La penitenza del chierichetto (Il sacchetto di fagioli)

La penitenza del chierichetto
(Il sacchetto di fagioli)

Anch’io sono stato chierichetto ed anche molto serio.
Mia mamma era rimasta molto colpita ed era orgogliosa dell’invito che mi aveva fatto il Parroco dell’epoca, Don Mario, per fare il chierichetto e ciò perché noi eravamo una famiglia di immigrati e, l’immigrato in genere, non è da subito ben inserito nella vita del paese.
Un tempo era così, ora la mentalità è più aperta, ma al tempo dovevi avere pazienza.
Allora mia mamma mi manda subito da un’amica sarta, che mi prenda le misure e mi confeziona la vestina del chierichetto.
Nella mia Parrocchia allora i chierichetti indossavano una tunica nera con sopra una cotta bianca
corta.
La sarta era brava e mi confezionò la più bella vestina di tutti gli altri ragazzi, che facevano i chierichetti.
Io ero uno dei più piccoli e dovevo ancora imparare molte cose allora il Parroco mi affidò ad uno più vecchio che mi doveva insegnare i compiti del chierichetto nelle varie cerimonie.

Scoprii allora che i chierichetti non sono tutti uguali:

c’era il turiferario in genere più anziano (si fa per dire) degli altri, che portava il turibolo per porgerlo al celebrante nel momento opportuno per incensare.
Il turiferario è assistito da quello che porta l’incenso dentro la navicella, poi ci sono quelli che portano le torce accese, quelli che seguono la messa, il cerimoniere che dà gli ordini, quelli che accendono e spengono le candele, quelli che rispondono alla Messa.
Insomma molti compiti e per ogni compito serviva una specifica istruzione perché il Parroco era severissimo, non bisognava assolutamente parlare tra noi, né litigare, ecc.
Il Parroco ci chiamava a fare l’istruzione dei chierichetti una volta la settimana e durante le vacanze anche due volte alla settimana.
Lui teneva la conferenza, ci raccomandava il silenzio, la meditazione, le buone letture e poi ci lasciava alle istruzioni pratiche affidate al capo chierichetto più anziano.
Io venni destinato a “rispondere alla messa” ossia alla liturgia della messa domenicale o feriale, ero troppo piccolo, infatti per il turibolo, che era più alto di me ed anche per le candele alle quali non arrivavo nemmeno con lo stoppino acceso lungo venti centimetri.
La Santa Messa era in latino ed io il latino non lo sapevo,

ma il Parroco mi diede il libricino della messa in latino scritto in due caratteri.

Le frasi scritte con caratteri normali le diceva il Parroco o Celebrante mentre le risposte in neretto le dovevo dire io.
Ed io in un lampo imparai tutte le risposte al celebrante in latino anche se non sapevo cosa volessero dire.
L’altare non era rivolto verso il pubblico come ora ma rivolto verso il fondo della Chiesa ed il Parroco dava le spalle al pubblico e la fila dei chierichetti si metteva nel presbiterio alle spalle del celebrante su due file.
Si entrava dalla Sagrestia, genuflessione ai piedi dell’altare poi il Parroco saliva all’altare poggiava il calice, quindi scendeva e mi ricordo ancora le prime frasi della Messa.
Dopo aver recitato in ginocchio il tradizionale:
“In nomine Patris et Filii…… ecc”, il celebrante diceva:
“introibo ad altare Dei.” ed io subito pronto, “Ad Deum qui laetificat juventutem meam.”
Il Parroco celebrante rispondeva:
“Adiutorium nostrum in nomine Domini.” ed io pronto e immediato, “Qui fecit caelum et terram….”
Poi veniva il Confiteor e cosi via.
Ma noi piccoli chierichetti non sapevano il latino e quindi le frasi le troncavamo o non eravamo pronti a rispondere ed allora il Parroco ci riprendeva ed anche ci suggeriva.

Io però più che dal latino ero impacciato con la mia bella tunica.

La prima parte della Messa si diceva tutta in ginocchio.
Il pavimento del presbiterio non era mai stato finito e non aveva il marmo come adesso, ma c’era il cemento grezzo.
Avevo i calzoni corti, mi sollevavo allora la tunica per non rovinarla e mi inginocchiavo sul cemento grezzo, che era fatto tutto di piccoli sassolini che sulle ginocchia nude diventavano dolorose.
Dopo un po’ bruciavano, allora per trovare un riparo arrotolavo la tunica sotto le ginocchia così per un po’ il dolore passava.
Il Parroco se ne accorgeva dei vari spostamenti e movimenti e sommessamente ci invitava a stare fermi.
Tra i chierichetti mi feci notare per la serietà ed allora mi chiamavano soprattutto per i funerali, mentre quelli più vecchi e forse anche un tantino più furbi preferivano i matrimoni.
Chissà perché!
Tra i chierichetti c’era sempre qualche monello.
Qualche carboncino destinato al turibolo prendeva qualche altra strada e poi lo si usava per accendere il fuoco o per bruciare le barbe del granoturco o i semi del fenocio che davano un certo aroma di anice.
Il Parroco però ci diceva, che il chierichetto doveva essere sempre irreprensibile e studioso ed allora invece che mandarci in gita premio, ci mandava a fare gli esercizi spirituali a Villa Immacolata a Torreglia.

Ci andai anch’io, ancora molto piccolo così scoprii cosa fossero questi esercizi spirituali:

silenzio, raccoglimento, preghiera, poco gioco, nessun pallone, meditazione al mattino, meditazione al pomeriggio, silenzio assoluto dopo la cena.
La Messa tutti i giorni poi l’istruzione dei chierichetti per gruppi.
Anche se non si poteva parlare tuttavia conobbi lo stesso un mio coetaneo di una Parrocchia vicina e facemmo subito amicizia perché mi era parso subito molto sveglio.
Mi confidò infatti che nella sua Parrocchia dopo la Messa degli sposi lui andava dai compari degli sposi li salutava e tra un saluto e l’altro diceva loro:
“La settimana scorsa abbiamo fatto un bel matrimonio, ma così bello che ci hanno anche dato una mancia per i chierichetti!”
In genere l’allusione funzionava e subito, anche i nuovi compari, gli sganciavano una bella mancia, che lui raccoglieva diligentemente in una musina per fare una bella gita a fine anno.
Dopo la meditazione sul finire degli esercizi spirituali venne anche la confessione.
Andai a confessarmi da un prete che non conoscevo.

Si dimostrò subito molto severo ed austero.

Come penitenza, dopo la confessione, non mi prescrisse come faceva di solito il mio Parroco di recitare delle preghiere, ma di mettere una manciata di fagioli nelle scarpe e di camminare il giorno dopo con i fagioli dentro alle scarpe.
Mi consegnò infatti un sacchettino piccolissimo con dentro una decina di fagiolini bianchi con l’occhio nero.
Misi i fagioli nelle scarpe come mi aveva detto e poi non riuscivo più a correre perché mi facevano male le piante dei piedi lungo le stradine in salita della Villa Immacolata.
Incontrai il mio nuovo amico e vidi che lui camminava invece spedito e correva senza problemi.
Lo chiamai e gli dissi sottovoce, perché si doveva stare in silenzio:
“Sono andato a confessarmi ed il prete mi ha dato un sacchettino di fagioli da mettere come penitenza nelle scarpe!”
“Anche a me ha dato la stessa penitenza,” mi disse l’amico, “ed anch’io ho messo i fagioli nelle scarpe!”

Ed allora io replicai tutto stupito:

“Come mai tu corri senza problemi ed io ho un male boia alle piante dei piedi?” gli chiesi molto stupito.
E Lui mi rispose sorridendo:
“I fasoi non mi fanno male ai piedi, perché io ieri sera li ho messi a bagno in una tazza di acqua calda.
Il confessore non mi ha detto, infatti, che i fagioli dovevano essere secchi o bagnati e io prima di metterli nelle scarpe li ho messi a bagno.”
Rimasi molto colpito dalla furbata e dissi tra me questo amico si toglie facilmente dai problemi.
Beh stenterete a credere, poi ci perdemmo di vista, ma questo compagno di esercizi spirituali divenne in seguito Direttore di Banca e le rare volte, che andavo nella sua agenzia dicevo a gran voce:
“Direttore mi fanno male i piedi!” e lui replicava:
“Acqua calda e fasoi!”

Brano senza Autore, tratto dal Web

Giocare sulle scale (Essere Dio)

Giocare sulle scale
(Essere Dio)

Un bambino giocava a “fare il prete” insieme ad un coetaneo, sulle scale della sua casa.
Tutto andò bene finché il suo piccolo amico, stufo di fare solo il chierichetto, salì su un gradino più alto e cominciò a predicare.

Il bambino naturalmente lo rimproverò bruscamente:

“Posso predicare soltanto io!
Tu non puoi predicare!

Tocca a me!

Rovini il gioco, sei cattivo!”
Richiamata dagli strilli, intervenne la mamma e spiegò al bambino che per dovere di ospitalità doveva permettere all’altro di predicare.

A questo punto il bambino si imbronciò per un attimo.

Poi, illuminandosi, salì sul gradino più alto e rispose:
“Va bene, lui può continuare a predicare, ma io farò Dio!”

Brano tratto dal libro “C’è qualcuno lassù.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Il paese delle ombre

Il paese delle ombre

C’era una volta uno strano piccolo paese addossato ad una montagna altissima.
Un paesino per tanti aspetti come tutti, ma a renderlo unico nel suo genere era il fatto che gli abitanti, sindaco in testa, erano assillati da un problema che poteva sembrare ridicolo, eppure era reale e praticamente irrisolvibile:
eliminare le ombre!
Come fossero arrivati a farsi un problema delle ombre, non si sa:
ne succedono tante nel mondo!
Fatto sta che la cosa era diventata tanto preoccupante che tutti ne erano ossessionati.

Le ombre erano onnipresenti, di tutte le dimensioni!

Si fece persino un museo delle ombre, con dipinti e fotografie; si allestì anche una biblioteca.
Furono chiamati oratori famosi e grandi studiosi per analizzare il più profondamente possibile la grave situazione.
In concreto non si arrivò a nessuna conclusione pratica, a parte qualche tentativo, rivelatosi inutile, come quello di organizzare un gruppetto di pittori che, con pennelli e un secchio di calce pronti, dovevano eliminare le ombre con una mano di bianco.
Era veramente ridicolo vedere per il paese questi onnipresenti pittori alle prese con l’ombra di tutti.
Dove sorgeva un’ombra nuova si precipitavano e tutte le case e le mura erano ormai imbiancate.
Figurarsi quando arrivava uno straniero, era lavoro doppio!
Gli abitanti infatti da tempo, durante il giorno, per non creare nuove ombre rimanevano tappati in casa!
Alcuni poi cercarono, presi dalla mania collettiva, di risolvere il problema per conto proprio:
un vecchietto, per esempio, ogni mattina quando le ombre erano più lunghe, si affannava, spalle al sole, con un grosso piccone a distruggere la propria ombra.

Ma tutto era inutile:

l’ombra era una realtà indistruttibile!
Il peggio fu che, poco a poco, ogni altro problema vero fu lasciato da parte e il paese cadde nel più completo abbandono.
Nessuno più veniva ad abitarvi e tutti si guardavano bene dal prendere iniziative che creassero nuove ombre.
Solo verso sera il paese sembrava entrare nella normalità.
Era quando la grande ombra della montagna scendeva e ricopriva tutto.
Non c’erano più ombre perché c’era un’unica grande ombra, che sembrava estesa quanto il cielo.
Allora il paese si rianimava.
I pittori prendevano un po’ di fiato e di riposo.
Ma presto, con il calare della notte, tutto si immergeva nel silenzio e non si accendevano luci perché esse creavano ombre ancora più fastidiose, per cui in breve tutti si mettevano a letto, pensando al guaio grande di vivere in un paese zeppo di ombre.
Un giorno passò di là un poveraccio, saggio della saggezza di chi aveva camminato tutta una vita e ne aveva visto di tutti i colori in giro per il mondo.
Egli, al vedere quanto succedeva in quel paese, in un primo momento non seppe contenersi dalle risa:
si divertiva soprattutto a far correre i pittori nei punti più svariati del paese, erigendo di nascosto cartelli e sagome varie per creare ombre improvvise, sempre nuove e strane.
Il gioco non durò a lungo.

Egli fu fermato e ammonito:

non si poteva scherzare sui problemi seri, su sforzi estenuanti di anni di ricerca e di tentativi.
Sulle prime il nostro forestiero fu tentato di andarsene.
Però quella gente gli faceva pena:
era sorta in lui una strana curiosità, un interesse che per la prima volta lo teneva bloccato nel suo vagabondare.
Man mano che passavano i giorni, il problema dell’ombra diventò anche per lui un’ossessione.
E fu proprio per scrollarsi di dosso questo incubo che un giorno si inerpicò tutto solo fin sulla vetta della montagna e di lassù vide il paesino illuminato dal sole, in tutta la sua pittoresca realtà.
Altro che ombre!
E’ il paese che esiste!
Il paese da lassù era un paese di case, di alberi, di persone che con la luce si rivelano.
Non era per niente un paese di ombre!
Aveva capito ciò in cui profondamente aveva sempre creduto in fondo al suo cuore e che gli abitanti di quel paese avevano, presi da una strana follia, dimenticato.
Scese di corsa e tutto trafelato andò dal sindaco e gli espose la sua intuizione, ma fu accolto con un sorriso ironico:
in un paese di pazzi il savio passa per matto.
“Sole o non sole, cose o non cose,” gli disse il sindaco “le ombre ci sono e questo è il nostro concreto.

Le ombre sono terribilmente ovunque e questo è evidente.

Tentare di risolvere il problema è il compito più importante che ci siamo assunti; in fondo è fare un servizio alla luce!”
Ormai si era prodotta una così grande distorsione mentale che si pensava alla luce in termini di ombra, come se si volesse decidere di fare il bene solamente cercando di eliminare il male.
Anche il parroco con le sue benedizioni non riusciva ad allontanare le ombre…
Il pover’uomo tornò alla sua capanna in fondo al paese un po’ meravigliato e un po’ sconsolato.
Però si sentiva come guarito da una malattia.
Non guardava più le ombre, anzi ricominciò a fare quello che aveva sempre fatto, ma ora con una grande gioia interiore:
accarezzava con lo sguardo tutte le cose che la luce rivelava.
Tutto era bello, nuovo, sembrava nascere allora.
Anche le ombre erano a loro modo belle perché contribuivano a delineare sempre meglio i contorni delle cose.
Non frequentò più il paese, anche perché quei poveri pittori, guardiani dell’ombra, un’istituzione benemerita, gli facevano pena.

Camminava solo per le strade dei prati o per i sentieri del monte.

Se parlava con qualcuno era per rivolgersi ai piccoli, perché i bambini credono a tutti.
Anzi ne aveva sempre intorno qualcuno che lo ascoltava nel suo raccontare di tante cose e nel dire soprattutto che le cose sono belle per quello che sono; che le ombre ci sono perché ci sono le case illuminate e che la luce è l’unica cosa bella perché ci fa vedere il volto delle persone, altro che l’ossessione di quel paese, dove si riconoscevano per l’ombra anziché per il volto!
I bambini che sono semplici e non capiscono i discorsi e i problemi dei grandi, tanto meno il problema delle ombre, crebbero con spontaneità e diventarono giovani un po’ contestatori, perché non badavano più alle ombre e si davano da fare per rinnovare il paese.
Gli anziani restarono sconcertati:
“Come si fa a ragionare con questa gioventù con idee così diverse!” si confidavano con amarezza e anche con segreta curiosità; e diffidavano chiunque dall’incontrare il forestiero.

Ma ormai il sortilegio era rotto.

