Il gigante buono

Il gigante buono

Il paese dove i bambini rimanevano bambini era diviso a metà da un fiume.
Là c’era un gigante buono che si caricava i piccoli sulle spalle per portarli da una parte all’altra.
Ma i bambini erano tanti e il gigante uno solo.

Un giorno, un merlo disse al gigante buono:

“Perché, invece di fare tanti viaggi, non aspetti che ci siano almeno tre bambini su una sponda?
Tu ti riposeresti un po’ e loro potrebbero conoscersi meglio.”
Ma il gigante pensò che sarebbe stato egoistico da parte sua.
Dopo qualche mese, lo stesso merlo gli disse:
“Tu conosci il fiume molto bene.
Perché non gli chiedi di darti una mano abbassando le sue acque, solo per qualche settimana?”
Ma il gigante pensò che sarebbe stata una mancanza di tatto.
Dopo un anno, il merlo si fece vivo di nuovo:
“Guarda quanti alberi ci sono!

Per te sarebbe un gioco da ragazzi farci una zattera.

Potresti insegnare ai bambini…”
Il gigante, sorridendo, lo interruppe:
“Grazie, grazie davvero.
Ma non ti devi preoccupare per me!
E poi dove lo trovo il tempo?
Con tutti i piccoli che devo traghettare…”
Il merlo non tornò più.
Ma una sera, il gigante buono, stremato da tutte le sue traversate, cadde disteso sul letto del fiume.
Grosso come era, non riusciva più ad alzarsi.

Allora i bambini si dissero:

“Non possiamo lasciarlo lì!”
Piano piano, dandosi la mano, entrarono nel fiume.
Con loro grande stupore (e con grande stupore dello stesso gigante) si accorsero che l’acqua non arrivava loro più in su della vita.
“Uno, due, tre… issa!” gridarono tutti insieme.
Con gentilezza, sollevarono il gigante buono e lo portarono sull’altra sponda.

Brano senza Autore.

La divisione dei fagioli

La divisione dei fagioli

Correva l’anno bisestile 1948.
Uno dei primi anni in cui l’Italia stava cercando di riprendersi dalla seconda guerra mondiale, con una difficile ricostruzione da cui ripartire, mentre il mondo stava per dividersi in due blocchi geopolitici, quello comunista e quello occidentale, che daranno inizio, nei successivi anni, alla guerra fredda ed alla costruzione del muro di Berlino.
La società veneta era in grande fermento, soprattutto quella contadina, aggravata dall’atavico assetto dell’istituzione patriarcale, che costringeva a vivere e lavorare, sotto lo stesso tetto, fratelli con prole allora numerosa.
A gestire, con le rigide regole di quell’epoca, era di norma il vecchio capofamiglia che, quando veniva a mancare,

rendeva la divisione per i figli quasi obbligatoria.

Erano le donne a proporre maggiormente i propri uomini per la gestione del nucleo famigliare e per la divisione dei beni, sperando di ottenere più autonomia e libertà.
La parola più gettonata era democrazia.
Non sempre la divisione avveniva in un clima sereno.
Risultava sempre difficile ottenere la parte migliore dal poco che si aveva e, nel tirare la coperta troppo corta, qualcuno rimaneva sempre scoperto.
In questo contesto, a Levada, due fratelli decisero di procedere alla spartizione dell’eredità, assoldando un mediatore per dividere casa, terra e bestiame.
Per le cose restanti decisero di fare da soli, per cercare di risparmiare.

Sorsero, però, subito dei problemi.

L’incidente più eclatante avvenne nel granaio dove, dopo essersi strattonati per la divisione di un sacco di mais e uno di preziosi e nutrienti fagioli, fecero cadere per le scale i due sacchi, che si ruppero.
I cereali si mischiarono con i legumi provocando un vero e proprio disastro, anche se l’aspetto cromatico dei vari colori era veramente bello da vedere.
Tutta la famiglia, bambini compresi, fu costretta a separare i due prodotti con una pazienza certosina, ma nel contempo aiutò tutti a riflettere ed a riportare calma e armonia.
La divisione dei beni proseguì.
Grazie a questo episodio nacque una grande e duratura solidarietà, che si perpetuò nel tempo.
Anche oggi, i discendenti diretti beneficiano di quel particolare episodio.
Inoltre ne trae giovamento anche il paese, che li fa operare in armonia per la riuscita della festa patronale.

