L’allodola e le tartarughe

L’allodola e le tartarughe

Un re dei tempi antichi aveva, intorno al suo palazzo, un immenso giardino, in cui viveva e prosperava una popolazione di grosse tartarughe.
Un giorno nel giardino delle tartarughe scese un’allodola.
Le tartarughe la trovarono così graziosa che cominciarono a coprirla di complimenti.
“Che belle piume!
Che graziose zampette!
Che beccuccio delicato!
Certo questo uccellino è tra i più belli che esistono!”
L’allodola, confusa, per ringraziarle cantò la canzone più dolce e brillante del suo repertorio.

Le lente tartarughe andarono in visibilio.

“È un’artista!
Che talento!
Che gorgheggi e che senso dello spettacolo!
Stupendo!
Magnifico!”
Gli applausi si sprecarono.
“Chiediamole di fermarsi a vivere con noi!” propose una tartaruga.
Al tramonto, quando l’uccello calò giù in picchiata una furba tartaruga gli disse:
“Cara la mia allodola, per tutte noi sei come una figlia, lo sai.
Ti vogliamo tanto bene che abbiamo chiesto al Re delle tartarughe come farti felice, e lui ci ha risposto che la felicità massima, sulla terra, è starsene con i piedi ben piantati al suolo.

Che ne diresti di non lasciarci più e rinunciare a volare?

Al mondo sono i fatti che contano, e camminare è un fatto, non puoi negarlo!”
“Se lo dici, sarà così!” rispose l’allodola, “Solo che io sono un uccello, e non posso fare diversamente.
Tutti quelli che hanno le ali vogliono andare in alto, verso la luce!”
“Però volare è così faticoso!” proseguì la tartaruga, “Tutti gli animali, tranne voi, non desiderano altro che riposare e avere la pancia piena.
E poi, non hai mai pensato al falco o ai cacciatori?”
L’allodola, pensierosa, finì per rispondere:
“Credo che tu abbia ragione, amica mia.
Che debbo fare per restare sempre qui con voi?”
La tartaruga, tutta contenta, le suggerì di strapparsi ogni giorno una piuma dalle ali:
“A poco a poco volare ti sarà sempre più difficile, e alla fine smetterai senza neppure accorgertene.
E poi vivrai insieme a noi nel giardino, potrai bere l’acqua fresca e mangiare la frutta e l’insalata che gli uomini ci regalano ogni giorno.

Come saremo felici, senza ansie, senza preoccupazioni!”

Da quel giorno, l’allodola badò a strapparsi una piccola penna ogni mattina e alla fine si ritrovò con le ali completamente spennate.
Ora non poteva alzarsi in volo, ma in compenso che pace, e che belle mangiate!
L’allodola razzolava e becchettava nel terreno come un pollo, ingrassava e si divertiva a giocare con le tartarughe.
Erano finite, finalmente, le fatiche mattutine per volare verso il sole in cerchi concentrici, trillando come tutte le altre brave allodole.
Non inventava più canzoni nuove, ma alle sue amiche, in fondo, piacevano anche quelle vecchie.
Finché un giorno, nel giardino capitò una donnola affamata.
Quando vide una grassa allodola che saltellava tra le tartarughe, non credette ai suoi occhi e si preparò ad azzannarla.
Le tartarughe, terrorizzate, si nascosero ciascuna nel proprio guscio.

“Aiutatemi!” gridò l’allodola.

“Cara figlia, la donnola è più veloce di noi, e ha i denti aguzzi!
Non possiamo aiutarti!” risposero quelle, in coro.
“Mi sta bene!” disse allora l’allodola, “Per vanagloria mi sono fatta tartaruga e ho rinunciato alla mia unica salvezza, le ali!”
Nascose la testa sotto l’ala e si rassegnò alla sua sorte.

Brano tratto dal libro “L’allodola e le tartarughe.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

La pallina d’oro

La pallina d’oro

Molto tempo fa c’era un giovane che se ne andava in giro tra i boschi pensando a cosa dovesse fare della sua vita, quale fosse la strada giusta da imboccare e come poteva fare per guadagnarsi un pezzo di pane.
Mentre camminava sentì una voce che lo chiamava e, dopo aver guardato in giro, scoprì un fringuello su un ramo che gli parlava con voce umana:
“Bel giovane, fermati e ascolta.
Adesso canterò la mia canzone; mentre la canto dovrai prendermi e scuotermi senza farmi male.