A poco a poco il contagio dell’ombra passò.
Tutti cominciarono a guardare le cose per quello che erano e anche il paese delle ombre diventò un paese normale, il paese della realtà come tutti i paesi del mondo.
Il povero saggio da tempo si era rimesso in viaggio.
Il paese era guarito, e a lui era rimasta nel cuore una nuova profonda saggezza:
quando vedeva la sua ombra che fedelissima lo accompagnava, pensava al paese delle ombre e sorrideva dicendo tra sé:
“Se si guarda solo l’ombra, il male, non si vive più!
L’ombra e anche il male sono per la luce, per la vita, per il bene!” e dava un calcio alla propria ombra, un calcio all’aria, contento di vivere nella realtà.

Brano senza Autore, tratto dal Web

Il re ed il falco

Il re ed il falco

Un re, che andava a caccia, arrivò assetato ai piedi di una rupe da cui filtrava, a gocce, un po’ d’acqua.
Scese da cavallo e staccò dalla sella una coppa d’oro gemmata.
Voleva bere.
Sul braccio che teneva la coppa stava appollaiato un bel falco:

il preferito del re.

Adagio adagio la coppa si riempì; ma quando il re l’avvicinò avidamente alle labbra, il falco scattò, come per lanciarsi in volo, e procurò al braccio che lo sosteneva una tale scossa che l’acqua si rovesciò…
Il re dopo aver accarezzato il falco prediletto, ritornò a raccogliere l’acqua a goccia a goccia; ma quando avvicinò di nuovo la coppa alle labbra, il falco dette uno strido, batté le ali, e il re sobbalzando, rovesciò nuovamente il liquido che aveva raccolto con tanta pazienza.
Fece un atto più di dispetto che di rammarico.
Pure si contenne, e iniziò la raccolta dell’acqua per la terza volta.
Ma quando, per la terza volta, avvicinò la coppa alle labbra, il gioco del falco si ripeté.

L’acqua si versò.

Allora il re proruppe in un gesto d’ira furioso.
Afferrò il falco e lo scaraventò contro la roccia.
Il volatile cadde morto con le ali aperte, come fosse ancora in volo.
Intanto la gocciolina, che filtrava lenta dalla rupe, aveva smesso di scorrere.
E il re, ora con la rabbia ora con il dispiacere nel cuore, aveva più sete che mai.
Mandò i servi a vedere se sopra la roccia si trovava la polla che dava acqua alla sorgente.
La trovarono, ma si fermarono inorriditi: era uno stagno in cui galleggiavano i cadaveri putrefatti di parecchi animali.

Certamente quell’acqua, bevuta, avrebbe avvelenato il re.

Disse uno dei servi al ritorno:
“Sire, se tu avessi bevuto quell’acqua saresti morto!”
Il re guardò il falco che gli giaceva ai piedi e chinò la testa.
Umilmente chiese perdono al fedele amico che si era sacrificato per lui e inutilmente rimpianse il suo impulsivo gesto d’ira.

Brano senza Autore, tratto dal Web

Qual è la parte più importante del nostro corpo?

Qual è la parte più importante del nostro corpo?

Quando ero ragazzina, mia madre mi chiese quale fosse la parte più importante del corpo.
Mi piaceva moltissimo ascoltare musica, come ai miei amici del resto.
Sul momento pensai che l’udito fosse molto importante per gli esseri umani, così risposi:

“Le orecchie.”

“Alcune persone sono sorde, eppure vivono felicemente!” rispose mia madre.
Dopo qualche tempo, mia madre mi rifece la stessa domanda:
“Qual è la parte più importante del corpo umano?”
Io intanto ci avevo pensato e credevo di avere la risposta giusta:
“Vedere è meraviglioso ed è molto importante per tutti, quindi… gli occhi.”
Lei mi guardò e disse:

“Molti sono ciechi e se la cavano benissimo!”

Pensavo che fosse solo una specie di gioco tra me e mia madre.
Poi però un giorno, tristissimo per me, morì mio nonno.
Era una persona molto importante per me.
L’amavo tantissimo.
Ero distrutta dal dolore.
Quel giorno mia madre mi disse:
“Oggi è il giorno giusto perché tu possa capire la risposta alla domanda.
La parte più importante del corpo sono le spalle!”
Sorpresa, dissi:

“Perché sostengono la testa?”