Emilio Durighello,

testimone bambino di allora, si commuove nell’evocare l’episodio e conserva gelosamente, ancora oggi, una piccola manciata di quei fagioli, riservati per il gioco collettivo della tombola.
Per il proprietario, il tempo trascorso li ha impreziositi di valore, dato che, quei fagioli fanno riaffiorare nella sua mente un vivo ricordo della singolare vicissitudine famigliare.
I fagioli possiedono, come caratteristica magica, la forza di unire e mai quella di dividere, come avviene nel campo, nel baccello, in pentola ed in famiglia.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Leggendo un libro

Leggendo un libro

Il calcio è stato definito il gioco più bello del mondo ed annovera milioni di appassionati e di tifosi.
Inoltre, in questo sport, vengono investiti milioni di euro.
Anni fa toccai questo entusiasmo con mano mentre lavoravo in una fabbrica di scarponi da sci che sponsorizzava

una squadra del nostro massimo campionato.

Un giorno trovammo nella bacheca la data in cui questa squadra avrebbe fatto visita alla nostra fabbrica per l’annuale fornitura di scarponi.
Tutti andarono in fibrillazione, soprattutto le donne, che si fecero belle con trucco e parrucco.
Arrivato il fatidico giorno, i colleghi si munirono di bandiere, sciarpe, magliette, oltre che di carta e penna per l’ambito autografo.

I reparti sembravano la curva di uno stadio.

Io, contrariamente agli altri, non fui molto coinvolto da questo incontro dato che ero immerso nella lettura di un libro sui miti greci.
Andai perfino a mangiare da solo alla mensa aziendale quando fu il momento della pausa pranzo, mentre in tutta l’azienda si respirava un clima surreale.
I giocatori arrivarono in fabbrica, salutarono gli operai dalla vetrata ma non fecero il giro dei reparti.
Insieme con i dirigenti della fabbrica raggiunsero la mensa per un brindisi e, vedendomi da solo, mi invitarono ad aggregarmi a loro.
Mi improvvisai super tifoso chiedendo come stesse il loro capitano infortunato.

Visto il mio interesse, mi regalarono due biglietti per il derby di Milano.

Tornato al lavoro, tra i musi duri dei colleghi delusi, sbandierai i biglietti, tra l’invidia generale e lo stupore.
Tutti mi chiesero come avessi potuto averli così facilmente ed io risposi:
“Leggendo un libro.”

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

L’acqua della cascata (Il vino in regalo)

L’acqua della cascata
(Il vino in regalo)

Una coppia di giapponesi si sposò in tarda età e, con grande gioia e sorpresa, ebbe un figlio.
Lo allevarono con tutto l’amore e la cura possibile e, pur essendo molto poveri, lo mandarono alla scuola di un saggio perché crescesse anche nello spirito.

Il ragazzo, tornato a casa, aveva un unico desiderio:

sdebitarsi in qualche modo con i suoi genitori.
“Che potrei mai fare,” chiese loro, “di realmente gradito per voi?”
“Niente ci è più caro della tua stessa presenza!” risposero i vecchi, “Se però vuoi proprio farci un regalo, procuraci un po’ di vino.
Ne siamo golosi, e son tanti anni che non ne beviamo un goccio!”
Il ragazzo non aveva un soldo.
Un giorno, mentre andava nel bosco a far legna, attinse con le mani l’acqua che precipitava da un’enorme cascata e ne bevve:

gli parve avesse il sapore del vino più dolce e schietto.