Vedrai che dal becco mi uscirà una pallina d’oro:

raccoglila e mettila in tasca, così diventerai capace di saper sempre ciò che è bene e ciò che è male, ciò che è giusto e ciò che è ingiusto e, in ogni momento saprai che cosa è meglio per te.
Quanto a me mi addormenterò nel cavo dell’albero e tu potrai andartene per la tua strada!”
Così andarono le cose e il giovane riprese il cammino con la pallina d’oro in tasca, finché arrivò in una città con ricche botteghe e bei palazzi, dove la gente vendeva e comprava, mangiava e dormiva, leggeva e scriveva, discuteva e correva come in tutte le città del mondo.
Solo che qui tutti, grandi e piccoli, vecchi e giovani, piangevano a dirotto senza mai smettere.
Il giovane sentì che la pallina, misteriosamente, gli impediva di tirare dritto ed una vocina gli suggeriva.
“Tu devi fare qualcosa per questa gente!”
Sentendosi pieno di coraggio, andò subito dal re che singhiozzava sul suo trono e gli disse di non preoccuparsi perché era arrivato ad aiutarli.
“Ad aiutarci?” rispose il re piangendo ancora più forte, “Non sai che la nostra città è minacciata da un terribile drago che mangerà tutti noi se non gli consegniamo ad una ad una le nostre ragazze più belle?

Ne ha già prese nove e l’ultima è mia figlia!”

Il giovane sentiva che la pallina gli infondeva sempre più coraggio e con sua stessa sorpresa rispose:
“Vi do la mia parola che domani vi porterò la testa e la coda del drago, così le vostre disgrazie finiranno!”
Il re pensò che fosse pazzo:
i suoi più bravi cavalieri avevano fallito nell’impresa, come poteva un ragazzo così giovane e senza spada e armatura far meglio di loro?
Il giovane indovinò i suoi pensieri, sorrise chiese una spada e dei viveri.
Gli portarono due spade:
una di purissimo acciaio intarsiato d’oro e d’argento che mandava bagliori in tutta la sala e l’altra semplice, ordinaria e pensante che sapeva di sudore e fatica.
Il giovane stava allungando la mano per prendere la prima quando la pallina d’oro fece sentire la sua voce consigliando di prendere l’altra:
“Non tutto ciò che luccica è utile, le cose serie, il più delle volte, non hanno un aspetto attraente!”
Il giovane prese la vecchia spada e partì verso la collina.
Lassù il drago si era costruito un castello di ferro con sette porte e sette torri, circondato da un fossato pieno d’acqua sporca ed enormi coccodrilli.
Il giovane percorse il ponte ed arrivò alla prima porta, bussò e il drago aprì.
Quando lo vide e sentì le richieste del giovane che lo invitava a lasciar stare gli abitanti del paese e a restituire le ragazze, scoppio a ridere e la porta si chiuse con un terribile tonfo e il ponte dietro il giovane crollò.

Al ragazzo non restava che andare avanti.

Si avviò verso le porte e vide che ognuna portava una scritta, “Porta dei Re”, “Riservata ai Principi”, “Di qui passano i cavalieri” e così via finché sulla settima trovò scritto:
“Entrata.”
Pensò, su suggerimento della pallina, di non essere un nobile e quindi aprì la settima porta.
Si udì il grido infuriato del drago che non capiva come il giovane avesse trovato la porta giusta, infatti, dietro alle altre c’erano numerose trappole e trabocchetti e centinaia di cavalieri che vi erano caduti dentro.
Il giovane, attraversato un lungo corridoio, arrivò in un’ampia sala dove giovani e ragazzi elegantemente vestiti, ridevano, ballavano e mangiavano cibi dal profumo invitante.
Lo presero invitandolo a stare con loro e a divertirsi lasciando perdere l’idea di aiutare gli abitanti piagnoni, tanto nessuno lo avrebbe ricompensato.
Il giovane esitò, ma la pallina d’oro bruciava come fuoco.
Emise un gran sospiro e disse:
“Ho dato la mia parola!” e passò oltre.
La parete si aprì, tutti svanirono poiché erano illusioni create dal drago e il giovane si trovò davanti allo stesso drago.
Era arrivato il momento del combattimento ma il drago prima offrì al giovane un’armatura preziosa.
“Fossi matto, questa renderebbe i miei movimenti goffi e impacciati” e, così dicendo, rifiutò.
La pallina d’oro approvò la decisione, il drago era terrorizzato e con due colpi di spada il giovane gli tagliò la testa e la coda.
Dal castello uscirono una dopo l’altra le otto ragazze che teneva prigioniere, ma mancava l’ultima:

la figlia del re.

Gli raccontarono che era stata trasformata in un fringuello ed era riuscita a fuggire nel bosco.
Il giovane si ricordò dell’uccello che gli parlò con voce umana e corse nel bosco.
Addormentata sotto all’albero c’era la principessa, il giovane la svegliò e la riportò a casa insieme alle altre ragazze.
La tristezza nel paese finì e, come succede nelle fiabe, il giovane povero sposò la figlia del re.

Brano tratto dal libro “Nuove storie. Per la scuola e la catechesi.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Papà non lava i piatti! (Padre e figlia)

Papà non lava i piatti! (Padre e figlia)

In ogni famiglia esistono delle regole, non scritte, e anche la nostra non fa eccezione!
La nostra principale regola, non scritta, era questa:
“Papà non lava i piatti!”
Mio padre falciava il prato, sguazzava nel sudiciume di uno scantinato invaso dalle acque di scolo, coltivava un orto piuttosto grande, ci scarrozzava, di buon grado, in giro per la città e si alzava un’ora prima per accompagnarci a scuola e, dopo la scuola, era a nostra disposizione.
Si sacrificava continuamente per noi e faceva, quasi, qualunque cosa gli chiedessimo di fare!
Tuttavia, sapevamo che non dovevamo mai aspettarci di vederlo fare una cosa:

lavare i piatti.

Quella regola era stata scolpita nella pietra!
Mamma e papà hanno continuato ad amarci e ad aiutarci anche quando siamo divenuti adulti.
Da quando ho comprato una casa, mio padre si è dato da fare in mille modi per darmi una mano!
C’era bisogno di una porta nuova?
Nessun problema!
Serviva aiuto per ricoprire di materiale isolante i tubi dell’acqua, progettare e realizzare delle comode mensole, pitturare qualcosa?
Faceva tutto, volentieri!
Ho apprezzato molto questa sua disponibilità e sono stata sempre grata a mio padre per la sua saggezza e il suo aiuto.
Sto imparando ad accettare il suo aiuto per quello che è:

un dono d’amore!

Comunque, una sera, ho ricevuto un regalo speciale che ha superato tutte le mie aspettative!
Ero stata a casa molto poco nelle ultime settimane e dovevo passare ogni momento libero a scrivere delle relazioni.
Di conseguenza sembrava che in casa mia ci fosse stato un uragano!
Non mancava, soprattutto, una pila mastodontica di piatti sporchi che mi ripromettevo di lavare prima possibile, cosa che poi non facevo.
Quella sera, dopo una giornata particolarmente faticosa in ufficio, entrai in casa sfinita.
Accesi automaticamente il computer e andai in cucina per farmi un caffè e tirarmi su!
All’improvviso, qualcosa attirò la mia attenzione:
lo scolapiatti era pieno di…

piatti puliti e splendenti!

Immaginai che li avesse lavati mia madre, perciò la chiamai per ringraziarla, perché era stata davvero un angelo.
“Non sono stata io!” mi disse, “È stato tuo padre!”
Quando riattaccai mi vennero le lacrime agli occhi!
Quella regola, scolpita nella mia mente, “Papà non lava i piatti!”, si frantumò sotto ai miei occhi.
A tanti, forse, può sembrare una cosa da poco!
Per me è stato il più grande gesto d’amore della mia vita!

Brano senza Autore

La domanda di un filosofo alla figlia

La domanda di un filosofo alla figlia

Un famoso filosofo, giorno dopo giorno, si tormentava per cercare il significato ultimo dell’esistenza.
Aveva dedicato alla soluzione di questo enigma i migliori anni di vita e di studio.

Aveva consultato i più grandi saggi dell’umanità e

non aveva trovato alcuna risposta soddisfacente alla domanda.
Una sera, nel giardino della sua casa, mettendo da parte i suoi pensieri, prese in braccio la sua bambina di cinque anni che stava giocando allegramente.
E le chiese:

“Bambina mia, perché sei qui sulla terra?”

La bambina rispose sorridendo:
“Per volerti bene, papà!”

Brano di Bruno Ferrero

La pagano sempre i topi

La pagano sempre i topi

L’alto dirigente piombò all’improvviso nell’ufficio e rimproverò aspramente il povero responsabile della sezione.
Il responsabile diede una solenne lavata di capo all’impiegato.

L’impiegato chinò la testa,

ma tornato a casa si sfogò urlando con la moglie.
La moglie si rivalse con la figlia che non aveva messo in ordine la stanza.

La ragazza sferrò una pedata al cane che

si mise a inseguire rabbiosamente il gatto.
La storia si concluse con la morte dei topi.

Questo è ciò che sta accadendo nelle nostre società, nelle nostre comunità.

Questo è ciò che passa di generazione in generazione.

Aggressione e violenza si spostano dal più forte al più debole.
La pagano sempre i topi.

Brano senza Autore

Il re, la principessa ed il povero plebeo

Il re, la principessa ed il povero plebeo

Si racconta che in un passato assai remoto esistesse un re semi-barbaro che amministrava la giustizia in modo allo stesso tempo spettacolare e bizzarro.
Per punire i crimini particolarmente gravi aveva concepito una singolare ordalia.
L’accusato veniva condotto, in un certo giorno, nell’ arena di un circo, sulle cui gradinate si affollava il popolo riunito.

Davanti a lui vi erano due porte:

dietro una di esse, vi era una tigre affamata, la più feroce che si fosse riusciti a trovare per l’occasione; dietro l’altra, si trovava invece una bella fanciulla, seducente e verginale.
Solo il re sapeva chi fosse in attesa dietro le due porte.
Il reo era costretto ad aprire immediatamente una delle due porte.
In entrambi i casi, la sua sorte era segnata:
se compariva la fiera, moriva dilaniato in pochi secondi; se usciva la dama, doveva sposarla seduta stante e con grandi festeggiamenti, con il monarca in persona come testimone delle nozze, annullando qualunque matrimonio o impegno eventualmente contratto in precedenza.
A voi decidere quale fosse il destino più crudele.

Una volta si presentò il caso di un criminale accusato di un delitto molto grave:

povero plebeo, aveva avuto l’ardire di corteggiare in segreto l’unica figlia del re, la quale aveva corrisposto appassionatamente, seppure di nascosto, il suo amore.
Per il suo giudizio nella fatidica arena, quel barbaro re cercò accuratamente la tigre più vorace, ma scelse anche la più deliziosa delle fanciulle come alternativa.
Sconvolta, la principessa innamorata si vide lacerata da una doppia angoscia:
da un lato, vedere quel corpo amato e accarezzato a pezzi dagli artigli della bestia, dall’altro assistere al matrimonio del proprio innamorato con una bella ragazza, alle cui attrattive ella sapeva bene che il giovane colpevole non sarebbe stato del tutto indifferente.
Con astuzie di donna e arroganza di principessa, riuscì a sapere quale fosse la porta che, nell’ arena, corrispondeva ad ognuno degli indesiderati destini.
Il giovane sembrava confuso nel circo, incalzato dalle aspettative della moltitudine.
Anch’egli conosceva l’intimo dilemma dell’amata e dall’arena le lanciò uno sguardo supplichevole: “Solo tu puoi salvarmi!”
Con un gesto discreto, ma inequivocabile, la principessa indicò la porta di destra.
E questa scelse il condannato senza esitare.

Ora trascrivo come Stockton conclude il suo racconto:

“Il problema dell’azione della principessa non può essere considerato con leggerezza e non pretendo di essere l’unica persona in grado di risolverlo.
Pertanto lascio che sia ognuno di voi a rispondere:
chi uscì dalla porta aperta … la dama o la tigre?»”
E in realtà, questa è la domanda assillante per la giovane principessa, per il giovane condannato e per noi tutti, quasi tutti i giorni e a ogni passo, quando, guidati da oracoli giungiamo al momento incerto e fatale dell’azione.

Brano tratto dal libro “Il coraggio di scegliere: Riflessioni sulla libertà.” di Fernando Savater

Il professore ed il ringraziamento a Dio

Il professore ed il ringraziamento a Dio

Il professor Matthew Henry stava rincasando dall’Università, quando a pochi metri da casa sua si trovò davanti una canna di pistola puntata contro gli occhi.
Dietro la pistola c’era un rapinatore con il volto coperto che gli intimò di consegnargli borsa e portafoglio.

Lo fece e il rapinatore si dileguò rapidamente nell’oscurità.

Ancora spaventato dalla spiacevole esperienza, quella sera si sedette alla scrivania e scrisse questa preghiera:
“Signore, oggi sono stato derubato.