“No!” rispose mia madre, “Perché su di esse possono appoggiare la testa gli amici o le persone care quando piangono.
Tutti abbiamo bisogno di una spalla su cui piangere in alcuni momenti della nostra vita.”
Quella volta scoprii quale fosse la parte più importante del mio corpo, perché in quel momento, quella che aveva bisogno di una spalla su cui piangere ero io.

Brano senza Autore

Il professore ed il significato della vita

Il professore ed il significato della vita

Un professore concluse la sua lezione con le parole di rito:
“Ci sono domande?”
Uno studente gli chiese:
“Professore, qual è il significato della vita?”

Qualcuno, tra i presenti che si apprestavano a uscire, rise.

Il professore guardò a lungo lo studente, chiedendo con lo sguardo se era una domanda seria.
Comprese che lo era.
“Le risponderò!” gli disse.
Estrasse il portafoglio dalla tasca dei pantaloni, ne tirò fuori uno specchietto rotondo, non più grande di una moneta.
Poi disse:
“Ero bambino durante la guerra.
Un giorno, sulla strada, vidi uno specchio andato in frantumi.

Ne conservai il frammento più grande.

Eccolo.
Cominciai a giocarci e mi lasciai incantare dalla possibilità di dirigere la luce riflessa negli angoli bui dove il sole non brillava mai:
buche profonde, crepacci, ripostigli.
Conservai il piccolo specchio.
Diventando uomo finii per capire che non era soltanto il gioco di un bambino, ma la metafora di quello che avrei potuto fare nella vita.

Anch’io sono il frammento di uno specchio che non conosco nella sua interezza.

Con quello che ho, però, posso mandare la luce, la verità, la comprensione, la conoscenza, la bontà, la tenerezza nei bui recessi del cuore degli uomini e cambiare qualcosa in qualcuno.
Forse altre persone vedranno e faranno altrettanto.
In questo per me sta il significato della vita!”

Brano tratto dal libro “Solo il vento lo sa.” di Bruno Ferrero

Vivi la vita


Vivi la vita

La vita è un’opportunità, coglila.
La vita è bellezza, ammirala.
La vita è beatitudine, assaporala.
La vita è un sogno, fanne una realtà.

La vita è una sfida, affrontala.

La vita è un dovere, compilo.
La vita è un gioco, giocalo.
La vita è preziosa, abbine cura.
La vita è una ricchezza, conservala.

La vita è amore, godine.

La vita è un mistero, scoprilo.
La vita è promessa, adempila.
La vita è tristezza, superala.
La vita è un inno, cantalo.

La vita è una lotta, accettala.

La vita è un’avventura, rischiala.
La vita è felicità, meritala.
La vita è la vita, difendila.

Brano di Madre Teresa di Calcutta

Amore e Pazzia


Amore e Pazzia

Raccontano che un giorno si riunirono in un luogo della terra tutti i sentimenti e le qualità degli uomini.
Quando la noia si fu presentata per la terza volta, la pazzia, come sempre un po’ folle propose: “Giochiamo a nascondino!”
L’interesse alzò un sopracciglio e la curiosità senza potersi contenere chiese:
“A nascondino? Di che si tratta?”
“E’ un gioco,” spiegò la pazzia “in cui io mi copro gli occhi e mi metto a contare fino a un milione mentre voi vi nascondete e, quando avrò terminato di contare, il primo di voi che scopro prenderà il mio posto per continuare il gioco dopo che avrò trovato tutti…”

L’entusiasmo si mise a ballare, accompagnato dall’euforia.

L’allegria fece tanti salti che finì per convincere il dubbio e persino l’apatia alla quale non interessava mai niente.
Però non tutti vollero partecipare.
La verità preferì non nascondersi.
Perché, se poi alla fine tutti la scoprono?
La superbia pensò che fosse un gioco molto sciocco (in fondo ciò che le dava fastidio era che non fosse stata una sua idea) e la codardia preferì non rischiare.
“Uno, due, tre…” cominciò a contare la pazzia.
La prima a nascondersi fu la pigrizia che si lasciò cadere dietro la prima pietra che trovò sul percorso.

La fede volò in cielo e l’invidia si nascose all’ombra del trionfo che con le proprie forze era riuscito a salire sulla cima dell’albero più alto.

