoi occhi mancavano le pupille!
“Oh, no!” I due sassolini azzurri compresero.
Loro erano le pupille di Gesù.
Chissà come stavano bene, come brillavano, come erano ammirati, lassù.
Rimpiansero amaramente la loro decisione.
Quanto erano stati insensati!
Al mattino, un sacrestano distratto inciampò nei due sassolini e, poiché nell’ombra e nella polvere tutti i sassi sono uguali, li raccolse e, brontolando, li buttò nel bidone della spazzatura.

Brano di Bruno Ferrero

La sfida tra il sole ed il vento

La sfida tra il sole ed il vento

Un giorno il vento e il sole cominciarono a litigare.
Il vento sosteneva di essere il più forte e a sua volta il sole diceva di essere la forza più grande della terra.

Alla fine decisero di fare una prova.

Videro un viandante che stava camminando lungo un sentiero e decisero che il più forte di loro sarebbe stato colui che sarebbe riuscito a togliergli i vestiti.
Il vento, così, si mise all’opera: cominciò a soffiare, e soffiare, ma il risultato fu che il viandante si avvolgeva sempre più nel mantello.
Il vento allora soffiò con più forza, e l’uomo chinando la testa si avvolse un sciarpa intorno al collo.

Fu quindi la volta del sole, che cacciando via le nubi,

cominciò a splendere tiepidamente.
L’uomo che era arrivato nelle prossimità di un ponte, cominciò pian piano a togliersi il mantello.
Il sole molto soddisfatto intensificò il calore dei suoi raggi, fino a farli diventare incandescenti.
L’uomo rosso per il gran caldo, guardò le acque del fiume e senza esitare si tuffò.

Il sole alto nel cielo rideva e rideva!

Il vento deluso e vinto si nascose in un luogo lontano.

Favola di Esopo

L’amicizia (Eliseo e Gedeone)

L’amicizia (Eliseo e Gedeone)

Eliseo e Gedeone erano stati grandi amici fin da bambini.
Ognuno dei due considerava l’altro come un fratello ed in cuor suo ognuno sapeva che non c’era nulla che non fosse disposto a fare per l’amico.
Alla fine si presentò l’occasione di testimoniare la profondità della loro amicizia.
Ecco cosa accadde.
Un giorno Gedeone fu arrestato dalla polizia.
Senza alcuna prova lo accusarono di essere una spia al servizio del nemico.
Un giudice distratto lo condannò a morte.
“Hai un ultimo desiderio?” gli chiese il re, prima di firmare l’ordine di esecuzione.
“Si, lasciami andare a casa per il tempo necessario di dire addio a mia moglie e ai miei figli e per sistemare le faccende domestiche!”
“Vedo che mi ritieni stupido!” disse il re, ridendo, “Se ti lascio andare tu non tornerai più!”

“Ti lascerò un pegno, una garanzia sicura!” spiegò Gedeone.

“Che tipo di pegno potresti lasciarmi che mi renda certo del tuo ritorno?” chiese il re.
In quel momento Eliseo, che era stato per tutto il tempo in silenzio a fianco dell’amico, fece un passo avanti.
“Sarò io il suo pegno!” disse.
“Tienimi qui come tuo prigioniero, fino a quando Gedeone non ritorni.
La nostra amicizia ti è ben nota.
Puoi star certo che Gedeone ritornerà fino a che mi trattieni qui!”
Il re studiò in silenzio i due amici.
“Molto bene!” disse alla fine, “Ma se vuoi veramente prendere il posto del tuo amico, devi accettare la sentenza.
Se Gedeone non farà ritorno, tu morirai al suo posto!”
“Manterrà la sua parola!” replicò Eliseo, “Non ho alcun dubbio!”
Gedeone fu lasciato libero di andare e Eliseo fu gettato in prigione.
Dopo molti giorni, poiché Gedeone non si presentava, la curiosità del re ebbe il sopravvento e il tiranno si recò nelle prigioni per vedere se Eliseo fosse pentito di aver fatto un simile scambio.
“Il tuo tempo è quasi scaduto!” disse il re sogghignando, “Sarebbe inutile chiedere pietà.
Sei stato uno stupido a fidarti della promessa del tuo amico.

Hai creduto veramente che avrebbe sacrificato la sua vita per te?”

