Racconti di amori e di esperienze giovanili

Racconti di amori e di esperienze giovanili

Durante gli anni settanta, quando in Italia il servizio militare per i ragazzi era ancora obbligatorio, all’alba dei miei vent’anni, anche io fui convocato per svolgerlo.
In caserma c’era un clima di sano cameratismo.

Tutti i ragazzi in divisa venivano rapati quasi a zero.

Nel mondo esterno invece, in seguito al movimento del sessantotto, si affermava la moda di essere capelloni e suonare la chitarra.
I giovani soffrivano in silenzio per la lontananza da casa e dagli affetti più cari, ricordando, ancora e chiaramente, la rivoluzione sessantottina.
Nei momenti liberi, noi giovani reclute, affrontavamo ogni genere di discussione.
Trattavamo argomenti vari e articolati ma, alla fine, i nostri discorsi riguardavano sempre le ragazze.

Anche le ragazze, in quel periodo, portavano avanti le loro rivoluzioni:

volevano poter indossare la minigonna e volevano potersi emancipare maggiormente.
Qualcuno di noi raccontava del primo bacio, qualcun altro narrava di essere andato oltre, pochi altri affermavano di essere fidanzati.
In questi racconti, riguardanti le avventure personali, però, si celava un misto di verità e fantasia.
Molti non avevano foto delle proprie amate e non ricevevano neanche posta da loro.
Del nostro gruppo faceva parte anche il commilitone Alfio, il quale, essendo timido, non apriva mai bocca.
Nonostante ciò, gli venne chiesto se avesse avuto anche lui esperienze con delle ragazze e, con gli occhi lucidi, esclamò:

“Con una trentina!”

Grande fu il nostro stupore, ma anche l’invidia, per l’alto numero di ragazze.
Quindi gli domandammo quale fosse la sua strategia di seduzione con il gentil sesso, ma anche i propri segreti.
Alfio, divenuto rosso, si corresse e specificò che l’esperienza avuta era unica.
Si sentiva con una ragazza di Trento per corrispondenza.
Tutti tirammo un sospiro di sollievo.
Le nostre avventure amorose erano salve e ancora degne di nota, anche perché nessuno riuscì mai a scoprire se le esperienze narrate fossero state vere o presunte.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Il riflesso della luce

Il riflesso della luce

Uno specchio finì in tanti minuscoli frammenti.
Tutti si ritrovarono sparpagliati in un mucchio di rifiuti e naturalmente cominciarono a lagnarsi del loro crudele destino.
“Ahinoi!
Che fine infame!” si lamentava uno, “Eravamo il riflesso di volti graziosi e sorrisi attraenti.

Ora solo questo orribile ciarpame!

Chi ci spolvererà, adesso?
Chi ci laverà con il detersivo profumato?”
I pezzetti di specchio caddero in una profonda depressione.
Ma un giorno, la mano paffuta di un bambino afferrò uno dei frammenti di specchio e cominciò a giocare.

Catturò un po’ di sole e lo diresse in una fessura del muro.

Così scoprì che là viveva un minuscolo fiorellino azzurro.
Gli sembrò che tremasse di felicità.
Raccolse un altro raggio di sole e lo inviò nello scantinato buio dove lavorava Giovanni il calzolaio.
Giovanni sorrise.
Il bambino continuò fino a sera, incantato dalla possibilità di dirigere la luce riflessa negli angoli bui dove il sole non brillava mai:
buche profonde, crepacci, ripostigli.

A cena, quando il papà chiese al bambino:

“Che cosa hai fatto oggi?”
Il bambino rispose:
“Ho inventato un gioco bellissimo!”

Brano di Bruno Ferrero

Stai vicino al generale

Stai vicino al generale

Durante la prima guerra mondiale furono chiamati al fronte anche i giovanissimi appena diciottenni.
L’addio alle famiglie di questi soldatini era straziante.
Alla stazione di una grande città, genitori e amici si stringevano intorno ad un gruppo di soldati in partenza.

