L’arancia di Natale (L’amicizia)

L’arancia di Natale (L’amicizia)

Un anziano e ricco signore inglese racconta:
“Avevo perso i miei genitori da ragazzo e all’età di nove anni ero stato mandato in un orfanotrofio vicino a Londra.
Sembrava una prigione.
Dovevamo lavorare 14 ore al giorno, in giardino, in cucina, nelle stalle, nei campi.
Così tutti i giorni.
C’era un solo giorno di festa:
il giorno di Natale.
L’unico giorno in cui ogni ragazzo riceveva un regalo:

un’arancia.

Niente dolci.
Niente giocattoli.
Per di più l’arancia veniva data solo a chi non aveva fatto nulla di male durante l’anno ed era sempre stato obbediente.
Questa arancia a Natale rappresentava il desiderio dell’anno intero.
Ricordo il mio primo Natale all’orfanotrofio.
Ero tristissimo.
Mentre gli altri ragazzi passavano accanto al direttore dell’orfanotrofio e tutti ricevevano la loro arancia, io dovevo stare in un angolo del dormitorio.
Questa era la mia punizione per aver voluto scappare dall’orfanotrofio, un giorno d’estate.
Finita la distribuzione dei regali, gli altri ragazzi andarono a giocare in cortile.

Io dovevo stare in dormitorio tutto il giorno.

Piangevo e mi vergognavo.
Mi ero messo una coperta fin sulla testa e stavo rannicchiato là sotto.
Dopo un po’ sentii dei passi nella stanza.
Una mano tirò via la coperta.
Guardai.
Un ragazzino di nome William stava in piedi davanti al mio letto, aveva un’arancia nella mano destra e me la tendeva sorridendo.
Non capivo.
Le arance erano contate, da dove poteva essere arrivata un’arancia in più?
Guardai William e il frutto e improvvisamente mi resi conto che l’arancia era già stata sbucciata e, guardando più da vicino, tutto mi divenne chiaro.
Sapevo che dovevo stringere bene quell’arancia perché non si aprisse.

Che cosa era successo?

Dieci ragazzi si erano riuniti in cortile e avevano deciso che anch’io dovevo avere la mia arancia per Natale.
Ognuno di essi aveva tolto uno spicchio dalla sua arancia e i dieci spicchi erano stati accuratamente messi insieme per creare una nuova, rotonda e delicata arancia.
Quell’arancia è stato il più bel regalo di Natale della mia vita.
Mi ha insegnato quanto può essere confortante la vera amicizia.

Brano senza Autore

L’ultimo “Ti Amo”

L’ultimo “Ti Amo”

Il marito di Carol è morto in un incidente d’auto l’anno scorso.
Jim, che aveva soltanto cinquantadue anni, stava tornando a casa dal lavoro.
Il conducente dell’altra auto coinvolta era un adolescente e, dopo gli accertamenti del caso, venne appurato che aveva un elevato tasso alcolico nel sangue.

Jim morì sul colpo.

Il ragazzo rimase al pronto soccorso meno di due ore.
Altra ironia del caso, Jim aveva in tasca due biglietti aerei per le Hawaii.
Era il cinquantesimo compleanno di Carol e voleva farle una sorpresa.
Ma invece venne ucciso da un ragazzo ubriaco.
“Come sei sopravvissuta?” chiesi un giorno a Carol, circa un anno dopo quel tragico incidente.
I suoi occhi si riempirono di lacrime.
Pensavo di averle fatto la domanda sbagliata ma lei mi prese delicatamente la mano e disse:
“Non c’è problema, voglio dirtelo.
Il giorno che ho sposato Jim gli promisi che non l’avrei mai lasciato uscire di casa senza dirgli che l’amavo.

E lui mi promise la stessa cosa.

Così quell’abitudine diventò una specie di gioco tra di noi e dopo che arrivarono i bambini diventò piuttosto difficile mantenere quella promessa.
Mi ricordo che a volte correvo giù per il vialetto davanti a casa dicendo “Ti Amo” a denti stretti quando ero arrabbiata, oppure qualche volta andavo fino al suo ufficio per lasciargli un bigliettino nell’auto.
Era come un gioco il nostro, curioso e divertente.
Così creammo molti ricordi con quel dirci “Ti Amo” prima di mezzogiorno, ogni giorno della nostra vita da sposati.
Il giorno in cui morì, Jim lasciò un biglietto di auguri per il mio compleanno in cucina e poi sgattaiolò fuori da casa.