Ne riempì un orcio che aveva con sé e tornò in fretta a casa.
“Ecco il mio regalo!” disse ai genitori, “Un orcio di vino per voi.”
I genitori assaggiarono l’acqua e, pur non sentendo altro gusto che quello dell’acqua, gli sorrisero e lo ringraziarono molto.
“La prossima settimana ve ne porterò un altro orcio!” disse il figlio.
E così fece per molte settimane di seguito.
I genitori stettero al gioco:
bevevano l’acqua con grande entusiasmo ed erano felici di vedere il sorriso fiorire sul volto del figlio.

Avvenne così un fatto:

i loro acciacchi scomparvero e le loro rughe si appianarono, quasi quell’acqua avesse qualcosa di miracoloso.
E in realtà era così:
che cosa rende più giovani i genitori se non il gioire del dono di un figlio, qualunque esso sia?

Leggenda Giapponese.
Brano senza Autore.

Gli occhi di mio padre

Gli occhi di mio padre

Era un ragazzino che amava tantissimo il calcio e aveva un padre molto affettuoso che condivideva la sua passione.
Era piccolo e mingherlino e il più delle volte doveva fare la riserva.
Anche se il figlio era sempre in panchina, il padre era sempre tra gli spettatori a fare il tifo e non mancava mai a una partita.
Il ragazzo era ancora il più piccolo della classe anche al liceo, ma suo padre continuava a incoraggiarlo.
Il ragazzo riuscì a entrare nella squadra giovanile della città.
Non perdeva mai un allenamento e si impegnava con tutte le sue forze, ma l’allenatore continuava a confinarlo in panchina durante le partite.
Suo padre era sempre in tribuna e tutte le volte trovava le parole giuste per incoraggiarlo.
Il ragazzo era quasi sicuro di non essere ammesso nella squadra maggiore e invece l’allenatore, colpito dall’impegno che spendeva negli allenamenti, lo volle con sé.

Pieno di entusiasmo chiamò subito suo padre al telefono.

Suo padre condivise il suo entusiasmo e si abbonò a tutte le partite.
Il ragazzo si impegnava e si allenava.
Ma durante le partite restava in panchina.
Arrivò l’ultima settimana del campionato.
Con una vittoria, la squadra poteva essere promossa nella serie superiore.
All’inizio della settimana, il giovane si avvicinò all’allenatore.
Aveva gli occhi rossi ed era molto pallido.
“Mio padre è morto questa mattina.
Posso saltare l’allenamento oggi?” borbottò.

L’allenatore gli mise gentilmente un braccio sulla spalla e disse:

“Prenditi anche il resto della settimana, figliolo!”
Arrivò la domenica e lo stadio era affollato come non mai.
Era la partita più importante dell’anno e tutta la città sentiva l’avvenimento in modo particolare.
La squadra scese in campo per il riscaldamento un po’ prima dell’orario d’inizio della partita.
Con autentico stupore, videro il ragazzo con la tuta sulla divisa di gioco che correva con loro.
La partita ebbe inizio.
Si capì subito che gli avversari erano meglio organizzati e costrinsero la squadra a barricarsi in difesa.
All’inizio del secondo tempo, il ragazzo si avvicinò all’allenatore e disse:
“Mister, fatemi giocare, per favore!”
I suoi occhi erano pieni di fiduciosa aspettativa.

Dolente per il ragazzo, l’allenatore acconsentì:

“Va bene.” Disse, “Vai dentro.”
Dopo pochi minuti, l’allenatore, i giocatori e gli spettatori non potevano credere ai loro occhi.
Quel piccolo, sconosciuto ragazzino che non aveva mai giocato prima, aveva preso in mano il centrocampo e fatto salire la squadra.
Gli avversari non riuscivano a fermarlo.
I compagni di squadra cominciarono a passargli il pallone sempre più spesso.
A pochi minuti dal fischio finale, con un tiro forte e angolato, segnò il goal della vittoria.
I compagni lo portarono in trionfo, gli spettatori, in piedi, lo applaudirono a lungo.
Quando tutti ebbero lasciato gli spogliatoi, l’allenatore si accorse che il ragazzo era seduto in silenzio in un angolo, tutto solo.
“Ragazzo, sei stato fantastico!
Come hai fatto?”
Il giovane guardò l’allenatore, con le lacrime agli occhi, e disse:
“Le ho detto che mio padre è morto, ma lei sapeva che mio padre era cieco?”
Il giovane deglutì e si sforzò di sorridere:
“Papà è venuto a tutte le mie partite, ma oggi era la prima volta che poteva vedermi giocare, e volevo dimostrargli che potevo farlo!”

