La lepre ed il ghiacciolo

La lepre ed il ghiacciolo

Sui verdi fianchi di una balza delle Alpi, sotto un roccione sporgente, c’era la tana di una lepre di montagna.
Quella lepre ogni tanto faceva capolino.
Come tutti gli animali selvatici, era povera in canna e viveva nutrendosi di ogni sorta di erbaggi.
Aveva però due vestiti, un lusso che la natura le concedeva gratuitamente e senza pericolo di farla diventare ambiziosa.
I fiori, che vedevano la lepre d’estate, conoscevano bene il suo giubbetto color grigio-bruno con la gran toppa bianca sul petto.
I ghiacci e le nevi che la vedevano d’inverno, conoscevano invece il suo candido, attillato pastrano.
Anche i ghiaccioli, che pendevano numerosi e impettiti dall’ingresso della tana, stavano ad ammirarla un po’ invidiosi per ore e ore, mentre dormiva avvolta nella sua bianca pelliccia.
I fiori che segnavano il tempo di primavera e d’estate non consideravano la lepre un personaggio importante, pensando che avesse, come tutti gli altri animali, un solo vestito; ma le rocce e gli alberi, che la vedevano in tutte le stagioni, sapevano benissimo che i suoi vestiti erano due, e avevano di lei grande stima, perché la ritenevano una bestia facoltosa e tuttavia sempre umile, riservata e gentile.
Sul finire di un inverno, mentre la lepre si preparava a cambiare vestito perché l’aria si era fatta meno cruda e ormai le nevi avevano preso congedo, sul roccione sovrastante la tana si vide un ghiacciolo ostinatamente aggrappato all’orlo della fenditura.

“Non ti decidi ad andartene?” gli chiese un giorno l’abete più vicino.

“I tuoi fratelli sono già partiti da un pezzo!
Finirai col non riuscire a raggiungerli!”
“Andarmene, io?
Io non me ne vado: rimango!
Durante l’inverno non ho fatto altro che sentir decantare la primavera con i suoi colori, l’estate con la sua luce e il vento che sembra una carezza, e la gioia dei fiori e dell’erba, e il cielo tutto lucido e pulito.
Perfino le lepri so che mutano d’abito, come per prepararsi ad una festa.
Perché proprio io non dovrei conoscere tante belle cose, se sono belle davvero?
Ho deciso perciò di restare fino alla primavera, magari fino all’estate!”
“Resta pure, se ci riesci!” replicò l’abete.
“Questo, amico bello, è affar mio!” concluse il ghiacciolo.
Quando l’aria cominciò a intiepidire, il ghiacciolo volle mettersi al riparo dal sole.
Si staccò dalla fenditura e si lasciò cadere in un’incavatura della roccia nella quale il sole non batteva e da cui avrebbe potuto assistere comodamente allo spettacolo atteso.
Ma quando si fu fermato, sentì che era caduto addosso a qualcosa.
“Che maniera villana di presentarsi!” brontolò quel qualcosa.
“Sono veramente mortificato!” esclamò il ghiacciolo, “Non avevo visto che c’era lei.

Se permette, anzi, mi presento:

io sono il ghiacciolo, l’ultimo ghiacciolo dell’inverno!”
“Bene, tanto piacere.
Io sono la cartuccia, una cartuccia di fucile da caccia!” spiegò la cartuccia.
“Ma come si trova qui, signora cartuccia?
È carica o scarica?
Che pensa della primavera e dell’estate?
Che programmi ha per il futuro?” domandò il ghiacciolo.
“Ragazzo, non prendiamoci confidenze!” replicò la cartuccia
Era una cartuccia molto dura e superba, e vedeva tutte le cose dal punto di vista delle cartucce.
“Sono di ottima marca, e… carica, naturalmente.
“E se mi trovo qui è solo a causa di uno spiacevole contrattempo.
Durante una battuta, il mio padrone mi ha smarrita, povero sciocco!
Andava a caccia della lepre, e io ero l’ultima cartuccia che gli restava.
La lepre può ringraziare il cielo:
se avesse avuto a che fare con me, non sarebbe scappata di certo.
Con me non si scherza!”

“Ma che le ha fatto la lepre?” chiese il ghiacciolo.