Sentii il motore dell’auto che partiva e pensai:

“Oh, no!
Non fare il furbo!”
Poi mi precipitai fuori e tempestai di pugni il finestrino finché Jim fu costretto ad abbassarlo.
Allora gli dissi:
“Oggi è il giorno del mio cinquantesimo compleanno, signor James E. Garet, voglio passare alla storia dicendoti “Ti Amo”.
Ecco come sono sopravvissuta, sapendo che le ultime parole che ho detto a Jim sono state:
“Ti Amo”!”

Brano tratto dal libro “L’ultima foglia.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

Il “gioco” degli sguardi

Il gioco degli sguardi

Alla cortese attenzione della rivista “Raccontaci la tua estate”:

Nei primi giorni di ottobre del 1987, alla soglia dei trent’anni, fui nominato dal provveditore agli studi di Macerata per un incarico annuale fino al 30 giugno, come professore di lettere in un istituto alberghiero.
Nato e cresciuto a Nuoro, dopo la laurea ed il dottorato presso l’università di Cagliari, lasciavo la mia bella Sardegna per la terraferma.
Accettai al volo poiché, dopo aver terminato il dottorato, avevo ricoperto solo qualche breve supplenza in una scuola media di Cagliari.
Quello fu il mio primo incarico annuale e, in quel caso, mi vennero affidate due prime e due seconde, per un totale di 18 ore settimanali.
Fu una esperienza entusiasmante e formativa, nonostante la poca voglia di impegnarsi dei miei studenti.
Andai a vivere da miei zii (ecco il perché della scelta della città di Macerata), che avevano due figli.

Zio Lele era un postino e Zia Mariella una professoressa di biologia alle scuole medie.

Mio cugino Alfonso, che aveva la mia età, lavorava in una piccola industria tessile come contabile, mentre mia cugina Nunzia, di 23 anni, stava studiando Matematica all’Università di Perugia e che, conseguentemente, vedevo una o due volte al mese.
I miei cugini avevano trascorso quasi tutte le estati, fin da quando eravamo piccoli, da noi a Nuoro, in particolar modo fino ai miei primi anni universitari.
Durante quelle estati, con Alfonso eravamo, praticamente, inseparabili.
Terminata la scuola, insieme alla zia arrivavano lui e Nunzia, che essendo più piccola di noi di sette anni, non veniva minimamente considerata.
Questa abitudine di non considerare Nunzia, non mutò neanche con il trascorrere del tempo.
Mille avventurose scorribande estive, dai primi anni del 1960 alla fine del 1970.
La nostra estate iniziava i primi di giugno e terminava qualche giorno prima dell’inizio della scuola a settembre.
Ad agosto arrivava anche lo zio e, tra i nonni, i miei genitori ed i miei fratelli, entrambi più grandi di me, era sempre una grande festa.

In quel momento, per la prima volta, mi ritrovai a vivere con i miei zii e mio cugino.

Alfonso mi fece integrare alla grande, guidandomi per le strade di Macerata e coinvolgendomi nella sua comitiva.
Alla fine dell’anno scolastico, dopo aver aspettato che mia cugina avesse terminato gli esami di quella sessione, con lei e mia zia, ci recammo a Nuoro.
Non dovendo presenziare agli esami dei miei studenti, la mia prima esperienza come professore terminò, per questa ragione, i primi di giugno del 1988.
Arrivammo in Sardegna due giorni prima della sconfitta dell’Italia contro l’URSS agli europei di quell’anno, poi vinti dall’Olanda, guidata dal trio milanista Gullit, Van Basten e Rijkaard (che sarebbe arrivato in Italia solo alla fine del campionato europeo).
Ripresi ad uscire abitualmente con i miei pochi amici rimasti a vivere a Nuoro, però senza Alfonso.
Ma, ogni giorno che passava, vedevo Nunzia sempre più annoiata.
Le chiesi se volesse uscire con me e, pur di non stare a casa con sua mamma, i miei genitori e la nonna, accettò la proposta al volo.
Nei suoi modi di fare ritrovai tanti atteggiamenti di Alfonso e, praticamente, fino all’arrivo di quest’ultimo, trascorremmo l’intero mese di luglio insieme.
Eravamo così affiatati che anche io rimasi sorpreso.
Sostanzialmente mia cugina era una macchietta.
La situazione non cambiò neanche quando arrivò, i primi di agosto, Alfonso.
Nunzia continuò ad uscire con noi, nonostante il fratello non fosse particolarmente entusiasta della cosa.