Brano tratto dal libro “L’iceberg e la duna.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

La cucitura ed il nodo

La cucitura ed il nodo

Un giovane dava molte preoccupazioni ai propri genitori perché oltre a non trovare lavoro, aveva le mani e le tasche bucate.
Spendeva senza freno i loro sudati risparmi e a nulla valevano le suppliche, le raccomandazioni e le minacce:

lui continuava la sua vita da perditempo con dispendiosi vizi come il gioco.

Come accade a tanti giovani, anche a lui capitò di avere una opportunità di recarsi a lavorare all’estero, per mettere a pieno i frutti dei suoi studi specialistici, dove aveva, invece, brillato.
La madre collaborò attivamente nel preparargli le valigie, rinnovandogli il vestiario, non senza versare qualche lacrima.
Il giovane contattò i genitori solo qualche mese dopo,

dicendo loro di trovarsi molto bene nel paese ospitante.

Spiegò di non averli contattati immediatamente dato che era adirato con sua madre che gli aveva cucito le tasche destre dei vestiti e messo nelle altre un filo rosso con nodo e non capiva il motivo.
Questa si affrettò a spiegare che la cucitura aveva lo scopo di ricordargli la moderazione nello spendere, che tanto la aveva fatta soffrire, e il filo rosso annodato affinché si ricordasse che in caso di bisogno la famiglia è sempre presente.

La spiegazione ebbe un grande effetto sul giovane ricercatore che,

da quel momento, inviò a casa, in maniera regolare, lo stipendio che riusciva ad accantonare, per paura di ricadere nel vizio del gioco.
Con il lavoro aveva ritrovato il valore da dare ai soldi oltre alla fiducia in se stesso, grazie anche alla trovata provocatoria della madre, con la cucitura delle tasche destre e del filo rosso annodato.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Partita a scacchi con il preside

Partita a scacchi con il preside

Nell’ora di ricreazione, un ragazzino negro se ne stava appartato in un angolo del giardino della sua scuola, mentre i compagni, poco più in là, giocavano allegramente col pallone.
Passò il direttore e lo scorse.
“Perché te ne stai qui solitario?” gli chiese.
“I miei compagni non vogliono che io giochi con loro, signore!” rispose il bimbo intimidito.

“Perché?” domandò l’uomo irritato.

“Dicono che sono un lurido negro e che debbo stare alla larga da loro!” balbettò il ragazzo.
Il direttore restò un attimo perplesso, poi gl’intimò di seguirlo.
Si avviarono verso gli uffici della direzione.
Al negretto, il cuore batteva forte in gola.

“Ho osato troppo?” si chiese.

Entrato nel suo ufficio, il preside si sedette alla scrivania, poi fece accomodare il ragazzino di fronte a lui e, presa una grande scacchiera dal cassetto, disse:
“D’ora in poi, all’intervallo, giocheremo tu ed io insieme.”
Gli insegnò le complesse regole del gioco e subito il fanciullo divenne padrone di ogni mossa.
Muoveva pedoni e alfieri con straordinario acume e sbalorditiva prontezza.
L’indomani, al loro secondo incontro, per rispetto al suo illustre avversario, il ragazzino lasciò che fosse il suo superiore a scegliere gli scacchi del colore che preferiva.
“Bianchi o neri?” gli chiese con deferenza.
“Fa lo stesso!” fu la cordiale risposta del direttore che aggiunse:

“Non hanno entrambi le medesime opportunità?

Non si può forse vincere o perdere in uguale misura, sia con gli uni che con gli altri?
Cosa importa il colore?
Quel che conta è giocare, ma giocare bene, rispettando le regole, sia da una parte che dall’altra.”
Finita la partita, il negretto corse giù in giardino.
Intrepido si aprì un varco nella cerchia dei compagni e, a testa alta, s’impose al gruppo affinché accettassero anche lui nei loro giochi.