“Ha incontrato qualche impedimento!” rispose deciso Eliseo, “I venti gli avranno impedito di navigare, o forse avrà avuto dei contrattempi lungo la strada; ma, nei limiti delle umane possibilità, sarà qui in tempo.
Confido sulla sua parola tanto quanto sulla mia stessa esistenza!”
Il re fu colpito dalla fiducia del prigioniero.
“Lo vedremo presto!” disse, e lasciò Eliseo nella cella.
Il giorno fatale arrivò.
Eliseo fu prelevato dalla prigione e portato davanti al boia.
Il re lo salutò con un sorriso compiaciuto.
“Sembra che il tuo amico non sia tornato!” gli disse ridendo, “Cosa pensi di lui adesso?”
“È mio amico!” rispose Eliseo, “Ho fiducia in lui!”
Mentre stava parlando, le porte si spalancarono e Gedeone entrò vacillando.
Era pallido e ferito e stentava quasi a parlare per la stanchezza.

Abbracciò l’amico.

“Grazie a Dio, sei salvo!” ansimò, “Sembra quasi che tutto stesse cospirando contro di noi.
La mia nave è naufragata nella tempesta, poi sono stato attaccato dai briganti lungo la strada.
Ma non ho mai smesso di sperare, e alla fine ce l’ho fatta.
Sono pronto a subire la mia condanna a morte!”
Il re ascoltò le sue parole con stupore e i suoi occhi e il suo cuore si aprirono.
Era impossibile per lui resistere alla forza di simile fermezza.
“La condanna è revocata!” dichiarò, “Non avrei mai pensato esistesse un’amicizia così leale e fiduciosa.
Mi avete dimostrato quanto fossi in errore, ed è giusto che siate ricompensati con la libertà.
Ma in cambio vi chiedo un grande favore!”
“”Di che favore si tratta?” chiesero i due amici.
“Prendetemi come terzo amico!”

Brano senza Autore

Melodia ed il cuginetto

Melodia ed il cuginetto

C’era una volta una bambina di nome Melodia, che un brutto giorno fu colpita da una strana malattia che le provocò una continua e inesorabile diminuzione della vista.
I migliori professori d’oculistica, nonostante esami approfonditi e consulti, non riuscivano a scoprire la causa della malattia.
I genitori della bambina erano disperati.
Melodia portava ormai un paio di occhiali dalle lenti spesse e pesanti come fondi di bottiglia.
Ogni tanto per riposare un po’ il naso se li toglieva e li appioppava sul naso di Billo, il suo più caro amico.
Billo era un grosso orsacchiotto di peluche marrone che Melodia abbracciava addormentandosi e a cui confidava tutti i suoi segreti.
Ma una sera, quando ebbe i pesanti occhiali sul naso, Billo cominciò a parlare:
“Sono il mago che può guarire i tuoi occhi.

Tu sai perché i tuoi occhi non vogliono più vedere la luce?”

“Non lo so.
Il mago sei tu.
Dimmelo tu!” disse la bambina
“Queste cose le devi scoprire da sola, Melodia.
Sforzati di ricordare:
è successo qualcosa recentemente che può aiutarti a capire il perché della malattia?”
La bambina si concentrò, frugando nella memoria, ma non trovava nulla di significativo.

“Provaci ancora, Melodia!” la incitava Billo.

Dopo qualche ora di intensa riflessione, improvvisamente Melodia si ricordò.
Tre mesi prima, una domenica pomeriggio, durante una visita degli zii giocava con il cuginetto Nicola.
Indispettito da una frase di Melodia, Nicola aveva fatto a pezzi la bambolina di porcellana che la bambina teneva sul tavolo dei compiti.
Melodia ne aveva fatto una tragedia:
lacrime e strilli, brutte parole.
Alla fine, Melodia aveva rabbiosamente gridato al cugino:
“Non voglio vederti mai più!”
Da quel giorno la sua vista aveva incominciato ad abbassarsi.
Lo spiegò a Billo, che concluse:

“Allora sai che cosa devi fare…”

“Sì, lo so.
Devo perdonare, come mi ha insegnato la mamma!” disse la bambina
La bambina si sedette al tavolo e scrisse una lettera al cugino.
Le parole erano corrette solo più o meno, ma il senso era chiaro.
“Caro Nicola, ti perdono con tutto il cuore.
Ho dimenticato quello che è accaduto e ti voglio bene come prima…”
Da quel momento, la vista di Melodia ridivenne perfetta.
E gli occhiali dalle grosse lenti finirono … finirono … E chi si ricorda più dove finirono quegli orribili occhiali?

Brano tratto dal libro “Tante storie per parlare di Dio.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Amiche del cuore

Amiche del cuore

“Per piacere, resta!” imploravo.
Ann era la mia migliore amica, l’unica ragazzina del vicinato, e non volevo che andasse via.
Stava seduta sul mio letto, con gli occhi blu privi di espressione.
“Mi annoio!” disse arrotolandosi gli spessi riccioli rossi intorno a un dito.
Era venuta a giocare solo mezz’ ora prima.
“Per piacere, non andare!” chiesi supplichevole, “Tua mamma ha detto che potevi restare per un’ ora!”
Ann fece per alzarsi, poi vide un paio di mocassini indiani in miniatura sul mio comodino.
Con le loro perline dai colori vivaci sulla morbida pelle, quei mocassini erano la cosa che mi era più preziosa.
“Rimarrò se me li dai!” disse Ann.