“Niente mi ha fatto.
Ma non doveva nascere lepre.
Se la trovo, l’accoppo!” esclamò la cartuccia.
“Via, c’è posto per tutti a questo mondo…” disse, sicuro, il ghiacciolo.
“Tu non immischiarti nei miei affari privati.
Spero solo che il cacciatore ripassi di qua e che mi veda.
Al resto penserò io!” conclusa la cartuccia.
L’aria si era fatta ormai mite e la lepre vagava nei dintorni in cerca di nutrimento.
Quanto al ghiacciolo, esso faceva una gran fatica a non sciogliersi, e cercava di aderire all’incavatura della roccia nel punto più profondo e più fresco.
Voleva a tutti i costi vedere i fiori dei rododendri, le stelle alpine, il tenero dell’erba novella, il cielo lucido e pulito nello sfolgorio della sua luce cilestrina.
Ormai non doveva attendere molto.
Ma un mattino, svegliandosi, non vide più la cartuccia.
Orme d’uomo, recenti, erano impresse nel suolo ai piedi del roccione.
Il cacciatore era passato di là?
La cartuccia aveva ritrovato il fucile?
Bisognava avvertire la lepre del pericolo, subito!
“Lepre! Lepre! Ehi, lepre!” si mise a gridare il ghiacciolo, “Non uscire!
C’è gente che ti minaccia qua intorno!”

Nessuno rispose.

La lepre certamente era fuori dalla tana.
Al ghiacciolo non rimase che starsene rincattucciato nell’incavatura della roccia a rimuginare pensieri uno più triste dell’altro.
Verso sera, trascinandosi a stento, la lepre fece ritorno alla tana.
Era malconcia, grondava sangue, aveva la febbre.
“Oh, poveretta, poveretta!” esclamò commosso il ghiacciolo che, in fondo, non aveva un cuore di ghiaccio, “Che ti è successo?
Chi è stato?
Quella sciagurata cartuccia?”
“Non so!” rispose la lepre con un filo di voce, cadendo sfinita sulla soglia della tana, “Ho visto una vampa.
Ho udito un sibilo.
Sono ferita.
Ho tanta sete…”
Il ghiacciolo non volle udire altro.
Si rotolò fin sul margine dell’incavatura, sulla roccia ancor calda dal sole, e cominciò rapidamente a sciogliersi.
Cadde in gocce fitte e refrigeranti sulle ferite della lepre, in gocce ristoratrici sulle labbra riarse.
“Chi piange lassù?” balbettò la lepre stupita, riavendosi a poco a poco.
Ma il ghiacciolo non poté più rispondere.
Si era ormai sciolto del tutto, senza neppur pensare che le stelle alpine e i rododendri non erano ancora fioriti, che il cielo non era ancora terso e azzurro.
Tutte cose che dovevano essere belle, oh molto belle, a vedersi.

Brano tratto dal libro “Tutte storie. Per la catechesi, le omelie e la scuola di religione.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

La famiglia di rospi

La famiglia di rospi

In un angolo del grande parco, in una macchia di alberi e cespugli carichi di fiori e bacche colorate, c’era un piccolo stagno, coperto di ninfee bianche e rosate.
Nello stagno viveva una famiglia di rospi.
Papà, mamma e un vispo piccoletto.

Era una famiglia felice.

“Sei il bambino più bello del mondo.” sussurrava mamma rospo al suo piccolo, che gorgogliava soddisfatto, e poi lo copriva di baci.
“Tu sei la più buona mamma del mondo.” le rispondeva il piccolo e poi correva a tuffarsi nella fresca acqua dello stagno.
Papà rospo guardava con orgoglio la sua famiglia, i bordi fioriti dello stagno, l’acqua scura e fresca e diceva:
“Viviamo nel luogo più incantevole dell’universo.”
Un giorno, la vita tranquilla della famigliola fu messa a soqquadro da una serie di strilli.
Provenivano da un gruppo di ragazzine che passeggiavano sul sentiero che fiancheggiava lo stagno:

“Iiih! Che puzza!”

“Sembra un letamaio… Andiamo via di qui.”
“Che acqua putrida!”
“Ehi! Guarda quegli orribili rospi!”“Che schifo!”
“E quello piccolo, tutto bitorzoluto, che creature orrende!”

Papà e mamma rospo si rincantucciarono nel fango, pieni di vergogna.

Il piccolo si nascose sotto una foglia di ninfea, avvilito e mortificato.
Nello stagno la felicità era finita per sempre.

Brano senza Autore

La cisterna screpolata

La cisterna screpolata

Erano due cisterne a distanza di qualche decina di metri.
Si guardavano e, qualche volta, facevano un po’ di conversazione.

Erano molto diverse.

La prima cisterna era perfetta.
Le pietre che la formavano erano salde e ben compaginate.
A tenuta stagna.
Non una goccia della preziosa acqua era mai stata persa per causa sua.

La seconda presentava invece fenditure,

come delle ferite, dalle quali sfuggivano rivoletti d’acqua.
La prima, fiera e superba della sua perfezione, risaltava nettamente.
Solo qualche insetto osava avvicinarsi o qualche uccello.

L’altra era coperta di arbusti fioriti,

convolvoli e more, che si dissetavano all’acqua che usciva dalle sue screpolature.
Gli insetti ronzavano continuamente intorno a lei e gli uccelli facevano il nido sui bordi.
Non era perfetta, ma si sentiva tanto tanto felice.

Brano tratto dal libro “Quaranta storie nel deserto.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

La leggenda della nascita del deserto

La leggenda della nascita del deserto

Tanto tempo fa la terra intera era verde e fresca come una foglia appena spuntata.
C’erano mille ruscelli che correvano tra l’erba.
Arance, mandorle, ciliegie, datteri e melograni crescevano insieme sullo stesso ramo.
Il leone giocava con l’agnello e le tribù degli uomini vivevano in pace.
Essi non sapevano cosa fosse il male.

All’inizio dei tempi, il Signore aveva detto agli uomini:

“Questo giardino fiorito è tutto vostro, e vostri sono i suoi frutti.
Badate però, che ad ogni azione malvagia io lascerò cadere sulla terra un granello di sabbia, e un giorno gli alberi verdi e l’acqua fresca potrebbero scomparire per non tornare mai più!”
Per molto tempo il suo monito venne obbedito e ricordato, finché un giorno due uomini litigarono per il possesso di un cammello.
Appena la prima parola cattiva fu pronunciata il Signore gettò al suolo un granello di sabbia, così minuscolo e leggero che nessuno se ne accorse.
Ben presto alle parole seguirono i fatti, e molti nuovi granelli si formarono e caddero.
Il piccolo mucchio di sabbia cresceva lentamente.
Gli uomini allora si fermarono a guardarlo, incuriositi.

“Cos’è questo, Signore?” chiesero a Dio.

“È il frutto della vostra cattiveria!” rispose Lui.
“Tutte le volte che agirete ingiustamente, che alzerete la mano su un fratello, che mentirete e ingannerete, un granellino si aggiungerà agli altri.
E chissà che un giorno la sabbia non arrivi a coprire la terra intera!”
Ma gli uomini si misero a ridere.
“Anche se fossimo i più perfidi fra i perfidi, non basteranno milioni di milioni di anni perché questa polvere leggera riesca a farci del male.
E poi, chi può aver paura di un po’ di sabbia?”
Così ricominciarono a ingannare e a combattere, uno contro l’altro, tribù contro tribù.
Finché la sabbia seppellì i pascoli verdi e i campi, cancellò il corso dei ruscelli e cacciò le bestie lontano in cerca di cibo.

In questo modo fu creato il deserto.

E da allora le tribù vagano per il deserto, pensando alla verde terra perduta.
E qualche volta in pieno deserto, sognano e vedono cose che non ci sono più:
laghi azzurri e alberi fioriti.
Ma sono visioni che subito svaniscono:
la gente li chiama miraggi.
Solo dove gli uomini hanno osservato le leggi di Dio ci sono ancora palme verdi e sorgenti pulite.
E la sabbia non può cancellare queste cose, ma le circonda come il mare fa con le isole.
I viaggiatori le chiamano oasi.
E là si fermano per trovare riposo e ristoro, ricordando ogni volta le parole del Signore alle tribù:
“Non trasformate il mio mondo verde in un deserto infinito!”
Ora sapete perché, anche oggi, sulla terra i deserti continuano ad avanzare.

Brano senza Autore, tratto dal Web