Il gigante buono

Il gigante buono

Il paese dove i bambini rimanevano bambini era diviso a metà da un fiume.
Là c’era un gigante buono che si caricava i piccoli sulle spalle per portarli da una parte all’altra.
Ma i bambini erano tanti e il gigante uno solo.

Un giorno, un merlo disse al gigante buono:

“Perché, invece di fare tanti viaggi, non aspetti che ci siano almeno tre bambini su una sponda?
Tu ti riposeresti un po’ e loro potrebbero conoscersi meglio.”
Ma il gigante pensò che sarebbe stato egoistico da parte sua.
Dopo qualche mese, lo stesso merlo gli disse:
“Tu conosci il fiume molto bene.
Perché non gli chiedi di darti una mano abbassando le sue acque, solo per qualche settimana?”
Ma il gigante pensò che sarebbe stata una mancanza di tatto.
Dopo un anno, il merlo si fece vivo di nuovo:
“Guarda quanti alberi ci sono!

Per te sarebbe un gioco da ragazzi farci una zattera.

Potresti insegnare ai bambini…”
Il gigante, sorridendo, lo interruppe:
“Grazie, grazie davvero.
Ma non ti devi preoccupare per me!
E poi dove lo trovo il tempo?
Con tutti i piccoli che devo traghettare…”
Il merlo non tornò più.
Ma una sera, il gigante buono, stremato da tutte le sue traversate, cadde disteso sul letto del fiume.
Grosso come era, non riusciva più ad alzarsi.

Allora i bambini si dissero:

“Non possiamo lasciarlo lì!”
Piano piano, dandosi la mano, entrarono nel fiume.
Con loro grande stupore (e con grande stupore dello stesso gigante) si accorsero che l’acqua non arrivava loro più in su della vita.
“Uno, due, tre… issa!” gridarono tutti insieme.
Con gentilezza, sollevarono il gigante buono e lo portarono sull’altra sponda.

Brano senza Autore.

La sfida tra il sole ed il vento

La sfida tra il sole ed il vento

Un giorno il vento e il sole cominciarono a litigare.
Il vento sosteneva di essere il più forte e a sua volta il sole diceva di essere la forza più grande della terra.

Alla fine decisero di fare una prova.

Videro un viandante che stava camminando lungo un sentiero e decisero che il più forte di loro sarebbe stato colui che sarebbe riuscito a togliergli i vestiti.
Il vento, così, si mise all’opera: cominciò a soffiare, e soffiare, ma il risultato fu che il viandante si avvolgeva sempre più nel mantello.
Il vento allora soffiò con più forza, e l’uomo chinando la testa si avvolse un sciarpa intorno al collo.

Fu quindi la volta del sole, che cacciando via le nubi,

cominciò a splendere tiepidamente.
L’uomo che era arrivato nelle prossimità di un ponte, cominciò pian piano a togliersi il mantello.
Il sole molto soddisfatto intensificò il calore dei suoi raggi, fino a farli diventare incandescenti.
L’uomo rosso per il gran caldo, guardò le acque del fiume e senza esitare si tuffò.

Il sole alto nel cielo rideva e rideva!

Il vento deluso e vinto si nascose in un luogo lontano.

Favola di Esopo

Il massaggio e l’acqua di petali rosa

Il massaggio e l’acqua di petali rosa

Si chiamava “Bella come l’aurora” e viveva serenamente in un piccolo villaggio di pescatori sulle rive del Fiume Azzurro.
Fu chiesta in moglie dal più ricco dei pescatori del fiume.
I primi anni della giovane coppia furono veramente felici e spensierati.
Ma tutta quella felicità infastidiva e irritava sempre di più la suocera di Katy, che era stata rapidamente spodestata dal cuore del figlio, dei familiari e dei servi dalla bella nuora.
Così cominciò a tormentarla in ogni modo ed a diffondere le più orribili dicerie sul suo conto.
Esasperata, la bella Katy decise di vendicarsi uccidendo la suocera.

In preda a questa cupa decisione, si recò da uno stregone per procurarsi un filtro di morte.

Lo stregone l’ascoltò attentamente e poi le diede una fiala che conteneva un liquido rosa da mescolare ogni giorno nel tè della suocera, poi le propose, per stornare da sé ogni sospetto, di praticare ogni mattino sulle spalle, la nuca e la fronte della suocera un massaggio dolce e rilassante:
“In questo modo la morte la sorprenderà lentamente nel giro di sei mesi!”
Katy paziente e ostinata, per mesi versò regolarmente gocce di liquido rosa nel tè della suocera e praticò con la stessa pazienza il dolce massaggio ogni giorno.
Il massaggio quotidiano tesseva una rete nuova tra le due donne, che divennero amiche.

Il loro cuore cambiò.