Tutti si abbracciavano piangendo:

molti si vedevano per l’ultima volta.
Un uomo stringeva la mano del suo ragazzo e cercava invano di dirgli addio.
I suoi occhi erano pieni di lacrime.
Le mani gli tremavano e non riusciva a parlare.
Quello era il suo unico figlio, lo amava con tutte le sue forze.
Ma che cosa poteva dirgli?
Che cosa poteva riportarglielo a casa?
Il treno fischiò.
I soldati dovevano affrettarsi a salire in carrozza.
L’uomo desiderava raccomandare qualcosa a suo figlio.

Se lo strinse al petto e mormorò:

“Giovannino mio, Giovannino mio!
Non farti uccidere!”
I soldati erano sul treno che stava per partire.
La folla applaudiva e agitava le braccia in segno di saluto.
L’uomo, straziato, fissava il suo Giovanni che lo salutava dal finestrino.
Voleva ancora dirgli qualcosa.
Il treno incominciò a muoversi.

Il padre agitò il braccio.

Poi si aprì un varco tra la folla, si avvicinò al treno e gridò:
“Giovannino, ragazzo mio, stai vicino al generale!”

Brano senza Autore

La bibbia nel muro

La bibbia nel muro

Il 10 maggio 1861, un violento incendio devastò la città di Glaris, in Svizzera:
490 case furono inghiottite dal fuoco.
I cittadini decisero di ricostruire le loro case.
In uno dei numerosi cantieri che si aprirono in città lavorava un giovane muratore venuto dal Nord Italia, di nome Giovanni.
Il giovane fu incaricato di esaminare lo stato di un muro lesionato.
Cominciò a battere con un martello quando un pezzo di intonaco si staccò, e lasciò intravedere un libro che era stato inserito al posto di un mattone.

Un grosso volume che era stato murato.

Incuriosito, Giovanni lo estrasse.
Era una Bibbia.
Qualcuno l’aveva messa là di proposito, forse uno scherzo…
Il giovane muratore non aveva mai avuto molto interesse per le questioni religiose, ma durante la pausa del pranzo cominciò a leggere quel libro.
Continuò alla sera, a casa, e per tante altre sere.
A poco a poco scoprì le parole che Dio aveva indirizzato agli uomini.

E lentamente la sua vita cambiò.

Due anni dopo, l’impresa in cui Giovanni lavorava si trasferì a Milano.
Il cantiere era molto vasto e gli operai condividevano alcune camerette.
Una sera un compagno di stanza di Giovanni si fermò incuriosito ad osservare il giovane che leggeva con aria assorta e tranquilla la sua Bibbia.
“Che cosa leggi?” gli chiese.
“La Bibbia!” rispose Giovanni.
“Uff! Come fai a credere a tutte quelle scemenze?
Pensa che io, una volta, ne ho murata una nella parete di una casa in Svizzera.
Sarei curioso di vedere se il diavolo o chi per esso è riuscito a farla uscire da là!”
Giovanni alzò la testa di scatto e guardò negli occhi il suo compagno.
“E se io ti facessi vedere proprio quella Bibbia?” disse semplicemente.
“La riconoscerei subito, perché l’avevo segnata!” rispose il compagno.

Giovanni porse al compagno il volume che stringeva in mano:

“Riconosci il tuo segno?”
L’altro prese in mano il libro, aprì la pagina e rimase turbato, in silenzio.
Quella era proprio la Bibbia che aveva murato in Svizzera, dicendo ai compagni di lavoro:
“Voglio proprio vedere se uscirà da qui sotto!”
Giovanni sorrise:
“Come vedi è tornata da te!”

Esistono libri che cambiano gli uomini.
Esistono uomini che impegnano tutta la loro esistenza sulle parole di un libro.
La Bibbia è per eccellenza il libro che cambia gli uomini che lasciano entrare le sue parole nella loro vita.

