La principessa e l’uccellino marrone

La principessa e l’uccellino marrone

“Una Principessa sta per venire qui,” disse il Leone agli animali della giungla riuniti in assemblea, “come possiamo dimostrarle che siamo molto felici di averla con noi?”
“Potremmo farle dei profondi inchini,” suggerì l’ippopotamo, “ma è vero che non tutti abbiamo il fisico adatto!”
“Potremmo tutti gridare forte Benvenuta,” soggiunse l’elefante, “ma forse si spaventerebbe!”
“Potremmo danzare…” propose la Giraffa, ma il Leone guardò l’ippopotamo, scosse la testa e tutti gli animali sospirarono.
Allora l’Uccellino Marrone cinguettò timidamente: “Non potremmo fare un giardino?
Le Principesse adorano i fiori!”
Tutti lo fissarono ammirati.
“Questa sì, che è un’idea felice,” disse il Leone, “lo faremo insieme.”
Venne scelto con cura un luogo molto bello, ma il Leone osservò che andava dissodato.

“Ci penso io!” gridò l’ippopotamo.

“Pesterò la terra coi miei piedoni e con il mio grosso e pesante corpo finché diverrà fine e leggera!”
“Benissimo.” approvò il Leone, “Ora dobbiamo fare dei buchi per piantare i semi.”
“Lo faccio io con gli aculei della mia schiena.” si offrì il Porcospino.
Si appallottolò tutto e cominciò a rotolare su e giù per il campo, finché fu pieno di buchetti regolari. “Benissimo.” disse il Leone, “Ora pianteremo i semi!”
“Tocca a me,” disse la Cavalletta, “sono veloce e leggera!”
Sorvolò saltellando il terreno e in un batter d’occhio piantò tutti i semi.
“Benissimo.” disse il Leone, “Ora bisogna innaffiare il giardino.”
“Lasciate fare a me!” esclamò l’Elefante, “Userò la proboscide!”
Andò al fiume, riempì bene la proboscide e spruzzò un bel po’ d’acqua sul giardino.
“Benissimo.” disse il Leone, “E ora come faremo a impedire alla Scimmia di rovinarci tutto il giardino?”
“Sarà mio compito, farò io la guardia.” propose la Giraffa allungando il collo.
E l’Uccellino Marrone?
Avrebbe voluto essere di aiuto, ma pareva che nessuno avesse bisogno di lui.
Dopo un po’ i semi cominciarono a crescere, ma il Leone, che si era recato a controllare i progressi del giardino, scosse la testa:

“Quante erbacce!

Rovineranno tutto!
Chi è capace di estirparle?”
Gli animali rimasero tutti zitti.
L’ippopotamo si giustificò:
“I miei piedi sono troppo grossi, rovinerei tutto!”
“I miei aculei danneggerebbero le foglie!” si scusò il Porcospino.
“Le erbacce sono troppo pesanti per me!” disse la Cavalletta.
“La mia proboscide spezzerebbe gli steli!” affermò l’Elefante.
“Ho il collo troppo lungo e non posso chinarmi tanto!” si lagnò la Giraffa.
“Cri-cri!” fece il grillo e se la squagliò.
Tutti quei pigroni si girarono e se ne andarono.
Allora l’Uccellino Marrone volò nel giardino.
Con il suo minuscolo becco sradicò un’erbaccia e la gettò dietro una siepe.
Le radici erano forti e spesso il becco gli doleva e dopo un po’ anche le ali gli pesavano.
Ma con pazienza, un giorno dopo l’altro, l’Uccellino Marrone ripulì il giardino finché non rimase una sola erbaccia.
Intanto una miriade di fiori rossi, azzurri e gialli mostrava graziosamente la corolla sui lunghi e sottili steli.