La suocera notò quanto la nuora fosse gentile e generosa oltre che bella.
Katy riscopriva ogni giorno il cuore materno della suocera.
Dopo qualche mese, Katy aveva praticamente dimenticato il motivo delle quotidiane visite, delle gocce di liquido rosa nel tè e del massaggio alla suocera:
tutto questo era diventato una tranquilla e piacevole abitudine, fatta di complicità, di lunghe chiacchierate e di tenerezza.
Ma un giorno, all’improvviso, fu costretta a ricordarsene.
La suocera innocentemente disse:
“Stiamo bene insieme.
Che peccato che io debba morire molto prima di te…”.
Katy si alzò e corse dallo stregone per avere l’antidoto al veleno della fiala.
Si gettò in ginocchio e lo supplicò, spiegandogli quello che era successo e come fosse cambiato il suo cuore.

Lo stregone sorrise:

“Alzati, mia bella figliola.
Il liquido che ti ho dato è soltanto acqua di petali di rosa.
Il vero antidoto al veleno dell’odio, che in realtà era dentro di te, è stato il massaggio quotidiano.
Se guardi una persona negli occhi, le stai vicino, parli con lei non potrai più odiarla!”

Brano senza Autore

Tre barche in soccorso (La provvidenza)

Tre barche in soccorso
(La provvidenza)

Un prete stava preparando una predica sulla provvidenza, quando sentì un gran boato.
Si affacciò alla finestra e vide della gente che correva avanti ed indietro in preda al panico.
Scoprì che aveva ceduto una diga, il fiume era in piena e stavano evacuando le persone.

Il prete vide che l’acqua saliva dalla strada sottostante.

Fece un po’ fatica a soffocare il panico che lo stava attanagliando, ma disse:
“Sono qui a preparare una predica sulla provvidenza ed ecco che mi si presenta l’occasione per mettere in pratica quello che racconto agl’altri:
Non fuggirò, starò qui e confiderò nella salvezza che mi verrà dalla provvidenza Divina!”
Quando l’acqua raggiunse la sua finestra, arrivò una barca carica di persone.

“Salti dentro, padre!” gridarono.

“No, no figli miei.” replicò il sacerdote con calma, “Confido nella provvidenza di Dio che mi salverà!”
Il padre tuttavia salì sul tetto e, quando l’acqua arrivò fino lassù, passò un’altra barca carica di persone, le quali incoraggiarono il prete a salire.
Ma egli rifiutò di nuovo.
Alla fine dovette arrampicarsi in cima al campanile.
Quando l’acqua gli arrivò alle ginocchia e gli mandarono un pompiere a salvarlo con una barca a motore.
“No, grazie, amico!” egli esclamò con un sorriso tranquillo, “Ho fiducia in Dio, capisce?

Lui non mi abbandonerà!”

Quando il prete annegò e andò in Paradiso, la prima cosa che fece fu di lamentarsi con Dio:
“Mi sono fidato di te!
Perché non hai fatto niente per salvarmi?”
“A dire il vero,” rispose Dio, “ti ho mandato ben tre barche!”

Brano senza Autore

La leggenda dei “gattini” dei salici

La leggenda dei “gattini” dei salici

Un’antica leggenda, tramandata di generazione in generazione, la cui origine si perde nella notte dei tempi, vede diversi popoli attribuirsene la paternità, vantandosi del proprio luogo natio come teatro dello svolgimento.
Mamma gatta era disperata perché i suoi gattini erano stati gettati da un padrone malvagio nel fiume per sbarazzarsene.

Il padrone aveva dimenticato, però, che i gatti hanno sette vite.

La gattina non aveva dimenticato la sua discendenza dalle antiche divinità Egizie dei gatti sacri, chiamati Mau, e supplicò i salici affacciati sulle sponde del fiume affinché li salvassero.
Li avrebbe ricompensati, grazie ai suoi poteri, con un grande e perpetuo riconoscimento.
I salici allora tesero i rami sul fiume fino a lambire la corrente e cosi i gattini poterono aggrapparsi e salvarsi.

Da quel giorno, i salici non fiorirono più,

ma ancora oggi, durante la primavera, si ricoprono di morbide infiorescenze bianche come il manto dei gattini salvati.
Anche i rami rimasero, da allora, protesi verso acqua.
Tale infiorescenza ancor oggi viene chiamata “gattini.”

In dialetto veneto questa parola diventa “gattici.”