Le serate di luglio, prima che arrivasse Alfonso, avevano il seguente copione:

aperitivo pre-cena al bar della signora Amelia, post-cena ancora nello stesso posto e poi in giro per Nuoro fino alle 2 – 3 di notte.
Tanti compaesani, non riconoscendo mia cugina, che con gli anni era diventata una ragazza carina, ci scambiavano per una coppia.
Ma questo non ci stupiva più di tanto e continuavamo con la nostra routine.
Alcuni momenti al bar mi facevano sorridere:
a volte, incrociavo lo sguardo timido e pungente di Emma, una coetanea di mia cugina, che aveva gli occhi azzurri ed i capelli biondi.
Emma era la cameriera, nonché la figlia minore di Amelia, rientrata per l’estate dall’università per aiutare la mamma e la sorella maggiore Manuela, di un paio di anni più grande della stessa Emma, a gestire il bar.
Avevo visto crescere Emma, essendo quel bar il nostro locale di riferimento e, anche lei crescendo, come mia cugina, era diventata graziosa.
L’unico problema era che le tre (Nunzia, Emma e Manuela), un tempo appartenenti alla stessa compagnia estiva, anni prima avevano litigato e, nonostante il tempo trascorso, mia cugina ancora non parlava le due sorelle.
Anzi, ogni volta che mia cugina notava qualche sguardo tra me ed Emma o si arrabbiava o mi faceva battutine.
La situazione non cambiò in seguito all’arrivo di Alfonso ma, a parte qualche altro sguardo, l’estate trascorse in un lampo senza che accadesse di niente di rilevante.
I miei cugini ed i miei zii rientrarono a Macerata ed io restai a Nuoro in attesa di una nuova chiamata a scuola.

Che arrivò puntualmente gli ultimi giorni di settembre.

Mi affidarono le stesse classi dell’anno prima, quindi ora insegnavo a due seconde e due terze.
Le terze le avrei dovute accompagnare alla qualifica professionale di fine anno.
Anche questo secondo anno trascorse tranquillo ma, rispetto all’anno precedente, riuscì a rientrare a Nuoro solo a fine giugno.
Durante l’anno scolastico acquisii maggior consapevolezza nei miei mezzi e questo aiutò sia me che i ragazzi, che a giugno dovettero sostenere l’esame per ottenere la qualifica triennale.
Ogni giorno, inoltre, prendevo confidenza e sicurezza nel vivere nella meravigliosa città di Macerata, in compagnia, anche, degli amici di mio cugino.
Giunse fine anno e insieme a zia Mariella, finiti gli esami, ci recammo a Nuoro.
Zio Lele e Alfonso ancora lavoravano mentre Nunzia stava per sostenere l’ultimo esame universitario e, dopo aver terminato, intorno al 10 di luglio, ci raggiunse in Sardegna.
Riprendemmo le abitudini dell’anno precedente e, ormai, per buona parte dei miei compaesani, eravamo diventati una coppia fissa.
Tra i pochi a non pensarla così c’era ovviamente Emma, con la quale continuammo a scambiarci qualche sguardo.
Anche Nunzia iniziò a rassegnarsi all’idea, soprattutto dopo che un suo vecchio amico, Nicola, nonché amico di Emma, mi disse, non proprio velatamente, che quest’ultima avesse un interesse nei miei confronti.

Si susseguirono i giorni, ma la situazione non cambiò.

Non avevo preso ancora in considerazione l’idea di avvicinarmi seriamente a lei, e neanche la stessa fece qualcosa per farmi cambiare idea.
Con l’arrivo di agosto giunsero a Nuoro sia Alfonso che una mia vecchia amica, Lara, che, poco prima delle ferie estive, si era lasciata con il fidanzato.
Trascorremmo in quattro un’estate spensierata, circondati anche dai restanti amici del nostro gruppo e, contemporaneamente, anche l’idea su Emma si volatilizzò.
A settembre non partirono solo i miei zii ed i miei cugini, ma anche io mi unii a loro.
Avevo ricevuto dal provveditorato una nomina dal primo settembre per un incarico annuale in un liceo scientifico.
Mi affidarono due quarte e due quinte ginnasio (l’equivalente attuale di primo e secondo anno del liceo scientifico).
Anche quell’anno trascorse in maniera tranquilla.
Ad ogni mese di lezione trascorso, per me ed Alfonso, si aggiungeva anche un invito ad un matrimonio, ricevuto direttamente da Nuoro.
Subito dopo Natale Nunzia si laureò.
Rientrata Nunzia eravamo in cinque a casa degli zii, così decisi di “avvicinarmi” a Nuoro.
Per l’anno successivo feci domanda di trasferimento per insegnare a Cagliari e decisi di iniziare a preparare l’esame per l’abilitazione come professore.