Brano di Silvia Guglielminetti incluso nel libro “Il secondo libro degli esempi. Fiabe, parabole, episodi per migliorare la propria vita.” Piero Gribaudi Editore.

La partita a scacchi

La partita a scacchi

Disse il giovane all’abate del monastero:
“Vorrei tanto essere un monaco, ma non ho imparato niente di importante nella vita.
Tutto ciò che mio padre mi ha insegnato è giocare a scacchi, cosa che non serve per l’illuminazione!”

“Chi sa che questo monastero non abbia bisogno di svago!”

fu la risposta dell’abate.
L’abate, allora, chiese una scacchiera, convocò un monaco e gli disse di giocare con il ragazzo.
Ma, prima che la partita cominciasse, aggiunse:
“Anche se abbiamo bisogno di svago, non possiamo permettere che stiano tutti a giocare a scacchi.
Dunque, terremo qui solo il migliore dei giocatori.
Se il nostro monaco perderà, andrà via dal monastero e lascerà un posto libero per te.”

L’abate parlava seriamente.

Il ragazzo sentì che era in gioco la sua vita e cominciò a sudare freddo.
La scacchiera divenne il centro del mondo.
Il monaco iniziò a perdere.
Il ragazzo lo incalzò, ma poi notò lo sguardo di santità dell’altro:
da quel momento cominciò a fare di proposito le mosse sbagliate.
In fin dei conti, preferiva perdere, perché il monaco poteva essere più utile al mondo.

All’improvviso, l’abate rovesciò per terra la scacchiera.

“Hai imparato molto di più di ciò che ti hanno insegnato,” disse, “Ti sei concentrato abbastanza per vincere, sei stato capace di lottare per ciò che desideravi.
Poi, hai avuto compassione, ed eri disposto a sacrificarti in nome di una causa nobile.
Che tu sia il benvenuto nel monastero, perché sai equilibrare la disciplina con la misericordia!”

Brano di Paulo Coelho

Bocciato per un gatto

Bocciato per un gatto

Mi racconto.
Gli insuccessi scolastici, si sa, hanno varie cause.
Da bambino prediligevo il gioco e la spensieratezza.
Studiavo poco e mi applicavo ancora meno.

In quarta elementare,

però, subì la mia prima bocciatura scolastica a causa di un gatto e non perché studiassi poco.
In quel periodo, alla fine di ogni anno scolastico, tutte le classi erano accompagnate, dai rispettivi maestri, in una passeggiata a piedi, che oggi verrebbe chiamata giornata ecologica, per studiare la flora e la fauna di un’amena distesa di prati, attraversati dal torrente Nason, ai piedi di un bosco collinare chiamato Boshet.
La nostra maestra, oltre a spiegare cosa fossero, dava il nome alle varie specie di alberi, fiori, insetti e uccelli che incontravamo durante il tragitto.
Noi scoprivamo entusiasti piccoli animali, come roditori ed anfibi, nel loro habitat naturale.
Al ritorno della passeggiata dovevamo fare un componimento su quanto appreso e la sua stesura consisteva in un test che influiva sulla valutazione della pagella.

Ricordo che, contrariamente a quanto accadeva a scuola,

in quest’avventura ero molto attento e concentrato.
Durante la ricerca di animali da segnalare alla maestra, trovai un gattino abbandonato, abbastanza grande, in una siepe.
Ero troppo contento, e lo fui ancor di più quando riuscì ad avvicinarmi.
Offrendogli la mia merenda riuscì a prenderlo e decisi di portarlo a casa.
Durante il tragitto di ritorno, lo avvolsi nel maglione per nasconderlo alla maestra poiché questa odiava i gatti per il loro miagolio.
Raggiungemmo la scuola e rientrammo in classe per copiare dalla lavagna i compiti per casa.
Non sapendo come e cosa fare con il gatto, pensai di chiuderlo momentaneamente nel bagno delle maestre con l’intenzione di riprenderlo all’uscita.
La maestra andò un attimo in bagno per rinfrescarsi e fu spaventata a morte dal gatto.
Tornata in classe, tutta trafelata e con una crisi isterica, chiese chi avesse messo il gatto nel suo bagno e la risposta corale fu: “Dino!”