So che devo ringraziarti per molte cose.

Per prima cosa ti ringrazio di non essere mai stato rapinato prima, e in un mondo come questo è quasi un miracolo.
In secondo luogo voglio dirti grazie perché mi hanno portato via solo il portafoglio che, come sempre, conteneva solo pochi soldi, e una vecchia borsa piena di carta.

Ti voglio ringraziare anche, Signore,

perché non c’erano con me mia moglie e mia figlia, che si sarebbero spaventate molto e anche per il fatto che ora non devono piangere per me.
Infine, Signore, voglio ringraziarti in modo particolare, perché io sono stato il derubato e non il ladro.”

Il modo più semplice ed efficace per lottare contro la sofferenza consiste nel non essere noi causa di sofferenza.

Brano tratto dal libro “Dieci motivi per essere cristiani (e cattolici).” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

È tempo, vieni!

È tempo, vieni!

Un’anziana signora stava stirando!
Arrivò l’Angelo della morte e le disse:
“È tempo, vieni!”

La donna rispose:

“Va bene, ma lasciami finire di stirare tutta la biancheria!
Chi lo fa altrimenti?
E poi devo cucinare; mia figlia lavora fino a tardi:
ha bisogno di qualcosa da mangiare quando torna a casa sfinita…
Lo capisci questo?”
L’Angelo se ne andò…
Dopo un po’ di tempo, tornò!
Chiese alla donna se fosse pronta a lasciare la casa…
“È tempo, vieni!” le disse.

La donna rispose:

“Questa è la mia ora per il turno alla casa di riposo per anziani!
Là mi aspettano almeno dieci persone dimenticate dalla loro famiglia…
Posso piantarle in asso, così?”
L’Angelo se ne andò!
Dopo un po’ di tempo tornò e disse:
“È l’ora, andiamo!”
La donna rispose:
“Sì, sì!
Hai ragione!
È giusto!
Ma chi va a prendere il mio nipotino alla Scuola Materna se io non ci sono più?”
L’Angelo sospirò:
“D’accordo, aspetterò finché il tuo nipotino potrà andare a Scuola da solo!”
Alcuni anni dopo, la donna era stanca e piena di acciacchi e, seduta sulla sua poltrona, pensava:
“Adesso potrebbe arrivare l’Angelo…
Dopo tutta la fatica, la Casa di Dio deve essere meravigliosa!”
L’Angelo arrivò…

La donna chiese:

“Mi porti, adesso, nelle braccia di Dio?”
L’Angelo rispose:
“Dove credi di essere stata in tutto questo tempo?”

Brano senza Autore

Aspetta, papà… aspetta

Aspetta, papà… aspetta
(L’appuntamento padre-figlia)

Un papà aveva imparato che molti conflitti con i figli si risolvevano in pizzeria.
Per qualche anno aveva portato fuori ogni tanto la figlia più grande, per una specie di appuntamento padre-figlia.
Decise di fare lo stesso anche con la più piccola.
Per il primo appuntamento la portò a cena in una pizzeria vicino a casa.

Gli avevano appena servito la pizza quando decise che

era il momento giusto per dire alla bambina quanto lui le volesse bene e quanto la apprezzasse.
“Giulia,” disse, “voglio che tu sappia che ti voglio bene e che, per me e la mamma, tu sei davvero speciale.
Preghiamo sempre per te, e ora che stai crescendo e diventi ogni giorno che passa un ragazzina in gamba, non potremmo essere più orgogliosi.”
Non appena ebbe terminato di pronunciare quelle parole, rimase in silenzio e fece per prendere la forchetta così da iniziare a mangiare, ma non riuscì a portare la forchetta alla bocca.
La bambina allungò la mano appoggiandola su quella del padre.
Gli occhi di lui incontrarono i suoi e, con una vocina dolce, la bambina disse:

“Aspetta, papà… aspetta.”

Il papà appoggiò la forchetta e spiegò di nuovo alla figlia perché lui e la mamma la amavano e la stimavano.
Poi, di nuovo, afferrò la forchetta.
Ma per la seconda volta, e poi per la terza, e la quarta, fu fermato sempre dalle stesse parole: “Aspetta, papà… aspetta.”
Quella sera il padre non riuscì a mangiare molto e, non appena rientrarono,

la bambina corse dalla mamma e le disse:

“Sono una figlia davvero speciale, mamma.
Me l’ha detto papà.
Mi ha fatto tanto bene sentirmelo dire che gliel’ho fatto ripetere tante volte.”