A fine aprile arrivò una notizia poco piacevole.

L’azienda di mio cugino a breve avrebbe chiuso e così, Alfonso iniziò a cercare un nuovo lavoro.
Arrivarono altri inviti per dei matrimoni, per un totale finale di sei.
La scuola finì e data la situazione, con i primi di giugno del 1990, arrivammo a Nuoro.
Io, la zia, Alfonso, Nunzia ed il suo fidanzato che, da qualche tempo, aveva iniziato a frequentare casa dei miei zii.
Giusto in tempo per seguire, qualche giorno dopo, i mondiali di Italia 90 e le sue notti magiche.
Il bar di Amelia si era organizzato alla grande, coadiuvata sempre da Manuela ed Emma che, durante l’ultimo anno, era, però, dimagrita parecchio.
Il popolo italiano era festante dopo le vittorie, seppur risicate, con Austria, Stati Uniti e Cecoslovacchia.
Il giorno degli ottavi con l’Uruguay combaciò con il compleanno di Emma ed il caso volle che al mio gruppo si fosse unita anche Lara.
La partita terminò ovviamente a favore della nazionale italiana e poco dopo, Emma invitò controvoglia tutto il gruppo, per mangiare insieme una fetta di torta.
Ovviamente non era entusiasta del fatto che ci fosse Lara.
Ma questo episodio la aiutò a farle capire che io e Lara non stessimo insieme.
Durante un aperitivo pomeridiano, prima dei quarti della nazionale italiana, per uno strano caso del destino, io ed Emma rimanemmo soli per circa dieci minuti ed iniziammo a parlare.

E ci trovammo al volo.

Da quel momento in poi, ogni qual volta andavamo con gli amici al bar, io ed Emma scambiavamo quattro chiacchiere.
E anche Amelia sembrava contenta di questa cosa mentre Manuela era, a dir poco, contrariata.
La sera dei quarti, dopo la vittoria con l’Irlanda, Emma si aggregò al nostro gruppo con un paio di suoi amici, la sua migliore amica Nadia, Nicola ed Enzo, la sorella ed altri ragazzi, e così fece anche in alcune delle serate seguenti.
Il 3 luglio, giorno delle semifinali, terminarono le notti magiche della nazionale italiana, in seguito alla sconfitta rimediata contro l’Argentina ai calci di rigori, nello scenario surreale del San Paolo che, invece di sostenere all’unisono la nazionale italiana, supportò la nazionale argentina capitanata da Maradona.
All’atto conclusivo del torneo, però, l’Argentina venne sconfitta in finale dalla Germania, riunitasi da poco, in seguito alla caduta del muro di Berlino.
L’Italia si accontenterà del terzo gradino del podio ottenuto ai danni dell’Inghilterra.
Emma continuò, in quelle sere, ad unirsi al nostro gruppo, ma sempre accompagnata dai propri amici.
Ovviamente sotto gli sguardi contrariati di Nunzia e Manuela.
Il mercoledì seguente con Alfonso ci recammo a Sassari per il primo dei sei matrimoni, che si sarebbe tenuto di giovedì, e poi sabato ci recammo a Cagliari per quello successivo.

Rientrammo a Nuoro nella tarda serata di lunedì.

Il giorno dopo, in attesa dei seguenti matrimoni, che ci avrebbero rallegrato le seguenti quattro domeniche, con la solita combriccola, andammo a degustare l’abituale aperitivo.
Emma non si avvicinò minimamente al tavolo in quel momento, ma la sera si unii tranquillamente al nostro gruppo.
E, quella sera, rimasi perplesso.
Era abbracciata ad un suo amico, Enzo.
Subito dopo incrociai lo sguardo compiaciuto, ma anche ironico, di Nunzia.
Ricordavo chi fosse Enzo poiché, quando io ero rover negli scout, lui era un simpatico lupetto sempre molto cordiale con tutti noi poco più grandi di lui.
Quella sera fu il preludio ad altre scene strane.
Dopo altri due matrimoni, Enzo per qualche giorno non si fece vedere.
Emma riprese a guardarmi, sotto lo sguardo perplesso di Alfonso, Nunzia, Lara e degli altri che conoscevano la storia.
Nei giorni precedenti il quinto matrimonio, Emma ed Enzo ripresero ad unirsi al nostro gruppo e, in quei momenti, alternavano abbracci, rapide passeggiate mano nella mano e, una sera, anche un bacio fugace.
Nunzia, intanto, gongolava.
I giorni trascorsero rapidamente e con i primi di agosto, con Alfonso, ci recammo al quinto matrimonio.
Durante questa giornata notai una graziosa ragazza con gli occhi cangianti, che attirò fortemente la mia attenzione.
Avendo vissuto per dieci anni lontano da Nuoro, non ricordavo precisamente chi fosse questa ragazza.

Con il trascorrere delle ore, la riconobbi.

Era Viola, una cugina della sposa, figlia di un fornaio che abitava nei pressi di casa di mia nonna, ma anche coetanea di Nunzia.
Come era cambiata e come era diventata carina con il passare degli anni.
Finita la cerimonia e la festa, rientrammo a casa.
In seguito, prendemmo parte all’ultimo matrimonio e per i restanti giorni di agosto ci dedicammo a rilassarci.
Trascorsero tante altre serate in compagnia, in cui a volte si univano Emma, Enzo ed il loro gruppetto, che continuavano il loro teatrino, mentre in altre sere, si univa la sola Emma con Manuela ed altri amici.
Il 31 di agosto, cioè due giorni prima di raggiungere la mia nuova destinazione (Cagliari) e il giorno prima della partenza dei miei zii e dei miei cugini, io e Nunzia fummo raggiunti da un amico o da una amica, ora non ricordo con precisione, di Emma, che mi chiese come avessi reagito al fatto di aver visto stare insieme Emma ed Enzo.
Risposi con assoluta tranquillità e sincerità di aver già accennato ai miei amici che, qualora fossero stati realmente fidanzati, a me poteva fare solo piacere.
La cosa importante era che Emma fosse convinta e felice di questa scelta.
Altre persone al mio posto, dopo gli atteggiamenti che aveva assunto nelle settimane precedenti, non avrebbero voluto sapere più niente di lei e gli spiegai che, non essendo superficiale, non basavo le mie idee esclusivamente sulle apparenze e, in ogni caso, per me, non cambiava nulla.

Nunzia avallò la mia risposta.

Il giorno dopo, prima di partire, Nunzia mi ribadì di non pensare più ad Emma.
Conosceva la mia idea, cioè che fossi semplicemente intrigato dal fatto che lei potesse essere interessata a me, ma anche del fatto che io non avrei fatto nulla se non in seguito ad una sua palese dimostrazione di interesse.
Conclusi questo breve scambio di idee con mia cugina con le parole di Cesare Pavese:
“Tu sarai amato il giorno in cui potrai mostrare la tua debolezza, senza che l’altro se ne serva per affermare la sua forza.”
Alla fine, le raccontai di aver notato, durante un matrimonio, questa graziosa ragazza con gli occhi cangianti.
Ma questa… è un’altra storia.

Cordialmente, Professor Antonello.

“Il vostro futuro non è ancora stato scritto, quello di nessuno.
Il vostro futuro è come ve lo creerete.
Perciò createvelo buono.”
Citazione del Dr. Emmett L. Brown, “Doc”, in “Ritorno al futuro – Parte III”
Brano di Michele Bruno Salerno

© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente. 

L’importante è volersi bene e… dirselo

L’importante è volersi bene e… dirselo

“Stai dritto con la schiena.
Quante volte te lo devo dire?” disse il papà.
“Muoviti o facciamo notte!” gli disse la mamma.
“E piantala di far domande su tutto: sei stressante!” gli disse la sorella.
“Guarda come hai ridotto lo zainetto!
Se lo dovessi pagare tu…” continuò la mamma.
“Sei un mentecatto!” continuò la sorella.
Matteo credeva di essersi abituato alle parole che scandivano le sue giornate.
Si svegliava di solito al suono di:
“Sbrigati, sei in ritardo, lavati bene, hai messo tutto nello zaino?
Ma quanto sei imbranato!”

Finiva le giornate al suono di:

“Hai gli occhi che ti cadono nel piatto: ora te ne vai a dormire e non far storie come tutte le sere!
Quanto hai preso in italiano?
E spegni subito la luce!”
Ma quel giorno tutto prese una cattiva piega.
Alessandro, il suo migliore amico, gli aveva buttato in faccia:
“Ma sei diventato scemo?”
Che poi significa:
“Ti stai comportando come uno scemo!”
Titti, la maestra, l’aveva definito un “poltronaccio” e, durante la partita, Walter l’aveva chiamato “schiappa”.
Così quella sera due grossi lacrimoni gli scesero lungo le guance e finirono nel purè.
“Uh, ué, la lagna…” fece la sorella.
Matteo corse nella sua cameretta e si buttò sul letto.
Almeno lì poteva singhiozzare in pace.
Un discreto picchiettare alla finestra attirò la sua attenzione.
Corse a vedere e si trovò di fronte una creatura stranissima, ma piacevolissima.
Non si capiva bene come era fatta, ma tutto in lei era soffice, morbido, luminoso, sorridente e carezzevole.

“Chi sei?” domandò Matteo.

La risposta sbocciò come un trillo di campanelli, dolce come biscotti e Nutella:
“Sono un coccolone…
E ho visto che hai bisogno di noi.
Dammi la mano e vieni con me.”
Matteo si mosse come in un sogno.
La morbida creatura lo prese per mano e lo fece volare oltre la finestra nel cielo.
“Dove mi porti?” chiese Matteo.
“Nel paese dei coccoloni!” rispose la strana creatura.
“Dov’è?” ribadì il piccolo.
Dopo un volo leggero attraversarono tutti i colori dell’arcobaleno, che hanno un gusto squisito (il verde è alla menta, l’arancione sa di aranciata, l’indaco è tamarindo e così via), atterrarono in un paese fiorito e pieno di allegria.
Matteo vide che c’erano i bambini coccoloni, i nonni coccoloni e perfino i maestri coccoloni, naturalmente nelle scuole coccolone.

I bambini coccoloni furono i primi ad invitarlo a giocare.

Matteo ci si mise d’impegno, anche perché l’atmosfera era piacevole e amichevole.
E decisamente diversa da quella a cui era abituato.
Quando qualcuno sbagliava, c’era sempre qualcun altro che diceva:
“Coraggio. La prossima volta andrà meglio.”
E quando Matteo riuscì a fare gol, perfino il portiere avversario gli disse:
“Bravo!”
Matteo, invece di esultare, constatò amaramente che probabilmente quello era il primo “bravo” della sua vita.
Dopo la partita, i suoi nuovi amici coccoloni fecero a gara per invitarlo nelle loro case.
Matteo accettò l’invito del portiere avversario, quello che gli aveva detto “bravo”.
Era una famiglia come la sua:
mamma, papà, sorella e fratellino.
Solo che questi erano tutti coccoloni.

A tavola, Matteo ebbe il posto d’onore.

La mamma coccolona lo baciò e Matteo si sentì venire le lacrime agli occhi, perché era tanto tempo che la sua mamma non lo baciava più e lui non sapeva come fare a dirglielo.
“Ho anch’io una sorella più grande.” disse Matteo.
“Allora sai anche tu che cos’è una rottura,” disse il piccolo coccolone, “ma è così comoda per i compiti e per giocare-”
Tutti risero.
Poi tutti fecero il gioco “Racconta la tua giornata”.
Il papà, la mamma, la sorella e il fratellino raccontarono quello che avevano fatto, gli avvenimenti belli della loro giornata.
Matteo fu colpito soprattutto da una cosa: nella famiglia coccolona tutti si ascoltavano.
Si ascoltavano davvero, non si interrompevano a vicenda, non dicevano:
“Smettila un po’, mi fai venire il mal di testa!”
Si ascoltavano semplicemente.
Poi tutti gli occhi si puntarono su Matteo.
“E la tua giornata com’è stata?” chiese il papà coccolone.
Matteo raccontò tutto quello che aveva dentro e che fino a quel momento aveva confidato solo al cuscino.
Lo ascoltarono comprensivi.

Alla fine il papà coccolone gli disse:

“Vedi, l’importante è volersi bene e… dirselo”.
Gli diede un sacchetto di polvere rosa.
“Quando sarai a casa prova questa polverina.
Soffiane un po’ qua e là.
È la polvere coccolona!” gli spiegò.
In quel momento Matteo si svegliò.
“Che razza di sogno ho fatto!” pensò.
Ma…
Spalancò gli occhi e si rizzò a sedere sul letto.
Perché il suo pugno stringeva una manciata di polvere rosa.
“Ma allora è vero!” esclamò.
Mise la polverina dentro una scatoletta e poi si alzò:
“Voglio provare se funziona.”
Vide sul tavolo di cucina il caffè del papà.
Furtivamente fece cadere nella tazzina un pizzico di polverina.
Il papà, come al solito, era di corsa.

Bevve il caffè e poi disse soddisfatto:

“Buono!”
Questo non l’aveva mai fatto.
Anche la mamma se ne accorse.
Poi, incredibilmente, prima di uscire il papà fece una carezza affettuosa sulla testa di Matteo:
“Passa una bella giornata, ometto!
E dacci dentro a scuola perché stasera ti sfido a Scarabeo.”
“Urrà, funziona!” pensò Matteo, felice.
“Ne metterò una razione nel caffè della maestra”.

Di quanta polvere coccolona avremmo bisogno anche noi?

Brano tratto dal libro “Novena di Natale per i bambini.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

La matematica ed i numeri binari

La matematica ed i numeri binari

Alberto, uno studente al primo anno del liceo scientifico, un giorno rientrò a casa con un due in matematica.
La madre si accorse del pessimo risultato e chiese, allarmata, spiegazioni.

Alberto fu pronto a giustificarsi e argomentò:

“Il professore di matematica si è un po’ distratto e deve aver usato, per la mia valutazione, il sistema binario, dove il dieci è rappresentato dal due.
Tu sei ancora legata, romanticamente, al dieci della smorfia napoletana, che vuol dire soldi sognati!”

La madre, che spiccava per intelligenza pur essendo una casalinga, lo prese in contropiede e replicò:

“A proposito di soldi, per questa volta ti consiglio di non dire niente a tuo padre dello stupefacente voto che hai preso in matematica, poiché anche lui userebbe il sistema numerico binario e, pur essendo un operaio a cottimo, ti darebbe due euro al posto di dieci!”

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Il monaco, il predone ed il mercante

Il monaco, il predone ed il mercante

C’era una volta un monaco.
Un piccolo monaco che viveva da solo in una modesta e minuscola capanna nel deserto.
Passava il tempo pregando e per guadagnare da vivere fabbricava cestini e cappelli intrecciando foglie di palma.
Molta gente veniva dalla città e gli sottoponeva i suoi problemi e lui cercava di aiutarli e confortarli.
Il piccolo monaco indossava un vestito di tela grezza, mangiava pane e acqua e non possedeva proprio niente eccetto un libro speciale, che era il suo tesoro e che leggeva ogni giorno.
Un giorno, un predone entrò come una furia nella capanna del monaco.
Un predone truce e cattivo.
Con una folta barba scarmigliata e un’affilata e minacciosa spada.

“Dammi il tuo tesoro!” sbraitò.

Il piccolo monaco gli consegnò il libro prezioso, nonché unico, e stette tristemente a guardare il predone che se andava.
Quando il predone arrivò alla città, si precipitò nella bottega di un mercante e senza tanti preamboli gli chiese il valore di quel libro straordinario.
“Ma io non so niente di libri!” si lamentò il mercante.
“Io ho bisogno di soldi!
Tanti!
Dimmi quanto vale questo librò e io lo venderò!” gridò il predone.
“Non lo so proprio” pigolò il mercante, sfogliando il libro, “Ma conosco qualcuno che se ne intende, un vero esperto.
Lasciami il libro per un giorno o due e glielo chiederò!”
“D’accordo!” grugnì il predone, sguainando la spada, “Tornerò qui tra due giorni.
Fa’ in modo che il libro sia qui, quando tornerò!”
Quella sera, dopo la chiusura della bottega, il mercante montò sul suo mulo e lo spronò nel deserto.
Cavalcò per chilometri finché giunse alla piccola capanna e incontrò il piccolo monaco.
“Ho un libro!” gli spiegò, “Un tipo grande e grosso con una folta barba è venuto da me.

Vuole venderlo.

Mi puoi dire quanto vale?”
Trasse il libro dalla borsa e lo mostrò al monaco.
Il piccolo monaco fissò il libro.
Non avrebbe mai immaginato di rivedere così presto il suo tesoro.
Ma non gridò:
“È mio!” ne puntò il dito contro il mercante dicendo:
“Quell’uomo è un ladro!”
No.
Tutto quello che disse fu:
“Questo è un libro di grandissimo valore.
Vale almeno lo stipendio di un anno!”
Il mercante si accomiatò e ritornò in città.
Quando il predone si presentò aveva l’aria più spietata che mai.
“Allora dimmi,” brontolò, “quanto vale il mio libro?”
“Parecchio!” sorrise il mercante. “Almeno lo stipendio di un anno!”
L’umore del bandito cambiò un po’.
“Magnifico!” ghignò, “E come fai ad esserne così sicuro?”
“È stato facile!” spiegò il mercante, “C’è un piccolo monaco che vive nel deserto in una piccola capanna.
Lui conosce tutto di queste cose.
Gli ho portato il libro e gliel’ho mostrato!”

L’umore del bandito cambiò del tutto.

