Furti a scuola

Furti a scuola

Tanti anni fa, una maestra di vecchio stampo educativo, narrò ai propri allievi il noto racconto del furto del burro.
Questa storia parlava di un bottegaio e di un suo cliente.

Il bottegaio teneva sotto controllo questo cliente per i continui ammanchi e,

infatti, anche quel giorno, aveva sottratto un panetto di burro, nascondendolo sotto il cappello.
Il negoziante con la scusa del gelo che imperversava fuori, lo avvicinò alla stufa accesa e lo intrattenne in tutte le maniere.
Rimanendo a contatto ravvicinato con la fonte di calore, il burro si sciolse, colando sull’incauto ladro, che venne scoperto.

La maestra spiegò che anche nella sua classe avvenivano da tempo dei fastidiosi furti che lei deprecava.

Il più frequente era il disturbo chiassoso in aula, il quale rubava tempo prezioso alla didattica.
Anche l’abitudine di copiare da un compagno di banco era un grave furto, richiamato anche nel settimo comandamento.
Un altro furto fastidioso era quello inerente i gessi per la lavagna.
Gli alunni li “rubavano” a scuola e li usavano nei dintorni di casa, per disegnare a terra e per il gioco della campana.

Disse che sarebbe stato sufficiente chiedere a lei dato che, in qualche modo, li avrebbe procurati.

L’unico furto concesso e auspicato, secondo questa singolare maestra, era “rubare” con gli occhi quando venivano svolte le arti figurative.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

L’uomo e l’agnellino

L’uomo e l’agnellino

In una notte buia e profonda un uomo stava per morire.
Era la Vigilia di Natale.
L’uomo era diretto a casa.
Per tutto l’anno aveva lavorato nei boschi, sulle montagne, lontano dal suo paese.
Aveva lavorato disperatamente, senza sosta, ma anche così era riuscito a mettere da parte ben poco denaro.
Aveva deciso ugualmente di tornare a casa.
Ma proprio mentre usciva dalla foresta, era scoppiato uno spaventoso temporale.
La casa dell’uomo era ancora lontana chilometri e chilometri.
L’uomo era sotto una quercia quando un fulmine squarciò la pianta.
Dei rami gli caddero addosso.

Fuggì via.

Perdeva sangue da un braccio e da una gamba.
Fuggiva sotto la grandine, coprendosi appena la testa con le mani.
Via, via, lontano dalla foresta da cui era sbucato il fulmine.
Dopo molto correre, stramazzò ai piedi di un gradone di roccia.
La parete si propendeva minacciosa, verticale.
Steso al suolo, fradicio di pioggia, battuto dalla grandine e dal freddo, perse ogni speranza.
Il gelo che lo attanagliava lo persuase a lasciarsi morire.
Si abbandonò quasi con sollievo alla morte.
Lo prese il sonno:
il conforto, pensò, dell’ultimo istante.
Ma improvviso, cristallino, risuonò un belato.
Il belato risvegliò l’uomo da quel sonno di morte.
Era un grido nella notte.
Pareva ora prossimo, ora lontano.
Un agnellino preso dalla furia della bufera?
L’uomo si scosse.
Lui voleva morire, ma l’agnellino?

Di nuovo l’agnellino belò.

All’uomo morente mancavano le forze e la voglia di vivere.
Però l’agnellino aveva bisogno di lui.
L’uomo sentì quel belato come un’invocazione.
E ritrovò la forza di vincere la stanchezza e la paura.
Avrebbe salvato la bestiola e sarebbe tornato a morire:
questo pensiero gli dette vigore.
Si mise in ascolto.
L’agnello riprese a belare.
L’uomo fu diretto dal belato.
Ogni tanto si fermava.
La grandine gli feriva il volto, coprendo la vocina flebile.
La riudì.
Vicino.
Dietro a dei cespugli.
Girò in mezzo a degli sterpi.
L’agnello non c’era.
Però l’udì, come uscisse dal gradone di roccia.
Tra la grandine vide un buco nella roccia.
Il belato proveniva di là.
Barcollò e si gettò dentro la grotta dove l’agnellino giaceva ferito in una pozza d’acqua.

Lo sollevò.

Lo portò più dentro al cunicolo, all’asciutto.
Lo tenne stretto al petto per riscaldarlo e sentì che l’agnello scaldava lui, gli ridava vita.
Stettero la notte avvinti dal caldo, in compagnia.
Il mattino, un sole morbido entrò nella grotta e svegliò l’uomo e l’agnello.
L’uomo accarezzò l’agnello.
Sentì la piccola vita vibrare di fame.
Anche lui aveva fame.
E soprattutto una infinita voglia di vivere.

Brano di Bruno Ferrero

La sveglia che scotta

La sveglia che scotta

Alcuni anni fa, anche secondo l’opinione di diversi esperti, faceva molto più freddo, quindi gli inverni risultavano più rigidi.
La gente si difendeva dal rigore del gelo come meglio poteva, vestendosi in modo pesante e indossando capi di lana.
Ovviamente in quegli anni non esistevano i vestiti ed i materiali brevettati di oggi.