Il giorno dopo, la Giraffa, che era di guardia, annunciò:

“Arriva la Principessa!
La vedo!”
Gli animali si riunirono tutti nel giardino e si meravigliarono di trovarlo così in ordine.
“Forse le erbacce si sono seccate!” disse il Leone, mentre l’Uccellino Marrone appollaiato su un albero taceva.
La Principessa sorrise:
“Non ho mai visto un giardino così bello,” disse, “dovete aver lavorato sodo!”
“È vero, abbiamo lavorato sodo!” risposero in coro gli animali pieni di sé sorridendo.
“Chi di voi è così gentile da cogliere qualche bel fiore per me?” chiese la Principessa.
Il Leone si fece avanti.
“Io ho dato tutte le istruzioni, perciò tocca a me!”
“Però io ho arato la terra!” protestò l’ippopotamo.
“E io ho fatto i buchi per i semi!” aggiunse il Porcospino.
“E io ho piantato i semi!” fece la Cavalletta.
“Io ho innaffiato!” disse l’Elefante.
“Mentre io facevo la guardia!” sottolineò la Giraffa.

La Principessa sorrise.

“Chi ha tolto le erbacce?” chiese.
Tutti rimasero zitti, poi:
“Nessuno!” disse il Leone.
In quel momento la Principessa scorse due occhietti brillanti e un sottile becco che faceva capolino tra le foglie di un albero.
“L’hai fatto tu questo lavoro, Uccellino Marrone?” e l’uccellino annui.
“Allora tu coglierai i fiori per me, perché il tuo è stato il lavoro più duro e più lungo!”
L’Uccellino Marrone volò giù verso il giardino; poi con il becco sottile colse con garbo il più bel fiore e l’offrì alla Principessa.
Ne colse un altro e un altro ancora fino a mettere insieme un bel mazzolino variegato.
La Principessa baciò la sua testolina marrone e gli sorrise.
Allora l’Uccellino Marrone cantò come non aveva mai fatto prima finché il sole tramontò nel bel giardino degli animali.

Brano tratto dal libro “365 storie per l’anima.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Il monaco e l’abate

Il monaco e l’abate

C’era una volta un monaco che conduceva una vita serena e tranquilla.
Una sola inquietudine lo tormentava.
Aveva paura dell’eternità.
Gli eletti in Paradiso cantano le lodi di Dio come fanno i monaci.
Un conto è farlo per un po’ di tempo.

Ma per l’eternità!

Per felici che si possa essere alla presenza di Dio, dopo qualche milione d’anni chissà che noia!
Un giorno di autunno, se ne andò secondo la sua abitudine a passeggiare nel bosco che circondava il monastero.
L’aria era viva e leggera, profumata di erba e di fiori.
Il monaco sospirò pensando al suo problema.
Sopra la sua testa un usignolo cominciò a cantare.
Un canto così puro, modulato, melodioso che il monaco dimenticò i suoi pensieri per ascoltarlo.
Non aveva mai sentito niente di più bello.

Per un istante ascoltò estasiato.

Poi pensò che era ora di raggiungere il coro per la preghiera e si affrettò.
Stranamente avevano sostituito il frate portinaio con uno che non conosceva.
Passò un altro monaco e poi un altro che non aveva mai visto.
“Che cosa desidera?” gli chiese il portinaio.
Vagamente irritato, il nostro monaco rispose che voleva soltanto entrare per non essere in ritardo.
L’altro non capiva.
Il monaco protestò e chiese con veemenza di vedere l’abate.
Ma anche l’abate era uno sconosciuto e il povero monaco fu preso dalla paura.
Balbettando un po’, spiegò che era uscito dal monastero per una breve passeggiata e che si era attardato un attimo ad ascoltare il canto di un usignolo, ma che si era affrettato a rientrare per l’ufficio pomeridiano.

L’abate lo ascoltava in silenzio.