“Un piccolo monaco?
Nel deserto?” balbettò.
“Proprio così!” rispose il mercante.
“E gli hai detto chi voleva vendere il libro?” domandò il predone.
“Un uomo grande e grosso con una folta barba: questo gli ho detto!” replicò il mercante.
“E il monaco non ha detto niente del libro?
Niente di me?” chiese, allora, il predone.
“Niente.
Perché?” replicò il mercante.

“Così!” mentì il predone, “Tanto per dire.”

Poi afferrò il libro e lasciò la bottega in fretta e furia.
Salì sul suo cavallo e ritornò nel deserto.
Cavalcò e cavalcò fino alla piccola capanna.
“Che cosa significa?” sbraitò entrando come una raffica di vento nella capanna, “Avresti potuto denunciarmi e mi avrebbero arrestato.
Perché non hai detto niente?”
“Perché ti avevo già perdonato!” rispose il monaco.
“Perdonato me?” gridò il predone, “Perdonato?”
La sua voce si smorzò.
“Nessuno mi ha mai perdonato!” quasi sussurrò.
“Mi hanno odiato, cacciato, inseguito, esiliato, condannato.
Ma perdonato, mai!”
In quel momento qualcosa mutò nel cuore del predone grande e grosso.

Estrasse il libro dal suo sacco e lo porse al monaco:

“È tuo!”
Il piccolo monaco sorrise e ringraziò il bandito.
Poi lo invitò a fermarsi nella capanna per imparare qualcosa di più sul perdono e la pace nel cuore.
Non molto tempo dopo, il predone si fece monaco, un monaco grande e grosso con una folta barba, felice di dividere con gli altri il poco che aveva.

Brano tratto dal libro “Tante storie per parlare di Dio.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

I tre cugini e l’eredità

I tre cugini e l’eredità

Tre vignaioli avevano in comune, oltre che una lontana parentela, anche tre appezzamenti di terra pianeggiante pressoché uguali, per estensione e forma, frutto di un’eredità.
Facevano parte di un immenso terreno appartenente ad uno stesso avo, il quale aveva equamente diviso lo stesso ai rispettivi figli, tanti anni prima.

Zolle molto ambite nella fertile e vocata terra di produzione del mitico vino Prosecco.

Terra dalle molte ed ataviche tentazioni di possesso, con confini che si concordavano faticosamente di giorno e si spostavano di notte, come i nanetti da giardino, a seconda delle fasi lunari.
Due dei tre proprietari portavano avanti un contenzioso legale da molto tempo per la definizione dei rispettivi confini.

I geometri a cui si erano rivolti, usavano due diversi tipi di catasto (mappa e registro dei terreni).

Uno usava quello Napoleonico (1807-1816) e l’altro quello Austriaco (1807-1852), in auge in Veneto in quel periodo.
Un’alternanza dettata dalla convenienza, rimandando all’infinito il contenzioso, con la motivazione, non tanto segreta, che avevano figli da mantenere all’università con conseguenti laute parcelle da riscuotere.
Insistevano anche con il terzo, affinché partecipasse alla disputa per i confini, ma questo, essendo saggio, alla maniera di re Salomone, sentenziò:

“Se in origine le parti erano uguali,

per verificare i confini basta tirare un semplice spago di recupero e fare due nodi equidistanti per definire le tre parti, una stretta di mano per finirla per sempre e un brindisi conciliatore!”
Alcune volte, la vita, vuoi per ignoranza e/o per avarizia, è un cinema che costa caro!

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

La storia dello scemo del paese

La storia dello scemo del paese

In un paesino un gruppo di persone si divertiva con un uomo, noto come lo “scemo del paese”, un povero cristo che viveva svolgendo piccoli lavori e di elemosina.
Ogni giorno queste persone incontrando lo “scemo” al bar si divertivano, dandogli la possibilità di scegliere tra due monete,

una da 1 e una da 2 euro, e una banconota da 5 euro e lui,

puntualmente, sceglieva sempre le due monete anziché la banconota e ciò, è inutile dirlo, era motivo di derisione.
Un giorno, un signore che guardava il gruppo divertirsi alle spalle del povero uomo, lo chiamò in disparte e gli fece notare che è vero che prendeva due monete ma che le stesse insieme valevano meno della singola banconota, a questo punto lo “scemo” rispose:
“Signore, lo so bene!

Non sono così scemo.

La banconota vale due euro in più, ma il giorno in cui la sceglierò, il gioco finirà e non “vincerò” più 3 euro al giorno.”

Ciò che conta non è quello che gli altri pensano di te, ma quello che tu pensi di te stesso.
Perché, guardate, il vero intelligente non è colui che sembra esserlo ma colui che lo dimostra.

Brano senza Autore