Brano senza Autore

Il libro del tesoro in regalo

Il libro del tesoro in regalo

In una piccola città della Persia, ai tempi del grande scià Selciuk, viveva una vedova che aveva un solo figlio.
Quando si sentì giunta alla fine della vita terrena, la vedova chiamò il figlio e gli disse:
“Abbiamo vissuto di stenti, perché siamo poveri; ma ti affido una grande ricchezza:
questo libro.
Mi venne donato da mio padre e contiene tutte le indicazioni necessarie per giungere a un tesoro immenso.
Io non avevo né la forza, né il tempo per leggerlo, ma ora lo affido a te.

Segui le istruzioni e diventerai ricchissimo.”

Il figlio, passata la profonda tristezza per la perdita della madre, cominciò a leggere quel grosso libro antico e prezioso che iniziava con queste parole:
“Per giungere al tesoro leggi pagina dopo pagina.
Se salti subito alla conclusione, il libro sparirà per magia e non potrai raggiungere il tesoro.”
Proseguiva poi descrivendo la quantità di ricchezze accumulate in un paese lontano, ben custodite in una vasta caverna.
Senonché dopo le prime pagine il testo persiano si interrompeva continuando in lingua araba.
II giovane che già si vedeva ricco, per non correre il pericolo che, facendo tradurre il testo, degli altri venissero a conoscenza del tesoro e se ne impadronissero dandogli false informazioni, si mise a studiare con passione l’arabo, sino a che fu in grado di leggere a perfezione il testo.
Ma ecco che, dopo altre pagine, questo continuava in cinese, e poi ancora in altre lingue che il giovane, con accanimento e pazienza, studiò tutte.
Nel frattempo, per vivere, mise a frutto la sua perfetta conoscenza di quelle lingue e cominciò ad essere noto anche nella capitale come uno dei migliori interpreti, cosicché anche la sua vita divenne meno precaria.

Dopo le molte pagine in varie lingue,

il libro proseguiva ancora con istruzioni per amministrare il tesoro, dopo averlo raggiunto, e il giovane studiò volentieri economia, contabilità, e anche la valutazione dei metalli pregiati, delle pietre preziose, dei beni mobili e immobili per non essere imbrogliato una volta in possesso del tesoro.
Nel frattempo metteva a frutto le sue nuove conoscenze anche per assicurarsi un miglior tenore di vita, tanto che la sua fama di poliglotta esperto di finanza e abile economista giunse fino alla corte dello scià.
Lo scià ordinò che fosse assunto tra i suoi consiglieri e gli affidò dapprima dei piccoli incarichi, poi, conoscendolo meglio, gli confidò alcune missioni difficili e delicate e, alla fine, lo nominò amministratore generale dell’impero.
Il giovane non tralasciava però di continuare la lettura del suo libro, che finalmente si addentrava nel vivo della questione, indicando come bisognava fare per costruire un grande ponte e degli argani, delle macchine per giungere alla caverna, aprire le porte di pietra scartando grandi massi, riempiendo anfratti e avvallamenti per appianare la strada, e altre cose del genere.
Sempre con l’idea di non confidare a nessuno il suo segreto, e quindi di non farsi aiutare da altri, il figlio della vedova, divenuto ormai un uomo colto e rispettato, studiò anche ingegneria e urbanistica, al punto che lo scià, apprezzandone il valore e la cultura, lo nominò ministro e architetto di corte, e infine primo ministro.
Non c’era nel regno un altro uomo tanto colto, pratico e abile in tutte le scienze, come il lettore del “Libro del tesoro.”
Proprio nel giorno in cui sposava la figlia dello scià, il giovane arrivò all’ultima pagina del libro.
Con un po’ di batticuore, afferrò il lembo dell’ultima pagina:
stava per conoscere la rivelazione definitiva.

Lentamente voltò il foglio e… scoppiò in una risata.

Di sorpresa, gioia e gratitudine.
L’ultima pagina era una lastra di metallo perfettamente levigato che faceva da specchio:
nell’ultima pagina il figlio della vedova vide il proprio volto.
Un volto di uomo maturo, consapevole, saggio e destinato ad una grande carriera.
E tutto questo grazie al libro che sua madre gli aveva donato.
Il grande tesoro era lui stesso e il libro l’aveva aiutato a scoprirlo.

Brano tratto dal libro “Nuove storie. Per la scuola e la catechesi.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.