Peppino e la torre maledetta

Peppino e la torre maledetta

C’era una volta un villaggio costruito in una valle lunga e stretta, in mezzo a montagne alte e rocciose, che si spalancavano qua e là in distese di prati e di pascoli.
Gli abitanti del villaggio erano moderatamente soddisfatti:
le loro mucche e le loro pecore erano ben pasciute, latte e formaggio si vendevano bene, anche se il mercato era lontano.
Ma sulla loro felicità aleggiava un’ombra nera.
L’ombra nera della Torre Maledetta.
La Torre Maledetta era una ruvida formazione rocciosa che chiudeva la valle e incombeva sul villaggio impedendogli di essere illuminato dal sole, se non pochi minuti all’alba e altrettanto pochi al tramonto.
Per il resto del giorno il sole illuminava solo i fianchi più alti della valle.
Così il villaggio passava la sua giornata all’ombra.

Per colpa della Torre Maledetta.

A Peppino, un giovane dall’aria sveglia e dal carattere aperto e deciso, la cosa non andava proprio giù.
Gli sarebbe tanto piaciuto avere un giardino davanti alla casa, con i fiori e un ciliegio e due albicocchi e un melo.
Ma non sbocciavano fiori nel villaggio, né ortaggi, perché c’era troppo poco sole.
Chi voleva un orto doveva andare a coltivarlo lontano dal villaggio.
Per questo molti andavano ad abitare altrove e, piano piano, il villaggio perdeva abitanti.
Il villaggio rischiava di morire per colpa della Torre Maledetta.
Era l’unica cosa che riusciva a guastare il buonumore di Peppino.
Ogni mattino, mentre si stirava sul balcone della sua camera e si lasciava accarezzare dai raggi del sole, prima che fossero inghiottiti dall’ombra, fissava la superba roccia nera con gli occhi che mandavano lampi di dispetto.
“Accidenti, accidentaccio.” Brontolava, “Un villaggio senza fiori, senza farfalle e senza canzoni è un villaggio senza bambini, un villaggio che muore…”
Girava gli occhi sui tetti d’ardesia che avevano riflessi d’argento e sui camini che con il loro fumo facevano propaganda alla fragrante polenta che borbottava nei paioli di rame, pensava agli abitanti che conosceva tutti per nome, cognome e soprannome e si diceva:
“Devo assolutamente fare qualcosa…
Sono il più giovane del villaggio e quindi tocca a me!”
Un mattino, appena il sole si nascose dietro la parete nera della Torre prese la decisione.
Si mise sulle spalle il piccone nuovo che aveva comprato alla fiera e si incamminò, con passo risoluto verso la montagna.

“Dove vai?” gli chiese la mamma.

“Vado a buttare giù la Torre Maledetta!” rispose semplicemente Peppino.
“Ma cosa dici?
Sei diventato matto?
Non ce la farai mai!”
“Qualcuno deve incominciare una buona volta!” ribadì caparbio.
Arrivato ai piedi della Torre, alzò lo sguardo verso l’immensa parete scura che incombeva su di lui con un vago senso di minaccia.
“A noi due!” disse Peppino.
Gli rispose un rombo cupo, come una grassa risata sussultante, che terminò nel sibilo maligno del vento.
“Comincerò dall’alto.” si disse e cominciò a salire.
La vetta della Torre aveva qualche chiazza di neve, ma Peppino non degnò di uno sguardo il panorama.
Alzò il piccone e lo abbatté con tutte le sue forze contro la roccia.
“Tò, beccati questo!”
Con un po’ di sorpresa, si accorse che il suo colpo di piccone aveva staccato un grosso blocco di pietra che lentamente rotolò giù dalla vetta, trascinandosi dietro un corteo di sassi più piccoli.
“Allora si può!” esultò.

Moltiplicò i colpi, con rabbia, con gioia.

“Aprirò la strada al sole!”
Dopo qualche ora si buttò a terra, sudato, spossato.
E guardò il risultato della sua opera.
Aveva buttato giù un bel po’ di sassi, ma non aveva abbassato la Torre neanche di un millimetro. “Dovessi impiegarci tutta la vita ce la farò!” si disse.
Ma gli sembrò di riudire il rombo sussultante che era la risata di scherno della Torre.
Si rialzò e riprese a picchiare con il piccone.
“Beccati questo!
E anche questo!” gridava sbrecciando, scheggiando, frantumando le rocce della vetta.
Passò quel giorno e quello dopo.
Così per un mese.
Ogni mattina, Peppino rinnovava la sua sfida alla Torre Maledetta.
Ma il risultato non era granché: l’immane picco sembrava più alto e saldo che mai.
“Lascia perdere!” gli dicevano i concittadini, che cominciavano a crederlo un po’ matto, “Tanto ci siamo abituati.”
Scuotendo la testa, Peppino insisteva:
“Farò arrivare il sole sul vostro balcone tutto il giorno…
E sbocceranno i fiori nella piazza.”