“Cento anni fa,” disse alla fine, “un monaco di questa abbazia, proprio in questa stagione e in quest’ora, è uscito dal monastero.
Non è più ritornato e nessuno l’ha più rivisto.”
Allora il monaco capì che Dio l’aveva esaudito.
Se cento anni gli erano parsi un istante nello stato d’estasi in cui l’aveva rapito il canto dell’usignolo, l’eternità non era che un istante nell’estasi in Dio.

Brano tratto dal libro “Il segreto dei pesci rossi.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Due semi

Due semi

Due semi si trovavano fianco a fianco nel fertile terreno autunnale.
Il primo seme disse:

“Voglio crescere!

Voglio spingere le mie radici in profondità nel terreno sotto di me e far spuntare i miei germogli sopra la crosta della terra sopra di me…
Voglio dispiegare le mie gemme tenere come bandiere per annunciare l’arrivo della primavera
Voglio sentire il calore del sole sul mio volto e la benedizione della rugiada mattutina sui miei petali!”

E crebbe.

L’altro seme disse:
“Che razza di destino, il mio!
Ho paura.
Se spingo le mie radici nel terreno sotto di me, non so che cosa incontrerò nel buio.
Se mi apro la strada attraverso il terreno duro sopra di me posso danneggiare i miei delicati germogli…
E se apro le mie gemme e una lumaca cerca di mangiarsele?

E se dischiudessi i miei fiori,

un bambino potrebbe strapparmi da terra.
No, è meglio che aspetti finché ci sarà sicurezza.
E aspettò.
Una gallina che raschiava il terreno d’inizio primavera in cerca di cibo trovò il seme che aspettava e subito se lo mangiò.

Brano tratto dal libro “A volte basta un raggio di sole.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Il testamento di un albero

Il testamento di un albero

Un albero di un bosco chiamò gli uccelli e fece testamento:
“Lascio i miei fiori al mare, lascio le foglie al vento,
i frutti al sole e poi
tutti i semi a voi.

A voi, poveri uccelli,

perché mi cantavate le canzoni
della bella stagione.
E voglio che gli sterpi,

quando saranno secchi,

facciano il fuoco per i poverelli.

Però vi avviso che sul mio tronco
c’è un ramo che dev’essere ricordato

alla bontà degli uomini e di Dio.

Perché quel ramo, semplice e modesto, fu forte e generoso: e lo provò
il giorno che sostenne un uomo onesto quando ci si impiccò”.

Brano di Trilussa

Perché, nonostante tutto, è possibile essere felici!

Perché, nonostante tutto, è possibile essere felici!

Da oggi in poi, tutti i giorni, quando mi sveglio, dirò:
Oggi io sono felice!
Mi ricorderò di ringraziare il sole, per il suo caldo e la sua luminosità.
Sentirò che sto vivendo, respirando.

Potrò sfruttare tutte le risorse della natura, gratuitamente.

Non avrò bisogno di comperare il canto degli uccelli, neanche il mormorio della riva del mare.
Ricorderò di sentire la bellezza degli alberi e dei fiori nelle sublimi ore della mattina.
Sorriderò sempre quando è possibile.
Cercherò di coltivare più amicizie e neutralizzare le inimicizie.
Non giudicherò gli altri, i compagni e gli amici.
Ricorderò di telefonare ad un amico per fargli capire che sento la sua nostalgia, riserverò minuti di silenzio per avere l’opportunità di ascoltare.

Non mi lamenterò!

Avrò sempre in mente che un minuto trascorso non ritorna più!
Approfitterò meglio di tutti i minuti della vita.
Non soffrirò in anticipo, pensando al futuro incerto, o ricordando le cose passate.
Non penserò a ciò che non ho e mi piacerebbe avere.
Come posso essere felice con quello che ho?

Il dono più grande è la propria vita.

Voglio ricordare di leggere una poesia e dedicarla a qualcuno/a.
Non mi aspetto niente in cambio, soltanto il piacere vedere il sorriso di un amico.
Voglio ricordare che esiste qualcuno che mi vuole bene.
E, quando la notte arriva, guarderò il cielo, le stelle e la luna, e ringrazierò gli angeli e Dio perché, nonostante tutto, è possibile essere felici!

Brano senza Autore, tratto dal Web

Ognuno dona ciò che ha nel cuore (Il ricco ed il povero)

Ognuno dona ciò che ha nel cuore
(Il ricco ed il povero)

Un giorno un uomo ricco consegnò un cesto di spazzatura a un uomo povero.
L’uomo povero gli sorrise e se ne andò col cesto; lo svuotò, lo lavò e lo riempì di fiori bellissimi.

Poi ritornò dall’uomo ricco e glielo diede.

L’uomo ricco si stupì e gli disse:
“Perché mi hai donato fiori bellissimi se io ti ho dato la spazzatura?”

L’uomo povero rispose:

“Ogni persona dà ciò che ha nel cuore!”

Brano senza Autore, tratto dal Web

La farfalla su uno stelo

La farfalla su uno stelo

Una farfalla volava instancabile tra i fiori, quando d’un tratto un pianto sommesso la fece sobbalzare.
“Che fatto insolito, pensò, in un giardino!” e impaurita si spezzò le ali andando a urtare contro un alberello.
“Ah, che mai sarà di me adesso!

Non volerò più… morirò di tristezza!”

E mentre così si lamentava, si ricordò del pianto appena udito e chiese al vento:
“Chi piangeva prima di me?”
“Io, stelo nudo senza fiore; una folata di vento mi ha ridotto così.

E a che serve uno stelo senza fiore?” disse.

La farfalla si trascinò stancamente fino a lui:
“Non sei il solo a soffrire; con le mie ali spezzate, non volerò mai più libera nell’aria!”
Lo stelo tacque e sembrò riflettere, ma tanto durava il suo silenzio, che la farfalla quasi si innervosì.

Alla fine parlò:

“Insieme, possiamo aiutarci.
Posati su di me, così tu porgerai le ali al vento ed io avrò di nuovo un fiore.”
La farfalla si illuminò tutta di un sorriso.
I passeri accorsero ad aiutarli e unirono per sempre la farfalla al verde stelo.
Da allora ci sono farfalle che volano ed altre che, trasformate in fiori, si lasciano cullare sugli steli.

Brano di Don Ezio del Favero

I gessetti colorati

I gessetti colorati

Nessuno sapeva quando quell’uomo fosse arrivato in città.
Sembrava sempre stato là, sul marciapiede della via più affollata, quella dei negozi, dei ristoranti, dei cinema eleganti, del passeggio serale, degli incontri degli innamorati.
Ginocchioni per terra, con dei gessetti colorati, dipingeva angeli e paesaggi meravigliosi, pieni di sole, bambini felici, fiori che sbocciavano e sogni di libertà.
Da tanto tempo, la gente della città si era abituata all’uomo.

Qualcuno gettava una moneta sul disegno.

Qualche volta si fermavano e gli parlavano.
Gli parlavano delle loro preoccupazioni, delle loro speranze; gli parlavano dei loro bambini: del più piccolo che voleva ancora dormire nel lettone e del più grande che non sapeva che Facoltà scegliere, perché il futuro è difficile da decifrare…
L’uomo ascoltava.
Ascoltava molto e parlava poco.
Un giorno, l’uomo cominciò a raccogliere le sue cose per andarsene.

Si riunirono tutti intorno a lui e lo guardavano.

Lo guardavano ed aspettavano:
“Lasciaci qualcosa. Per ricordare…”
L’uomo mostrava le sue mani vuote:
che cosa poteva donare?
Ma la gente lo circondava e aspettava.
Allora l’uomo estrasse dallo zainetto i suoi gessetti di tutti i colori, quelli che gli erano serviti per dipingere angeli, fiori e sogni, e li distribuì alla gente.

Un pezzo di gessetto colorato ciascuno, poi senza dire una parola se ne andò.

Che cosa fece la gente dei gessetti colorati?
Qualcuno lo inquadrò, qualcuno lo portò al museo civico di arte moderna, qualcuno lo mise in un cassetto, la maggioranza se ne dimenticò.

Brano tratto dal libro “A volte basta un raggio di sole.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

L’asinello vanitoso

L’asinello vanitoso

C’era una volta in un paesello in collina un asinello bianco che si chiamava Isaia.
Era un asinello assolutamente comune, uguale a tutti gli altri non più alto non più basso di tutti gli altri asinelli, ma data la disponibilità e gentilezza del suo padrone ogni anno Isaia veniva scelto per portare la statua del santo in processione per il paese.
Anche quell’anno gli fu affidato quel compito e subito Isaia iniziò a vantarsi con gli altri animali della fattoria:
“Sono il più bello di tutti gli animali del paese e per questo tutti mi guardano e mi ammirano!”
Il giorno della processione sulla groppa dell’asinello fu posizionata la statua del santo e il cammino per le strade del paese iniziò, ma iniziò anche Isaia a vantarsi:

“Tutti mi guardano perché sono il più bello.

Le donne del paese mi lanciano petali di fiori quando passo.
I bambini si inchinano.
Gli uomini mi aprono la strada ossequiosi.”
Gli altri animali non ne potevano davvero più, tutto il giorno a vantarsi, ed in più Isaia, convinto della sua superiorità non voleva più saperne di lavorare come tutti gli altri.
Il padrone si rese conto del gran disagio che si stava creando e così decise di parlare al suo asino vanitoso:
“Isaia, durante la processione la gente non guarda te, ma guarda il Santo!”

“Non è possibile!

Io sono l’animale più bello del paese!” replicò l’asino.
“Basta Isaia,” disse il padrone, “questa storia deve finire!”
Così quando arrivò il giorno della processione il padrone, senza nulla dire, prese il maiale, lo pulì per bene e ci caricò in groppa la statua del Santo.
La gente del paese lo guardava ammirata, le donne gli lanciavano petali di fiori, i bambini si inchinavano e gli uomini gli aprivano la strada ossequiosi.

Allora Isaia capì.

Non era lui che la gente guardava e ammirava.
Da quel giorno l’asinello imparò a essere meno vanitoso e a rispettare gli altri animali della fattoria.

Brano senza Autore, tratto dal Web

Il ricamo

Il ricamo

Quando ero piccolo mia madre era solita cucire tanto.
Mi sedevo vicino a lei e le chiedevo cosa stesse facendo.

Lei mi rispondeva che stava ricamando.

Osservavo il lavoro di mia madre da un punto di vista più basso rispetto a dove stava seduta lei, cosicché ogni volta mi lamentavo dicendole che dal mio punto di vista ciò che stava facendo mi sembrava molto confuso.
Lei mi sorrideva, guardava verso il basso e gentilmente mi diceva:
“Figlio mio, vai fuori a giocare un po’ e quando avrò terminato il mio ricamo ti metterò sul mio grembo e ti lascerò guardare dalla mia posizione!”
Mi domandavo perché utilizzava dei fili di colore scuro e perché mi sembravano così disordinati visti da dove stavo io.

Alcuni minuti dopo sentivo la voce di mia madre che mi diceva:

“Figlio mio, vieni qua e siediti sul mio grembo.”
Io lo facevo immediatamente e mi sorprendevo e mi emozionavo al vedere i bei fiori o il bel tramonto nel ricamo.
Non riuscivo a crederci; da sotto si vedeva così confuso.

Allora mia madre mi diceva:

“Figlio mio, di sotto si vedeva confuso e disordinato ma non ti rendevi conto che di sopra c’era un progetto.
C’era un disegno, io lo stavo solo seguendo.
Adesso guardalo dalla mia posizione e saprai ciò che stavo facendo!”

Brano tratto dal libro “Il Dio Padre di Gesù.” di Giovanni Maddamma