Mi piace pensare che l’origine di tale leggenda sia veneta, e che il mio pensiero non sia del tutto fuori luogo, anche perché lungo i corsi d’acqua della regione, questi alberi dove non nascono spontaneamente, vengono piantati a ricordo di ciò.
Il paesaggio veneto, da questi alberi, ne trae grande beneficio.
I salici, nel corso dei secoli, vennero decantati da diversi poeti e raffigurati da pittori di ogni epoca.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Il pane buono (La ragazza rom)

Il pane buono
(La ragazza rom)

Tempo fa, sul cader della sera di un sabato qualunque, in una bella e profumata giornata primaverile, stavo innaffiando l’erba ed i fiori del piccolo giardino che adorna la nostra casa, assorto nei lieti pensieri del dolce far niente.
Davanti al cancello, all’improvviso, apparve la figura di una ragazzina.

Chiaramente una Rom, una zingara:

il suo volto ed il suo cencioso abbigliamento non lasciavano certo spazio a dubbi in tal senso.
Con un italiano piuttosto stentato mi chiamò e mi disse:
“Dio ti benedica te e tua famiglia, mi dai pane vecchio per mangiare?”

Le risposi:

“Dove abiti?” (curioso, vero? Quando Dio ci parla, capita spesso che di primo acchito cambiamo discorso)
“Là, vicino fiume Mella!” replicò.
“E di cosa vivi?” le domandai.
“Di quello che mi danno!” esclamò.
“Non vai a scuola?” proseguì.
“No, mai andata!” mi rispose.

“E i tuoi genitori cosa dicono?” chiesi ancora.

“Padre non so, non vedo da tanto, lui carcere; madre dice:
andare prendere qualcosa da mangiare.
Mi dai pane vecchio?” mi chiese nuovamente.
“Sì, certo, scusa, volevi del pane vecchio.
Ho quello fresco, buono, di oggi, vado dentro a prenderti quello!” le dissi mentre mi stavo girando per entrare in casa.
“Buono, hai già dato!” rispose.

Brano senza Autore.

Attraversare il fiume

Attraversare il fiume

Tre persone si trovarono un giorno davanti ad un fiume dalle acque rapide e minacciose.
Tutte e tre dovevano passare dall’altra parte.

Era molto importante per loro.

Il primo, un mercante scaltro e gran trafficante, abile nel gestire uomini e cose, si inginocchiò e rivolse un pensiero a Dio:
“Signore, dammi il coraggio di buttarmi in queste acque minacciose e di attraversare il fiume.
Dall’altra parte mi attendono affari importanti.
Raddoppierò i miei guadagni, ma devo fare in fretta…”
Si alzò e, dopo un attimo di esitazione si tuffò nell’acqua.

Ma l’acqua lo trascinò a valle.

Il secondo, un soldato noto per l’integrità e la forza d’animo, si mise sull’attenti e pregò:
“Signore, dammi la forza di superare questo ostacolo.
Io vincerò il fiume, perché lottare per la vittoria è il mio motto!”
Si buttò senza tentennare, ma la corrente era più forte di lui e lo portò via.
La terza persona era una donna.

A casa l’attendevano marito e figli.

Anche lei si inginocchiò e pregò:
“Signore, aiutami, dammi il consiglio e la saggezza per attraversare questo fiume minaccioso!”
Si alzò e si accorse che poco lontano un pastore sorvegliava il gregge al pascolo.
“C’è un mezzo per attraversare questo fiume?” gli chiese la donna.
“A dieci minuti di qui, dietro quella duna, c’è un ponte!” rispose il pastore.

Brano di Bruno Ferrero

Il tesoro nel gelso

Il tesoro nel gelso

Il territorio di Levada è situato lungo il fiume Piave e durante la prima guerra mondiale subì massicci bombardamenti a tappeto da parte dell’artiglieria Austro-Ungarica, che inoltre disseminò il terreno di mine, alcune delle quali rimasero inesplose, e di schegge di granate.

I contadini, nel riprendere i lavori agricoli,

bonificarono i terreni mettendo per comodità i residui bellici dentro i tronchi cavi degli alberi di gelso, utilizzati per l’allevamento del baco da seta, molto in auge in quel periodo.
I gelsi, crescendo, incorporarono il tutto nel loro interno, rendendo il metallo non sempre visibile.
Per la festa della parrocchia era abitudine usare della legna di gelso da ardere.
Questo tipo di legna, per la presenza di nodi e di metalli, era tra le più difficili da tagliare, anche perché, con molta facilità, venivano rotte accette e seghe.
Il parroco, per poter comunque avere questa legna per la festa, faceva affidamento su dei volontari, i quali si arrendevano quasi subito, o per la fatica immane, o lamentando strappi alla schiena, o che,

per giustificarsi del ritiro, rompevano volutamente il manico delle accette.

Dopo diverse ricerche, solamente un parrocchiano accettò di portare a termine il lavoro.
Non a caso era il balordo del paese, che pretese in cambio un fiasco di vino e la deroga di dire in libertà qualche imprecazione non tanto ortodossa, strappando inoltre l’accordo di tenere per se tutto il metallo presente nei tronchi, che avrebbe separato dalla legna, in modo da poterlo vendere.
Questo buon uomo era anche motivato da una leggenda ascoltata in osteria.
Secondo questa leggenda, i gelsi non celavano solo schegge di granate ma anche un tesoro nascosto da un ladro, il quale, dopo la sua rocambolesca fuga, non tornò più a riprenderlo.