La generosità quasi non riusciva a nascondersi.
Ogni posto che trovava le sembrava meraviglioso per qualcuno dei suoi amici.
Che dire di un lago cristallino? Ideale per la bellezza.
Le fronde di un albero? Perfetto per la timidezza.
Le ali di una farfalla? Il migliore per la voluttà.
Una folata di vento? Magnifico per la libertà.
Così la generosità finì per nascondersi in un raggio di sole.

L’egoismo, al contrario trovò subito un buon nascondiglio, ventilato, confortevole e tutto per se.

La menzogna si nascose sul fondale degli oceani (non è vero, si nascose dietro l’arcobaleno).
La passione e il desiderio al centro dei vulcani.
L’oblio non mi ricordo dove!
Quando la pazzia arrivò a contare 999999 l’amore non aveva ancora trovato un posto dove nascondersi poiché li trovava tutti occupati, finché scorse un cespuglio di rose e alla fine decise di nascondersi tra i suoi fiori.
“Un milione!” contò la pazzia.
E cominciò a cercare.
La prima a comparire fu la pigrizia, solo a tre passi da una pietra.
Poi udì la fede, che stava discutendo con Dio su questioni di teologia, e sentì vibrare la passione e il desiderio dal fondo dei vulcani.

Per caso trovò l’invidia e poté dedurre dove fosse il trionfo.

L’egoismo non riuscì a trovarlo.
Era fuggito dal suo nascondiglio essendosi accorto che c’era un nido di vespe.
Dopo tanto camminare, la pazzia ebbe sete e nel raggiungere il lago scoprì la bellezza.
Con il dubbio le risultò ancora più facile, giacché lo trovò seduto su uno steccato senza avere ancora deciso da che lato nascondersi.
Alla fine trovò un po’ tutti: il talento nell’erba fresca, l’angoscia in una grotta buia, la menzogna dietro l’arcobaleno e infine l’oblio che si era già dimenticato che stava giocando a nascondino.

Solo l’amore non le appariva da nessuna parte.

La pazzia cercò dietro ogni albero, dietro ogni pietra, sulla cima delle montagne e quando stava per darsi per vinta scorse il cespuglio di rose e cominciò a muoverne i rami.
Quando, all’improvviso, si udì un grido di dolore:
le spine avevano ferito gli occhi dell’amore…!
La pazzia non sapeva più che cosa fare per discolparsi; pianse, pregò, implorò, domandò perdono e alla fine gli promise che sarebbe diventata la sua guida.
Da allora, da quando per la prima volta si giocò a nascondino sulla terra, l’amore è cieco e la pazzia sempre lo accompagna…

Brano senza Autore, tratto dal Web

L’onda e il mare. (Il bene senza fine)


L’onda e il mare. (Il bene senza fine)

Un giorno l’onda chiese al mare:
“Mi vuoi bene?”
Ed il mare le rispose:
“Il mio bene è così forte che ogni volta che t’allontani verso la terra io ti tiro indietro per riprenderti tra le mie braccia.

Senza te la mia vita sarebbe insignificante.

Sarei un mare piatto, senza emozione.
Tu sei l’essenza del mio esistere.”
L’onda fu felice.
Tra le braccia del mare.

Facendo finta, ogni volta di volare via, per dare quel senso di precarietà alle cose, per renderle preziose.

Ed ogni volta il mare la riprendeva, con le sue braccia grandi, per riportarla a sé.
Raccontano che una notte la luna illuminava il mondo, e l’onda bianca lentamente, in un ballo infinito, scivolava tra un prendersi e un lasciarsi, col mare che stendeva le braccia per poi ritirarle, facendo finta a volte di non poterlo fare, perché l’onda potesse assaporare anch’essa quella precarietà che rende le cose preziose.

L’onda ed il mare sono ancora lì, nel gioco infinito delle emozioni.

E fanno finta che sarà l’ultima volta che l’onda partirà verso la terra, per non tornare più, ma poi, alla fine, è più forte su tutto il bisogno di riprendersi.
Nel sogno di un bene senza fine.

Brano senza Autore, tratto dal Web