Aggrottai le sopracciglia.

Non potevo immaginare di separarmi da quei mocassini.
“Ma me li ha dati la zia Reba!” protestai.
Mia zia era stata una donna bella e gentile, e io l’adoravo.
Non era mai troppo occupata per dedicarmi un po’ di tempo.
Ci inventavamo storie buffe e ridevamo tanto.
Il giorno in cui era morta, avevo pianto per ore sotto una coperta, incapace di credere che non l’avrei più rivista.
In quel momento, mentre tenevo con cura i mocassini nella mano, ero invasa dal dolce ricordo di zia Reba.
“Andiamo.” incitava Ann, “Sono la tua migliore amica!”
Come se ci fosse bisogno di ricordarmelo!
Non so che cosa mi prese, ma desideravo più di ogni altra cosa avere qualcuno che giocasse con me.
Lo volevo così tanto che porsi i mocassini ad Ann!
Dopo che li ebbe riposti in tasca, andammo in bicicletta sul vialetto per diverse volte e presto fu tempo per lei di tornare a casa.
Sconvolta per quello che avevo fatto, non avevo comunque voglia di giocare.

Quella sera sostenni di non avere fame e andai a letto senza cena.

Una volta nella mia stanza, iniziai davvero a sentire la mancanza dei mocassini!
Dopo che la mamma mi ebbe rimboccato le coperte e spento la luce, mi chiese cosa ci fosse che non andasse.
Le raccontai tra le lacrime di come avessi tradito la memoria di zia Reba e di quanto mi sentissi in colpa.
La mamma mi abbracciò con calore, ma tutto quello che mi disse fu:
“Bene, immagino che dovrai decidere cosa fare.”
Le sue parole non mi furono d’aiuto.
Sola nel buio, cercai di chiarirmi le idee.
“La legge dei bambini dice che non devi dare una cosa e poi riprendertela.” mi dicevo, “Ma è stato un affare conveniente?
Perché ho permesso ad Ann di giocare con i miei sentimenti?
Ma soprattutto, Ann è davvero la mia migliore amica?”
Decisi che cosa avrei fatto.
Mi agitai e mi rivoltai per tutta la notte, non vedendo l’ora che si facesse giorno.
A scuola, il giorno seguente, affrontai Ann.
Trassi un profondo respiro e le chiesi di rendermi i mocassini.

Sbarrò gli occhi e mi guardò a lungo.

“Per piacere!” pensavo, “Per piacere!”
“Okay.” disse infine, tirando fuori dalla tasca i mocassini, “Tanto non mi piacevano.”
Fui sopraffatta da una sensazione di sollievo.
Dopo qualche tempo io e Ann smettemmo di giocare insieme.
Scoprii nei dintorni dei bambini che non erano niente male, e spesso mi invitavano a giocare a softball.
Mi feci anche nuove amiche in altri quartieri.
Nel corso degli anni, ho avuto altre amiche del cuore.
Ma non ho più supplicato per la loro compagnia.
Sono arrivata a capire che gli amici sono persone che vogliono trascorrere il tempo con te, senza chiedere niente in cambio.

Brano di Mary Beth Olson

L’espediente dello champagne

L’espediente dello champagne

Quando avevo trent’anni, come già raccontato, andai a lavorare durante la stagione estiva, per un mese, in un importante albergo di lusso nella perla delle Dolomiti, qual è Cortina.
Fu un’esperienza unica, anche se mi licenziai rapidamente, dato che mi facevano lavorare troppo poco essendo abituato al ritmo ed alla modalità della fabbrica.

Alle diciotto finivo il mio turno di lavoro ed avevo tutta la sera e la notte da vivere, nella tentacolare Cortina.

Optai subito per ciò che culturalmente Cortina offriva, quale mia esigenza personale di allora, come andare alla presentazione di libri, saggi e romanzi da parte di autori importanti, allora perlopiù emergenti, che mi onoro di aver incontrato.
Di alcuni di essi conservo ancora le opere autografate.
Le ville private, in prevalenza, ospitavano tali eventi e, per un fortunato vortice di circostanze, entrai nel giro esclusivo dove si partecipava solo con invito.

In una serata indimenticabile, mi trovai protagonista grazie ad un espediente.