Tornava lassù e ricominciava a picconare.

Dopo qualche mese, il «pic… pic…» del suo piccone divenne un rumore familiare per le pecore e le mucche degli alti pascoli.
Ma era così grande e solida quella roccia…
Un mattino, però, successe una cosa straordinaria.
Peppino stava spingendo giù dalla Torre un grosso masso che aveva appena staccato, quando udì chiaramente una vocina che lo chiamava:
“Peppino, Peppino!”
Si guardò intorno sorpreso.
La voce riprese a chiamare.
La cosa più strana era che la voce proveniva da dentro la montagna.
“Dove sei?” chiese Peppino.
“Qui, sotto i tuoi piedi, dentro la roccia!” rispose la vocina.
Peppino si inginocchiò e scrutò con attenzione nel buco lasciato dal masso.
Sul fondo si apriva una fessura e, dentro la fessura, piccola piccola si agitava una manina bianca. “Liberami!” implorò la vocina.
Impugnò il piccone e in poco tempo scavò fino ad arrivare alla mano, poi continuò con attenzione e infine si trovò davanti una bambina dagli occhi color lago alpino e vestito color spuma di torrente.
“Grazie!” disse la bambina, mentre Peppino la guardava con l’aria stralunata.
“Sono la fata delle sorgenti, ma il maligno architetto della Torre mi ha imprigionata.
Ma ora che mi hai liberata, il tuo desiderio si avvererà!”

“E come farai?

Sei così piccola e fragile!” chiese Peppino.
“Con la pazienza, un po’ di tempo e la forza dell’acqua!” sorrise la fatina.
Alzò la mano, come fosse il cenno di attacco di un direttore d’orchestra.
Mille gorgoglii, saltelli, risate, sciacquii riempirono l’aria.
Mille sorgenti sbocciarono sulla Torre Maledetta.
Piccole all’inizio, si riunirono a formare ruscelli, torrenti, cascate.
E ognuno di essi incideva, smerigliava, scavava, trasportava a valle ghiaia, sassi, detriti.
“Stanno facendo a pezzi la Maledetta!” gridò Peppino e fece volare in aria il cappello.
Voleva ringraziare la fata delle sorgenti, ma quella non c’era più.
Corse a dare la notizia al villaggio, che adesso era fiancheggiato da un torrente giovane e forte che scendeva dalla Torre Maledetta.
Oggi quel villaggio è inondato dal sole dal mattino alla sera, ed è pieno di fiori, farfalle e bambini.
Al posto della Torre c’è una serie di piccole rocce smozzicate, coperte dal muschio e dai cespugli.
Ci vanno i vecchietti a cercare i funghi.

Brano tratto dal libro “Storie belle e buone.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi

Il massaggio e l’acqua di petali rosa

Il massaggio e l’acqua di petali rosa

Si chiamava “Bella come l’aurora” e viveva serenamente in un piccolo villaggio di pescatori sulle rive del Fiume Azzurro.
Fu chiesta in moglie dal più ricco dei pescatori del fiume.
I primi anni della giovane coppia furono veramente felici e spensierati.
Ma tutta quella felicità infastidiva e irritava sempre di più la suocera di Katy, che era stata rapidamente spodestata dal cuore del figlio, dei familiari e dei servi dalla bella nuora.
Così cominciò a tormentarla in ogni modo ed a diffondere le più orribili dicerie sul suo conto.
Esasperata, la bella Katy decise di vendicarsi uccidendo la suocera.

In preda a questa cupa decisione, si recò da uno stregone per procurarsi un filtro di morte.

Lo stregone l’ascoltò attentamente e poi le diede una fiala che conteneva un liquido rosa da mescolare ogni giorno nel tè della suocera, poi le propose, per stornare da sé ogni sospetto, di praticare ogni mattino sulle spalle, la nuca e la fronte della suocera un massaggio dolce e rilassante:
“In questo modo la morte la sorprenderà lentamente nel giro di sei mesi!”
Katy paziente e ostinata, per mesi versò regolarmente gocce di liquido rosa nel tè della suocera e praticò con la stessa pazienza il dolce massaggio ogni giorno.
Il massaggio quotidiano tesseva una rete nuova tra le due donne, che divennero amiche.