La maestra sentenziò:

“Dino, io ti boccio!
Sei esentato da fare il compito!”
Uscito da scuola ripresi il mio gatto.
Fortunatamente il gatto rimase al mio fianco per diversi anni, e nonostante venni bocciato, tornando indietro, rifarei tutto quello che ho fatto per lui.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Costruire fortezze (L’amicizia)

Costruire fortezze
(L’amicizia)

C’era una volta un sovrano potente.
Sapeva che il numero dei giorni che gli restavano da vivere diminuiva inesorabilmente.
Che cosa sarebbe diventato il suo bell’impero, quando sarebbe stato costretto ad abbandonarlo con tutti i nemici che lo circondavano da ogni lato?
Che avrebbe potuto fare il giovane principe, quel figlio troppo giovane e inesperto che il sovrano aveva avuto, ahimè, in tarda età?
Dove poteva rifugiarsi?

Chi lo avrebbe protetto?

Questo pensieri tormentavano il vecchio re, tanto che un giorno disse al principe:
“Figlio mio, io non regnerò più per molto tempo e ignoro ciò che accadrà dopo la mia morte.
Ci sono molti nemici intorno al trono.
Ho tanta paura per l’impero che ho costruito e anche per te.
Morirei tranquillo se sapessi che hai un rifugio sicuro che ti protegga in caso di pericolo.
Per questo ti consiglio di andare per il regno e di costruire fortezze in tutti gli angoli possibili, per tutti i confini del paese!”

Obbediente, il giovane si mise immediatamente in cammino.

Percorse tutto il paese, per monti e valli, e dove trovava il posto conveniente, faceva costruire grandi fortezze solide e imponenti.
Le fortezze sorsero nelle profondità delle foreste, nelle valli più nascoste, sulla sommità delle colline, nei deserti, in riva ai fiumi e sui fianchi delle montagne.
Questo costò molto denaro, ma il principe non badava a spese:
erano in gioco la sua vita e il suo trono.
Dopo un certo tempo, il giovane ritornò nel palazzo del re suo padre.
Stanco, dimagrito, ma soddisfatto d’aver portato a termine il compito, corse a presentarsi dal padre.

“Ebbene, figlio mio, com’è andata?

Hai fatto ciò che io ti avevo detto?” gli domandò il re.
“Sì, padre.” rispose il principe, “In tutto il paese si innalzano fortezze imprendibili:
nei deserti, sulle montagne, nel profondo delle foreste!”
Ma il vecchio re, il più potente che la storia abbia mai conosciuto, invece di congratularsi con il figlio per tutti i suoi sforzi, scuoteva la testa come in preda ad un forte dispiacere.
“Non è questo, figlio mio, che avevo in mente io, devi tornare indietro e ricominciare!” esclamò il re che poi aggiunse:
“Le fortezze che tu hai costruito non ti proteggeranno assolutamente in caso di pericolo:
tu sarai solo e non per quei muri e quelle pietre potrai sfuggire alle imboscate e alle trappole dei tuoi nemici.

Tu devi costruirti dei rifugi nel cuore delle persone oneste e buone.

Devi cercare queste persone e guadagnarti la loro amicizia; soltanto allora saprai dove rifugiarti nei momenti difficili.
Là dove un uomo ha un amico sincero, là trova un tetto sotto cui ripararsi.”
Il principe si rimise in cammino.
Non più per i deserti, i dirupi, le foreste selvagge, ma per andare verso la gente, tra loro, per costruire dei rifugi come immaginava suo padre, il vecchio re pieno di saggezza.
E questo richiese molti più sforzi e fatiche, ma il principe non li rimpianse mai, perché, quando dopo un certo tempo il vecchio sovrano si spense e lasciò questo mondo, il principe non aveva più nessun nemico da temere.

Brano tratto dal libro “A volte basta un raggio di sole.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.