Alla fine di ogni presentazione si partecipava ad un lauto rinfresco dove non mancava mai lo champagne, che correva a fiumi.
Nel momento clou della serata scomparve il cavatappi d’argento, dato che qualcuno lo aveva sottratto per cattiva moda, mettendo in difficoltà ed in imbarazzo i padroni di casa, per le ulteriori bottiglie da aprire.
Vista la situazione, attirai l’attenzione degli ospiti prendendo una bottiglia, indicandone ed elogiando la marca.
Palesandomi esperto, colpii il bordo del tavolo con il collo della bottiglia, facendo schizzare il tappo con un po’ di vetro, ma questo poco importò agli astanti assetati.
Alcuni anni prima, avevo visto mio padre fare magistralmente la stessa operazione con una bottiglia di birra, in una circostanza più frugale.

Riempii i calici vuoti e protesi fra gli applausi (e gli evviva) dei presenti, salvando così la serata.

Ebbi un notevole successo personale, nonché inaspettato, che mi diede accesso ad altre serate indimenticabili nelle ville della conca Ampezzana, anche al di fuori dell’ambito letterario, che mal si conciliavano con il mio essere facchino di giorno.
Mai come in quel momento, mi sentii sdoppiato in una doppia vita che non riuscì a sostenere.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

La lampada del minatore

La lampada del minatore

Un uomo scendeva ogni giorno nelle viscere della terra a scavare sale.
Portava con sé il piccone ed una lampada.
Una sera, mentre tornava verso la superficie, in una galleria tortuosa e scomoda, la lampada gli cadde di mano e si infranse sul suolo.

Inizialmente il minatore ne fu quasi contento:

“Finalmente!
Non ne potevo più di questa lampada.
Dovevo portarla sempre con me, fare attenzione a dove metterla, pensare a lei anche durante il lavoro.
Adesso ho un ingombro di meno.
Mi sento molto più libero!
E poi… faccio questa strada da anni, non posso certo perdermi!”
Ma la strada ben presto lo tradì.

Al buio era tutta un’altra cosa.

Fece alcuni passi, ma urtò contro una parete.
Si meravigliò:
non era quella la galleria giusta?
Come aveva fatto a sbagliarsi così presto?
Tentò di tornare indietro, ma finì sulla riva del laghetto che raccoglieva le acque di scolo.
“Non è molto profondo,” pensò, “ma se ci finisco dentro, così al buio, annegherò di certo!”
Si gettò a terra e cominciò a camminare carponi.

Si ferì le mani e le ginocchia.

Gli vennero le lacrime agli occhi quando si accorse che in realtà era riuscito a fare solo pochi metri ritrovandosi sempre al punto di partenza.
E gli venne un’infinita nostalgia della sua lampada.
Attese umiliato che qualcuno scendesse per andare a cercarlo e lo portasse su facendogli strada con qualche mozzicone di candela.

Brano senza Autore

La saggezza della quercia

La saggezza della quercia

Una leggenda sarda testimonia come il simbolo “paterno” e protettivo della quercia, sia radicato nell’immaginario collettivo.
Un giorno il diavolo si recò dal Signore dicendogli:
“Tu sei il signore e padrone di tutto il creato, mentre io, misero, non possiedo nulla.

Concedimi una signoria, pur minima, su una parte della creazione:

mi accontento di poco!”
“Che cosa vorresti avere?” chiese Dio.
“Dammi, per esempio, il potere su tutto il bosco!” propose il diavolo.
“E sia!” decretò il Signore, “Ma soltanto quando i boschi saranno completamente senza fogliame, ovvero durante l’inverno:

in primavera il potere tornerà a me!”

Quando gli alberi e le foglie decidue dei boschi seppero del patto, cominciarono a preoccuparsi, e con il passare del tempo la preoccupazione si mutò in agitazione.
“Che cosa possiamo fare?” si domandavano disperati, “A noi le foglie cadono in autunno.”
Il problema pareva insolubile quando al faggio venne un’idea:
“Andiamo a consultare la quercia, più robusta e saggia e di noi tutti la più anziana.
Forse lei troverà un espediente per salvarci!”

La quercia, dopo aver riflettuto gravemente, rispose:

“Tenterò di mantenere le mie foglie secche sui rami finché sui vostri non spunteranno la foglioline nuove.
Così il bosco non sarà mai completamente spoglio e il demonio non potrà avere alcun dominio su di noi!”
Da allora le foglie secche della quercia, coriacee e seghettate, rimangono sui rami per cadere completamente soltanto quando almeno un cespuglio si è rivestito di foglie nuove.

Brano tratto dal libro “Florario.” di Alfredo Cattabiani