Il loro cuore cambiò.

La suocera notò quanto la nuora fosse gentile e generosa oltre che bella.
Katy riscopriva ogni giorno il cuore materno della suocera.
Dopo qualche mese, Katy aveva praticamente dimenticato il motivo delle quotidiane visite, delle gocce di liquido rosa nel tè e del massaggio alla suocera:
tutto questo era diventato una tranquilla e piacevole abitudine, fatta di complicità, di lunghe chiacchierate e di tenerezza.
Ma un giorno, all’improvviso, fu costretta a ricordarsene.
La suocera innocentemente disse:
“Stiamo bene insieme.
Che peccato che io debba morire molto prima di te…”.
Katy si alzò e corse dallo stregone per avere l’antidoto al veleno della fiala.
Si gettò in ginocchio e lo supplicò, spiegandogli quello che era successo e come fosse cambiato il suo cuore.

Lo stregone sorrise:

“Alzati, mia bella figliola.
Il liquido che ti ho dato è soltanto acqua di petali di rosa.
Il vero antidoto al veleno dell’odio, che in realtà era dentro di te, è stato il massaggio quotidiano.
Se guardi una persona negli occhi, le stai vicino, parli con lei non potrai più odiarla!”

Brano senza Autore

L’importanza del pane

L’importanza del pane

C’era una volta un piccolo paesino che si chiamava “Casa” perché tutti gli abitanti erano cordiali, rispettosi, accoglienti e molto familiari con chiunque passasse da quelle parti.
Sicché, chiunque giungeva in quel paesino poteva realmente dire:

“Mi sento a casa!”

A “Casa” vi era un fornaio che possedeva l’unico forno della zona e che perciò forniva il pane a tutti gli abitanti del paese e dei dintorni.
Quel pane era uno dei segreti dell’accoglienza dei cittadini di “Casa.”
Infatti, era il pane più delizioso e più buono che si potesse ma assaggiare; tanto soffice da essere facilmente condivisibile con tutti.
Era consuetudine per i cittadini, infatti, quella di spezzare un pezzo di pane con le persone estranee che passavano di là, come segno di condivisione e familiarità.
Anche la gente era diventata come quel pane:
soffice, morbida e sempre disposta a spezzarsi per gli altri.
Un giorno, però, il fornaio si ammalò e non poté più impastare e distribuire quel pane delizioso.

In seguito anche la gente di “Casa” iniziò ad ammalarsi.

Infatti, essendo il pane l’alimento principale di Casa e non potendone mangiare, molti si indebolirono.
Anche la gente che passava dal paesino, non trovando più nessuno che condividesse il proprio pane, restava delusa perché non si sentiva più come a casa propria.
Era verso sera quando un giovane, molto affezionato al fornaio, decise di andarlo a trovare e di raccontargli tutto ciò che stava accadendo.
Dopo averlo ascoltato, il fornaio di “Casa” gli disse:
“Voi avete la farina, avete l’acqua, il lievito, il sale, avete il forno… avete tutto il necessario per fare il pane!”

Poi aggiunse:

“Il segreto di un buon pane è metterci tanta buona volontà e tanto amore!”
Così il giovane andò via con quelle parole nella testa e con la speranza nel cuore.
Il mattino seguente, allo spuntare di un limpido sole, la gente di “Casa” si svegliò con uno squisito profumo di pane caldo.
Tutti, usciti dalle proprie case, si riversarono nel forno per vedere che cosa stesse accadendo e lì trovarono quel giovane che riferì le parole dell’anziano fornaio.
Da quel giorno a “Casa” non mancò mai più il pane perché tutti gli abitanti impararono a farlo con amore e tanta buona volontà, facendo dei turni nel forno del paese.
Come una volta, da quel giorno, chiunque passò da “Casa” si sentì in famiglia perché incontrò sempre qualcuno pronto a condividere del buon pane con lui.

Brano tratto dal libro “Nove Vie in Betlemme.” di Angelo Valente

L’ago perduto

L’ago perduto

In Veneto, fino alla fine degli anni 60, era usanza comune fare una veglia serale, chiamata filò.
Il filò era un vero e proprio rito comunitario, ed il nome, probabilmente, era derivato dal filare la lana o dal tenere il filo del discorso.
Una sera d’estate, la stalla in cui si svolgeva questo evento era particolarmente affollata.

Le ragazze erano affaccendate a ricamare corredi mentre le signore più anziane erano intente a rammendare capi di vestiario.

Gli uomini, invece, mentre confabulavano tra loro del più e del meno, riparavano piccoli attrezzi.
Durante la serata, una giovane di nome Teresa, notando l’arrivo del fidanzatino, si distrasse e non ritrovò più l’ago da ricamo, scatenando il panico tra i partecipanti.
Perdere l’ago, secondo la credenza popolare, portava sfortuna e perderlo in una stalla portava ancora più sfortuna, poiché una mucca avrebbe potuto ingoiarlo provocandone, con la perforazione, una peritonite con esito fatale.

Fu accesa un’altra lampada a petrolio e tutti iniziarono a cercare il benedetto ago.

Il vecchio padrone di casa si mise a imprecare contro Teresa come se fosse cascato il mondo, facendola vergognare.
In questo clima surreale, le donne presenti decisero di creare ancor più tensione, iniziando a recitare i sequeri (forma di preghiera popolare cristiana, che la tradizione consiglia per recuperare le cose perdute) in latino.
Giulia, la mia meravigliosa nonna, vista la situazione, interpretò i sequeri a modo suo e, facendo finta di raccoglierlo per terra, mostrò il suo ago ai presenti esclamando:

“Ecco l’ago perso!”

Questo fu sufficiente per far tornare l’armonia in quell’assemblea e, le ombre da molto mosse si chetarono, per far sì che nell’angolo più buio della stalla, i fidanzatini potessero darsi un bacio rubato.
Solo qualche istante dopo Teresa si accorse che il suo l’ago lo aveva avuto, da sempre, appuntato al petto.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

L’imperatore e la futura imperatrice

L’imperatore e la futura imperatrice

Quando l’imperatore morì, il giovane principe si preparò, con un po’ di apprensione, a prenderne il posto.
Il precettore saggio ed anziano gli disse:
“Hai bisogno di un aiuto, subito.

Prima di salire sul trono scegli la futura imperatrice, ma fa’ attenzione:

deve essere una fanciulla di cui puoi fidarti ciecamente.
Invita tutte le fanciulle che desiderano diventare imperatrice, poi ti spiegherò io come trovare la più degna.”
La più giovane delle sguattere della cucina reale, segretamente innamorata del principe, decise di partecipare.
“So che non verrò mai scelta, tuttavia è la mia unica opportunità di stare accanto al principe almeno per alcuni istanti, e già questo mi rende felice.” pensava.
La sera dell’udienza, c’erano tutte le più belle fanciulle della regione, con gli abiti più sfarzosi, i gioielli più ricchi.

Circondato dalla corte, il principe annunciò i termini della competizione:

“Darò un seme a ciascuna di voi.
Colei che mi porterà il fiore più bello, entro sei mesi, sarà la futura imperatrice.”
Quando venne il suo turno, la fanciulla prese il seme, un minuscolo granello scuro e lo portò a casa avvolto nel fazzoletto.
Lo interrò con cura in un vaso pieno di ottima terra soffice e umida.
Non era particolarmente versata nell’arte del giardinaggio, ma riservava alla sua piccola coltivazione un’enorme pazienza e un’infinita tenerezza.
Ogni mattina spiava con ansia la terra scura, in cui sperava di veder spuntare lo sperato germoglio.
I sei mesi trascorsero, ma nel suo vaso non sbocciò nulla.
Arrivò il giorno dell’udienza.
Quando raggiunse il palazzo con il suo vasetto pieno solo di terra e senza pianta, la fanciulla vide che tutte le altre pretendenti avevano ottenuto buoni risultati.
Il principe entrò e osservò ogni ragazza con grande meticolosità e attenzione.

Passò davanti ad ognuna.

I fiori erano davvero splendidi.
Guardò anche la sguattera che non osava alzare gli occhi e quasi nascondeva il suo vasetto mestamente vuoto.
Dopo averle esaminate tutte, il principe si fermò al centro del salone e annunciò il risultato della gara:
“La nuova imperatrice, mia sposa, è questa fanciulla.”
Quasi si sentiva, nel silenzio profondo, il battito all’unisono di tutti i cuori.
Senza esitazione il principe prese per mano la giovane sguattera.
Poi chiarì la ragione di quella scelta.
“Questa fanciulla è stata l’unica ad aver coltivato il fiore che l’ha resa degna di diventare un’imperatrice:
il fiore dell’onestà.
Tutti i semi che vi ho consegnato erano solo granelli di legno dipinto, e da essi non sarebbe mai potuto nascere nulla!”

Brano tratto dal libro “I fiori semplicemente fioriscono” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

La bibbia nel muro

La bibbia nel muro

Il 10 maggio 1861, un violento incendio devastò la città di Glaris, in Svizzera:
490 case furono inghiottite dal fuoco.
I cittadini decisero di ricostruire le loro case.
In uno dei numerosi cantieri che si aprirono in città lavorava un giovane muratore venuto dal Nord Italia, di nome Giovanni.
Il giovane fu incaricato di esaminare lo stato di un muro lesionato.
Cominciò a battere con un martello quando un pezzo di intonaco si staccò, e lasciò intravedere un libro che era stato inserito al posto di un mattone.

Un grosso volume che era stato murato.

Incuriosito, Giovanni lo estrasse.
Era una Bibbia.
Qualcuno l’aveva messa là di proposito, forse uno scherzo…
Il giovane muratore non aveva mai avuto molto interesse per le questioni religiose, ma durante la pausa del pranzo cominciò a leggere quel libro.
Continuò alla sera, a casa, e per tante altre sere.
A poco a poco scoprì le parole che Dio aveva indirizzato agli uomini.

E lentamente la sua vita cambiò.

Due anni dopo, l’impresa in cui Giovanni lavorava si trasferì a Milano.
Il cantiere era molto vasto e gli operai condividevano alcune camerette.
Una sera un compagno di stanza di Giovanni si fermò incuriosito ad osservare il giovane che leggeva con aria assorta e tranquilla la sua Bibbia.
“Che cosa leggi?” gli chiese.
“La Bibbia!” rispose Giovanni.
“Uff! Come fai a credere a tutte quelle scemenze?
Pensa che io, una volta, ne ho murata una nella parete di una casa in Svizzera.
Sarei curioso di vedere se il diavolo o chi per esso è riuscito a farla uscire da là!”
Giovanni alzò la testa di scatto e guardò negli occhi il suo compagno.
“E se io ti facessi vedere proprio quella Bibbia?” disse semplicemente.
“La riconoscerei subito, perché l’avevo segnata!” rispose il compagno.

Giovanni porse al compagno il volume che stringeva in mano:

“Riconosci il tuo segno?”
L’altro prese in mano il libro, aprì la pagina e rimase turbato, in silenzio.
Quella era proprio la Bibbia che aveva murato in Svizzera, dicendo ai compagni di lavoro:
“Voglio proprio vedere se uscirà da qui sotto!”
Giovanni sorrise:
“Come vedi è tornata da te!”

Esistono libri che cambiano gli uomini.
Esistono uomini che impegnano tutta la loro esistenza sulle parole di un libro.
La Bibbia è per eccellenza il libro che cambia gli uomini che lasciano entrare le sue parole nella loro vita.

Brano tratto dal libro “Nuove storie. Per la scuola e la catechesi” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Al catechismo

Al catechismo

Una catechista aveva raccontato ai suoi ragazzi del catechismo la parabola del figliol prodigo, ma si era accorta che dopo un po’ molti si erano distratti.
Allora aveva chiesto che gliene scrivessero il riassunto.

Uno di loro scrisse:

“Un uomo aveva due figli, quello più giovane però non viveva volentieri a casa, e un giorno se ne andò via lontano, portandosi con sé tutti i soldi.
Ma ad un certo punto quei soldi finirono e allora il ragazzo decise di tornare a casa perché non aveva neanche da mangiare.
Quando stava per arrivare, suo padre lo vide e tutto contento prese un bel bastone e gli corse incontro.

Per strada incontrò l’altro figlio, quello buono,

che gli chiese dove stava andando così di corsa e con quell’arnese.
“È tornato quel disgraziato di tuo fratello; dopo quel che ha fatto si merita un bel po’ di botte!”
“Vuoi che ti aiuti anch’io, papà?”

“Certo!” rispose il padre.

E così, in due, lo riempirono di bastonate.
Alla fine il padre chiamò un servo e gli disse di uccidere il vitello più grasso e di fare una grande festa, perché s’era finalmente tolto la voglia di suonargliele a quel figlio che gliel’aveva combinata proprio grossa!”

Brano tratto dal libro “Solo il vento lo sa.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

La gatta innamorata di un giovane

La gatta innamorata di un giovane

C’era una volta una gatta che bruciava d’amore per un giovane.
Era tanto innamorata che chiese aiuto ad una fata perché la trasformasse in una donna molto bella, capace di conquistare il giovane.

La fata l’accontentò e la gatta assunse l’aspetto di donna.

Conobbe il giovane e ben presto iniziarono i preparativi per il matrimonio.
Venne il giorno delle nozze, che furono celebrate tra canti e danze e girotondi.

Molte luci illuminavano la festa e agli invitati venivano offerti cibi squi­siti.

Tutto andava per il meglio.
Ma ecco che d’un tratto la sposa vide correre via un sorcetto, e immediatamente si lanciò a rincorrerlo.

Brano tratto dal libro “365 piccole storie per l’anima.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

La bacchetta della maestra Pia

La bacchetta della maestra Pia

Una volta la scuola primaria era molto diversa da quella odierna.
Alcuni insegnanti usavano metodi didattici molto discutibili, oggi da codice penale.
Colpivano con una bacchetta le mani degli alunni che avevano errato nello scrivere o che copiavano da altri.

In alternativa gli alunni venivano fatti inginocchiare in castigo dietro la lavagna

o venivano obbligati ad indossare delle orecchie da asino di carta.
Un giorno, in classe arrivò una giovane maestra supplente che si fece apprezzare subito dai ragazzi per la sua solarità e per la competenza didattica.
Dopo i saluti di rito, per prima cosa prese la bacchetta di legno da sopra la scrivania e la spezzò in varie parti, facendo gioire i ragazzi che la temevano.

Domandò:

“Chi ha portato in classe questo strumento di tortura?”
Dall’ultimo banco si alzò la mano dell’allievo più robusto, solo perché ripetente, che con orgoglio disse:
“Sono stato io su richiesta della nostra maestra Pia!”
La supplente sorrise ed aggiunse:
“Scommetto che questa bacchetta è stata usata maggiormente con te.
Certamente non è stata pia nei tuoi riguardi e non occorre che guardi il registro!”

Lo scolaro chiese:

“Come fa a saperlo?”
La risposta dell’insegnante fu:
“Perché sei il meno furbo di tutti.
Hai portato a scuola lo strumento che ti punisce ed addirittura ne sei fiero.
Fino a quando io sarò in questa classe userò il metodo Montessori che non prevede bacchettate.
Questo metodo vi farà amare di più la scuola e le sue materie, ed arriveremo al punto che le vacanze vi annoieranno!”

Ricordi, ricordi di un tempo passato, oggi nuovamente attuali.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Il vecchio ed il sorriso

Il vecchio ed il sorriso

Un vecchio decise che, per un giorno almeno, avrebbe sorriso alla vita; e lo avrebbe fatto in modo concretissimo, dispensando il suo sorriso a tutti.
La sera prima, infatti, aveva letto una frase che lo aveva molto colpito:
“Se non sorridi tu agli altri, come puoi pretendere che gli altri sorridano a te?”
Uscendo di casa, il primo che incontrò fu un cane.

Gli sorrise e ne ebbe un vivace contraccambio:

la bestiola agitò festosamente la coda.
La seconda persona che incontrò fu un bambino.
Il vecchio gli sorrise e il bimbo rimase a guardarlo con occhi spalancati.
“Forse,” pensò il vecchio, “i bimbi d’oggi sorridono così!”
Incontrò poi una giovane donna che, al suo sorriso, volse decisa lo sguardo dall’altra parte.

“Sempre così le donne,” pensò il vecchio,

“dietro un sorriso vedono chissà cosa…”
S’imbatté poi in un gruppo di uomini che stavano discutendo.
Sorrise loro e notò che si guardavano gli uni gli altri facendo strani gesti con la mano.
“Mi hanno preso per un vecchio scemo!” pensò l’anziano pentendosi del suo proposito.
E fu così che, quando vide un vecchio come lui uscir di casa, non gli sorrise affatto.

“Figurarsi se i vecchi rispondono a un sorriso…” pensò.

Rimase invece stupefatto quando costui gli fece un sorriso largo come il sole.
Al sorriso non rispose, e fece male.
Non poteva sapere che quel vecchio si era proposto, proprio come lui, che quel giorno avrebbe sorriso alla vita; e ignorava che, diversamente da lui, aveva avuto in sorte, uscendo di casa, d’incontrare non un cane, ma un vecchio.

Brano senza Autore.