Come tutti sappiamo, non tutti del freddo hanno la stessa percezione.

Giulia, una signora di mezza età, lo temeva assai e, come soluzione personale, all’interno della borsa portava una bottiglia di acqua calda per scaldarsi le mani ogni tanto.
Un giorno decise di sfidare i rigori dell’inverno per andare dall’orologiaio a far aggiustare la sveglia, che da tempo non dava segni di vita.

L’orologiaio presa in mano la sveglia,

che nel frattempo era rimasta nella borsa a contatto con la bottiglia di acqua calda, esclamò:
“Ma, signora Giulia, la sua sveglia scotta!”
Giulia, imbarazzata, non volendo svelare il suo stratagemma per difendersi dal gelo, replicò:

“È normale che scotti!

È da stanotte che suona di continuo e quindi si è surriscaldata!”
Giulia era mia nonna.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

La candela che non voleva bruciare

La candela che non voleva bruciare

Questo non si era mai visto:
una candela che rifiuta di accendersi.
Tutte le candele dell’armadio inorridirono.
Una candela che non voleva accendersi era una cosa inaudita!
Mancavano pochi giorni a Natale e tutte le candele erano eccitate all’idea di essere protagoniste della festa, con la luce, il profumo, la bellezza che irradiavano e comunicavano a tutti.
Eccetto quella giovane candela rossa e dorata che ripeteva ostinatamente:

“No e poi no!

Io non voglio bruciare.
Quando veniamo accese, in un attimo ci consumiamo.
Io voglio rimanere così come sono:
elegante, bella e soprattutto intera!”
“Se non bruci è come se fossi già morta senza essere vissuta!” replicò un grosso cero, che aveva già visto due Natali, “Tu sei fatta di cera e stoppino ma questo è niente.
Quando bruci sei veramente tu e sei completamente felice.”

“No, grazie tante,”

rispose la candela rossa, “ammetto che il buio, il freddo e la solitudine sono orribili, ma è sempre meglio che soffrire per una fiamma che brucia.”
“La vita non è fatta di parole e non si può capire con le parole, bisogna passarci dentro,” continuò il cero, “solo chi impegna il proprio essere cambia il mondo e allo stesso tempo cambia se stesso.
Se lasci che la solitudine, il buio e il freddo avanzino, avvolgeranno il mondo!”
“Vuoi dire che noi serviamo a combattere il freddo, le tenebre e la solitudine?” chiese la candela.
“Certo,” ribadì il cero, “ci consumiamo e perdiamo eleganza e colori, ma diventiamo utili e stimati.
Siamo i cavalieri della luce.”
“Ma ci consumiamo e perdiamo forma e colore?”

domandò ancora la candela.

“Sì, ma siamo più forti della notte e del gelo del mondo!” concluse il cero.
Così anche la candela rossa e dorata si lasciò accendere.
Brillò nella notte con tutto il suo cuore e trasformò in luce la sua bellezza, come se dovesse sconfiggere da sola tutto il freddo e il buio del mondo.
La cera e lo stoppino si consumarono piano piano, ma la luce della candela continuò a splendere a lungo negli occhi e nel cuore degli uomini per i quali era bruciata.

Brano di Bruno Ferrero

Il vecchio pittore


Il vecchio pittore

Aveva lunghi capelli e occhi come le stelle.
Un giorno fu colpita da una malattia misteriosa che lentamente fece spegnere le stelle nei suoi occhi e la trascinò in un sonno simile alla morte.
Nei rari momenti di lucidità invocava la primavera e chiedeva di vedere i fiori del giardino.

Ma era inverno e il giardino era ingiallito e le piante secche.

I suoi genitori chiesero aiuto ai medici, ma nessuno seppe capire quella strana malattia.
Fu sentita anche la maga del villaggio: disse che la fanciulla sarebbe guarita solo se avesse visto i fiori della primavera.
La disperazione scese allora in quella casa perché tutti presentivano che la fanciulla non sarebbe vissuta sino alla nuova stagione.

Venne a conoscenza della storia un vecchio pittore;

era povero, dormiva in una barca e di notte si recò nel piccolo giardino che stava davanti alla finestra della fanciulla.
Faceva molto freddo, ma non se ne curava e per tutta la notte, con le mani intirizzite, dipinse fiori bellissimi sul muro di cinta: per incanto nel giardino era fiorita la primavera.

Al mattino, quando la fanciulla,

in uno dei suoi rari momenti di lucidità, aprì gli occhi e vide i fiori, il suo viso si illuminò di gioia.
Da quel giorno incominciò a star meglio e guarì, mentre del vecchio pittore non si seppe più nulla.
Lo cercarono tra le onde e sulla riva del mare, ma lui dormiva per sempre nella sua barca dove era morto di gelo.

Brano di Romano Battaglia