La sorte fu benigna con l’intraprendente taglialegna,

infatti trovò all’interno dell’ultimo tronco il tesoro, composto da un bel po’ di sonanti monete d’argento.
Tutto ciò accadde sotto gli occhi stupefatti del parroco, che come da accordi precedentemente presi, confermò allo spaccalegna che tutto il metallo fosse suo, dicendo:
“Con i miei occhi ho visto qualcosa che mi ha fatto ripensare alle Sacre Scritture.
Così come la pietra scartata dai costruttori è diventata testata d’angolo, così il tronco che nessuno voleva spaccare è diventato per te un tesoro meritato!”

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

I supereroi

I supereroi

Diversi anni fa, poco più che adolescente, mio padre mi chiese di andare a verificare una nostra proprietà.
Si trattava di raggiungere un bosco, posto in cima ad una amena collina, facente parte del corollario dell’Asolano, per verificare e valutare di quanta legna da ardere avremmo potuto disporre in quel momento.

Accettai di buon grado,

sia per la fiducia che mio padre aveva riposto in me sia perché due giorni prima aveva nevicato, nonostante fosse iniziata la primavera da qualche giorno.
Calpestare per primo il sentiero immacolato mi dava un piacere immenso, essendo innamorato della natura, soprattutto se incontaminata.
Arrivato in cima ed avvolto da quel silenzio ovattato, mentre stavo contemplando il paesaggio circostante con all’orizzonte il monte Grappa ed il fiume Piave, intravidi il mio paesello innevato.
Caddi come in estasi per le troppe cose belle che mi ritrovai davanti agli occhi.
Fui riportato alla realtà in maniera traumatica.
Sentì sulla schiena un corpo contundente ed una voce, contemporaneamente, gridare:

“Mani in alto!”

Mi spaventai tantissimo, al punto che temetti per il mio cuore.
Voltandomi vidi il guardiacaccia sogghignare nel puntarmi contro il suo fucile.
Vedendomi pallido e tremante cambiò atteggiamento e si scusò, spiegandomi che pensava fossi un bracconiere, andato a piazzare le trappole per le volpi.
Nei mesi seguenti questo trauma mi segnò a lungo e lo volli superare alla mia maniera, facendo lo stesso percorso in una calda notte d’estate.
Mentre stavo percorrendo il sentiero per raggiungere il nostro bosco, mi sentivo orgoglioso di me stesso perché incurante del buio e degli animali notturni che andavo a disturbare.
Non mi agitavo neanche per gli strani rumori che popolavano il bosco finché, ad un certo punto, qualcosa mi urtò la schiena e, istintivamente, alzai le mani, memore della passata esperienza, ma non parlò nessuno.

Mi voltai lentamente,

nuovamente tutto tremante con il cuore alla gola e capii che era solo un ramo secco che si era impigliato nel mio giubbotto.
Imparai a mie spese la lezione che con il bosco non si fanno sfide.
Non bisogna andare da soli, soprattutto di notte, ne fare gli eroi fuori luogo, anche perché andai senza avvisare nessuno.
Il vero coraggio va dimostrato semmai in altri modi e luoghi.

A distanza di anni, con l’arrivo della primavera, ci ritroviamo a dover combattere contro un nemico invisibile, il coronavirus.
Ed i veri eroi ed i supereroi, pieni di coraggio, in questo particolare e delicato momento per l’Italia, sono medici ed infermieri, oltre a tutte le forze dell’ordine.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Tre parole

Tre parole

Un giovane e ambizioso cavaliere era noto per la vita dissoluta e sfrenata.
Un buon frate cercò di farlo riflettere sui rischi che avrebbe corso presentandosi con l’anima cosi carica di peccati all’ultimo giudizio del Signore.
“Non ho nessuna paura!” rispose sprezzante il cavaliere, “So che il Signore è buono e misericordioso.
Poco prima di morire pronuncerò tre parole che mi garantiranno la salvezza eterna.

Dirò:

“Gesù, pietà, perdonami.”
Il frate scosse la testa ed il cavaliere, ridendo, riprese la sua vita depravata.
Un giorno, durante un terribile temporale, cavalcava a spron battuto sulle rive di un fiume gonfio d’acqua.

Non voleva mancare ad una festa.

Un fulmine spaventò il cavallo che lo disarcionò e lo fece piombare nella violenta corrente del fiume.
Le ultime tre parole del cavaliere, prima di morire, furono:
“Crepa bestiaccia infame!”

Brano di Bruno Ferrero