Brano tratto dal libro “Nuove storie. Per la scuola e la catechesi” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Provvidenza e sale

Provvidenza e sale

Nei primi anni del 1900, un mezzadro di nome Giacomo, si era iscritto alle Leghe Bianche sorte in Veneto.
Le “Leghe Bianche” erano un sindacato del mondo rurale contadino di ispirazione Cattolica per il riscatto socio-economico della categoria contadina, che soffriva mali endemici come la malnutrizione e l’analfabetismo.
Il latifondista saputo che il suo contraente aveva aderito alla temuta lega, gli diede lo sfratto.

Sarebbe dovuto andare via entro San Martino.

Avvenne come ben descritto nel film di Ermanno Olmi, l’Albero degli Zoccoli.
Giacomo era disperato, aveva una famiglia e sei figli piccoli, e non sapeva dove sbattere la testa.
Desolato, stava seduto su un bordo di un canale con tristi pensieri, quando, improvvisamente, fu raggiunto dal parroco, che si fece spiegare l’angosciosa situazione e abbracciandolo gli disse:
“Giacomo, io sono un povero strumento della Divina Provvidenza, ed in questo caso posso aiutarti.
Se e solo se sarai sempre riconoscente a Questa e diventerai sale, facendo buone azioni di promozione umana, ti si sarà rassicurata polenta a sufficienza.

Però dovrai rispettare il riposo festivo.”

Gli indicò la possibilità di condurre un piccolo podere al margine del paese, al quale si dedicò con tutto se stesso lavorando sodo.
Riuscì anche a riscattarlo con il passare del tempo ed ebbe altri sei figli.
Non si dimenticò mai le parole del saggio sacerdote e della promessa che aveva fatto.
Diede alla chiesa due figli sacerdoti e due suore.
Amava dire che l’unica mezzadria che li piaceva era quella con nostro Signore.
Ai mendicanti, che trovavano ristoro nella sua casa, amava raccontare la sua esperienza e le raccomandazioni del prete.

A questi diceva:

“Io ti do cibo e vivande se saprai fare anche tu provvidenza con delle buone azioni!”
Fu chiamato da tutti con il soprannome di Sal (Sale in italiano) per i buoni consigli che dava, anche con l’esempio.
Per non dimenticare la promessa si faceva preparare la polenta super salata ed il resto quasi insipido.
Nessuno seppe mai se in questo stava il segreto della sua lunga vita.
Mio suocero, ultimo figlio di Giacomo, mi raccontava sempre la storia di suo padre, commuovendosi.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Le calze di Giovanni

Le calze di Giovanni

Nel XIX secolo, in una cittadina inglese, dopo mesi di lavoro, una schiera di muratori aveva terminato la costruzione di un’altissima ciminiera per una fabbrica.
L’ultimo operaio era sceso dalla vertiginosa impalcatura di legno.
L’intera popolazione della città era là per festeggiare l’evento e soprattutto per assistere alla caduta spettacolare dell’impalcatura.

Appena il castello di assi e travi crollò tra il frastuono,

la polvere, le risate e le grida della gente, con stupore si vide spuntare sulla sommità della ciminiera la testa di un muratore che aveva appena terminato il lavoro nel colletto interno.
La folla degli spettatori ammutolì di colpo e l’orrore cominciò a serpeggiare in mezzo a loro:
“Ci vorranno giorni per alzare un’altra impalcatura.
E fino ad allora quel muratore sarà morto di freddo, di sete o di fame!”
In mezzo alla gente c’era anche la mamma del muratore, che sembrava disperata.
Ma poi ad un tratto si fece largo ed arrivata sotto la ciminiera fece un segno al figlio e gridò: “Giovanni, togliti le calze!”

Un mormorio si diffuse:

“Poverina, il dolore le ha fatto perdere la ragione!”
Ma la donna insistette.
Per non preoccuparla oltre, Giovanni si tolse la calza.
La donna gridò di nuovo:
“Rovesciala e cerca il nodo, poi tira!”
L’uomo ubbidì e ben presto si trovò in mano una grossa manciata di lana.
“Fai lo stesso con l’altra e lega insieme i fili e poi buttane giù il capo.
E tieni l’altro ben saldo fra le dita!”

Giovanni eseguì.

Al filo di lana fu legato un filo di cotone che l’uomo tirò fino in cima.
Poi al filo di cotone fu attaccata una cordicella e alla cordicella una corda ed infine alla corda un robusto cavo.
Giovanni lo fissò saldamente alla ciminiera e scese in mezzo agli “Urrà” della gente.

La tua vita e la tua salvezza dipendono da cose piccole e fragili, che molto probabilmente già possiedi.
Basta pensarci.

Brano tratto dal libro “I fiori semplicemente fioriscono.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

O Dio! Fammi diventare come Giovanni!

O Dio! Fammi diventare come Giovanni!

In un centro di raccolta per barboni, un alcolizzato di nome Giovanni, considerato un ubriacone irrecuperabile, fu colpito dalla generosità dei volontari del centro e cambiò completamente.
Divenne la persona più servizievole che i collaboratori e i frequentatori del centro avessero mai conosciuto.

Giorno e notte, Giovanni si dava da fare instancabile.

Nessun lavoro era troppo umile per lui.
Sia che si trattasse di ripulire una stanza in cui qualche alcolizzato si era sentito male, o di strofinare i gabinetti insudiciati, Giovanni faceva quanto gli veniva chiesto col sorriso sulle labbra e con apparente gratitudine, perché aveva la possibilità di essere d’aiuto.
Si poteva contare su di lui quando c’era da dare da mangiare a uomini sfiniti dalla debolezza,

o quando bisognava spogliare e mettere a letto persone incapaci di farcela da sole.

Una sera, il cappellano del centro parlava alla solita folla seduta in silenzio nella sala e sottolineava la necessità di chiedere a Dio di cambiare.
Improvvisamente un uomo si alzò, percorse il corridoio fino all’altare, si buttò in ginocchio e cominciò a gridare:
“O Dio!
Fammi diventare come Giovanni!
Fammi diventare come Giovanni!”
Il cappellano si chinò verso di lui e gli disse:

“Figliolo, credo che sarebbe meglio chiedere:

Fammi diventare come Gesù!”
L’uomo guardò il cappellano con aria interrogativa e gli chiese:
“Perché, Gesù è come Giovanni?”

Brano tratto dal libro “Il segreto dei pesci rossi.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Il gelso, il bruco e la farfalla

Il gelso, il bruco e la farfalla

C’era una volta un gelso centenario, pieno di rughe e di saggezza, che ospitava una colonia di piccoli bruchi.
Erano bruchi onesti, laboriosi, di poche pretese.
Mangiavano, dormivano e, salvo qualche capatina al bar del penultimo ramo a destra, non facevano chiasso.
La vita scorreva monotona, ma serena e tranquilla.
Faceva eccezione il periodo delle elezioni, durante il quale i bruchi si scaldavano un po’ per le insanabili divergenze tra la destra, la sinistra e il centro.
I bruchi di destra sostenevano che si comincia a mangiare la foglia da destra, i bruchi di sinistra sostenevano il contrario, quelli di centro cominciano a mangiare dove capita.
Alle foglie naturalmente nessuno chiedeva mai un parere.
Tutti trovavano naturale che fossero fatte per essere rosicchiate.
Il buon vecchio gelso nutriva tutti e passava il tempo sonnecchiando, cullato dal rumore delle instancabili mandibole dei suoi ospiti.
Bruco Giovanni era tra tutti il più curioso, quello che con maggiore frequenza si fermava a parlare con il vecchio e saggio gelso.
“Sei veramente fortunato, vecchio mio!” diceva Giovanni al gelso, “Te ne stai tranquillo in ogni caso.
Sai che dopo l’estate verrà l’autunno, poi l’inverno, poi tutto ricomincerà.

Per noi la vita è così breve.

Un lampo, un rapido schioccar di mandibole e tutto è finito!”
Il gelso rideva e rideva, tossicchiando un po’:
“Giovanni, Giovanni, ti ho spiegato mille volte che non finirà così!
Diventerai una creatura stupenda, invidiata da tutti, ammirata…”
Giovanni agitava il testone e brontolava:
“Non la smetti mai di prendermi in giro.
Lo so bene che noi bruchi siamo detestati da tutti.
Facciamo ribrezzo.
Nessun poeta ci ha mai dedicato una poesia.
Tutto quello che dobbiamo fare è mangiare e ingrassare.
E basta!”
“Ma Giovanni,” chiese una volta il gelso, “tu non sogni mai?”
Il bruco arrossì.
“Qualche volta.” rispose timidamente.
“E che cosa sogni?” domandò il vecchio gelso.
“Gli angeli,” disse il bruco, “creature che volano, in un mondo stupendo.”
“E nel sogno sei uno di quelli?” continuò il saggio gelso.
“…Sì.” mormorò con un fil di voce il bruco Giovanni, arrossendo di nuovo.

Ancora una volta, il gelso scoppiò a ridere.

“Giovanni, voi bruchi siete le uniche creature i cui sogni si avverano e non ci credete!” esclamò il vecchio albero.
Qualche volta, il bruco Giovanni ne parlava con gli amici.
“Chi ti mette queste idee in testa?” brontolava Pierbruco, “Il tempo vola, non c’è niente dopo!
Niente di niente.
Si vive una volta sola:
mangia, bevi e divertiti più che puoi!”
“Ma il gelso dice che ci trasformeremo in bellissimi esseri alati…” replicò Giovanni.
“Stupidaggini.
Inventano di tutto per farci stare buoni!” rispondeva l’amico.
Giovanni scrollava la testa e ricominciava a mangiare:
“Presto tutto finirà… scrunch… Non c’è niente dopo… scrunch… Certo, io mangio… scrunch … bevo e mi diverto più che posso… scrunch … ma … scrunch … non sono felice… scrunch…
I sogni resteranno sempre sogni.
Non diventeranno mai realtà.
Sono solo illusioni!” bofonchiava, lavorando di mandibole.
Ben presto i tiepidi raggi del sole autunnale cominciarono ad illuminare tanti piccoli bozzoli bianchi tondeggianti sparsi qua e là sulle foglie del vecchio gelso.
Un mattino, anche Giovanni, spostandosi con estrema lentezza, come in preda ad un invincibile torpore, si rivolse al gelso:
“Sono venuto a salutarti.

È la fine.

Guarda sono l’ultimo.
Ci sono solo tombe in giro.
E ora devo costruirmi la mia!”
“Finalmente!
Potrò far ricrescere un po’ di foglie!
Ho già incominciato a godermi il silenzio!
Mi avete praticamente spogliato!
Arrivederci, Giovanni!” sorrise il gelso.
“Ti sbagli gelso.
Questo… sigh … è… è un addio, amico!” disse il bruco con il cuore gonfio di tristezza, “Un vero addio.
I sogni non si avverano mai, resteranno sempre e solo sogni. Sigh!”
Lentamente, Giovanni cominciò a farsi un bozzolo.
“Oh!” ribatté il gelso, “Vedrai!”
E cominciò a cullare i bianchi bozzoli appesi ai suoi rami.
A primavera, una bellissima farfalla dalle ali rosse e gialle volava leggera intorno al gelso:
“Ehi, gelso, cosa fai di bello?
Non sei felice per questo sole di primavera?”

“Ciao Giovanni!

Hai visto, che avevo ragione io?” sorrise il vecchio albero, “O ti sei già dimenticato di come eri poco tempo fa?”

Parlare di risurrezione agli uomini è proprio come parlare di farfalle ai bruchi.
Molti uomini del nostro tempo pensano e vivono come i bruchi.
Mangiano, bevono e si divertono più che possono: dopotutto non si vive una volta sola?
Nulla di male, sia ben chiaro.
Ma la loro vita è tutta qui.
Per loro, la parola risurrezione non significa nulla.
Eppure non sono felici!

Brano di Bruno Ferrero