Furti a scuola

Furti a scuola

Tanti anni fa, una maestra di vecchio stampo educativo, narrò ai propri allievi il noto racconto del furto del burro.
Questa storia parlava di un bottegaio e di un suo cliente.

Il bottegaio teneva sotto controllo questo cliente per i continui ammanchi e,

infatti, anche quel giorno, aveva sottratto un panetto di burro, nascondendolo sotto il cappello.
Il negoziante con la scusa del gelo che imperversava fuori, lo avvicinò alla stufa accesa e lo intrattenne in tutte le maniere.
Rimanendo a contatto ravvicinato con la fonte di calore, il burro si sciolse, colando sull’incauto ladro, che venne scoperto.

La maestra spiegò che anche nella sua classe avvenivano da tempo dei fastidiosi furti che lei deprecava.

Il più frequente era il disturbo chiassoso in aula, il quale rubava tempo prezioso alla didattica.
Anche l’abitudine di copiare da un compagno di banco era un grave furto, richiamato anche nel settimo comandamento.
Un altro furto fastidioso era quello inerente i gessi per la lavagna.
Gli alunni li “rubavano” a scuola e li usavano nei dintorni di casa, per disegnare a terra e per il gioco della campana.

Disse che sarebbe stato sufficiente chiedere a lei dato che, in qualche modo, li avrebbe procurati.

L’unico furto concesso e auspicato, secondo questa singolare maestra, era “rubare” con gli occhi quando venivano svolte le arti figurative.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Il denaro restituito

Il denaro restituito

Un anziano signore, prossimo al termine dello scorrere della clessidra che segna il tempo terreno, chiamò al proprio capezzale i suoi sette figli, per esprimere le sue ultime volontà e dare le giuste raccomandazioni.
Chiese di portare con sé, dentro la cassa, una cifra in denaro.

Spiegò che non era importante la cifra che avrebbero inserito.

Voleva che facessero questo gesto poiché da loro non aveva mai ricevuto nulla, nonostante avesse costruito ad ognuno una casa.
Spiegò che i soldi li avrebbe restituiti tutti, a cassa chiusa, ma solo a chi di loro si fosse dimostrato più generoso ma anche più furbo.
Recitò un proverbio nel quale veniva spiegato che un padre mantiene sette figli, ma che sette figli non riescono a mantenere un padre.
Passato a miglior vita, i figli fecero una riunione di famiglia su come esaudire le volontà del padre e il più giovane, l’unico che per l’insistenza del padre aveva studiato, propose:

“Date a me i sodi in contanti da mettere nella cassa.

Per semplificare il tutto, li tramuterò in un assegno, attestante la nostra unità.
Sarà anche più semplice evitare furti in questo modo, dato che, come sappiamo, ci possono essere dei malintenzionati tombaroli che potrebbero approfittare della nostra generosità!”

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

L’eremita e l’uomo perduto

L’eremita e l’uomo perduto

C’era una volta un uomo perduto.
Da anni viveva di razzie, rapine, massacri e furti.
Era ferocemente crudele, senza pietà, divorato da una rabbia folle.

Era un uomo perduto, un uomo maledetto.

Un giorno, mentre vagabondava in preda a pensieri di cenere e tormento, gli venne l’idea di far visita all’eremita che viveva in una baracca in cima alla pietraia.
Là non c’era nulla da rubare se non un pagliericcio di foglie secche, ma l’uomo perduto cercava una speranza, un perdono.
Il vecchio eremita lo ascoltò.
Infine gli sorrise e gli mostrò un albero morto dal tronco contorto e calcinato da un fulmine e gli disse:
“Vedi quell’albero morto?
Sarai perdonato quando rifiorirà!”
“Sarebbe come dire mai!” esclamò l’uomo, “Allora a che serve, sant’uomo?

Tanto vale che io torni alle mie rapine.”

Il malvivente ridiscese, imprecando, verso il piano, prendendo a calci le pietre.
Ricominciò la vita di saccheggi e violenze, perché era l’unica cosa che sapeva fare.
Per anni ancora seminò paura, odio e disperazione.
Una sera, mentre cercava un luogo isolato e nascosto per consumare la cena, vide una baracca malandata.
Si affacciò cautamente ad una finestrucola e vide una donna che aveva raccolto i suoi bambini intorno ad una pentolaccia.
La donna cantava una specie di ninna-nanna:
“Dormite, piccoli miei.
Dormite fino a domani.
Mamma vi fa la zuppa.
Dormite ancora un po’.
Dormite fino a domani.”

Il bandito entrò e sollevò il coperchio della pentola.

C’erano solo radici e foglie che bollivano nell’acqua.
L’uomo scosse le spalle poderose, afferrò la pentola e buttò tutto il contenuto dalla finestra.
Tagliò a pezzi la tenera carne dell’agnello che aveva rubato proprio quel giorno.
Ravvivò ben bene la fiamma sotto la pentola e se ne andò, piangendo su tanta miseria.
Quel giorno, l’albero morto fiorì.

Brano tratto dal libro “365 piccole storie per l’anima.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

I furti in fabbrica

I furti in fabbrica

Una fabbrica aveva un problema di furti.
Ogni giorno veniva rubata della merce.
I dirigenti affidarono quindi ad una società specializzata il compito di perquisire ogni dipendente che usciva alla fine del lavoro.
La maggior parte degli operai apriva spontaneamente la borsa e faceva esaminare i contenitori della colazione.

I detective erano molto diligenti e controllavano tutti i dipendenti, fino all’ultimo:

un omino che tutti i giorni chiudeva la fila degli operai con un carrello pieno di rifiuti.
Una guardia doveva passare una buona mezz’ora, quando ormai tutti gli altri se ne stavano tornando a casa, a rovistare tra gli involucri di alimenti, mozziconi di sigarette e bicchieri di plastica per controllare se veniva portato fuori qualcosa di valore.

Non trovava mai niente.

Una sera, il guardiano, esasperato, disse all’uomo:
“Senti, lo so che stai combinando qualcosa, ogni giorno controllo ogni tuo piccolo pezzetto di rifiuto nel carrello e non trovo mai niente che valga la pena di essere rubato.
Sto diventando matto.
Dimmi quello che stai facendo e ti prometto che non farò nessun rapporto.”

L’uomo alzò le spalle e disse:

“È semplice, rubo carrelli!”

Brano di Bruno Ferrero

Giulia e l’uva

Giulia e l’uva

Una giovane ragazza, di nome Giulia, nel pieno della gioventù, faceva la domestica tuttofare in una dimora di ricchi proprietari terrieri.
Vigeva in quel tempo l’istituto della mezzadria ed i contadini portavano ai padroni i frutti più belli:

le cosiddette regalie.

Nella stanza dove dormiva Giulia avevano, perfino, appeso alle travi del soffitto i più bei grappoli d’uva, delle varietà migliori, per conservarli, dono dei contadini contraenti.
I suoi padroni le avevano raccomandato, pena il licenziamento, di non mangiare per nessun motivo nemmeno un chicco d’uva.
Vuoi per la fame, vuoi per l’essere golosa, Giulia qualche chicco d’uva qua e là lo aveva mangiato, e si augurava che i proprietari non notassero questi piccoli furti.
Ma non fu così, ed i padroni, noti per essere taccagni e avari, la sgridarono pesantemente.

Giulia si difese dicendo:

“Sono stati i topi!
E voi mi fate addirittura dormire con loro!”
I padroni schifati risposero:
“Se è davvero così, puoi mangiarti tutta l’uva che vuoi perché a noi non interessa più!”

Giulia era mia nonna.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno