Un grande amore

Un grande amore

Dopo vari anni di matrimonio scoprii una nuova maniera di mantener viva la scintilla dell’amore.
Mia moglie mi raccomandò di uscire con un’altra donna!
“Io però ho scelto te!” protestai, “Lo so.
Ma ami anche lei.
La vita è molto breve, dedicale tempo.”
Accettai.
L’altra donna, a cui mia moglie voleva che facessi visita, era mia madre.
Gli impegni di lavoro e i figli mi permettevano di farle visita solo occasionalmente.

Una sera le telefonai per invitarla a cena e al cinema.

“Che ti succede?
Stai bene?” mi chiese.
Mia madre è il tipo di donna che pensa che una chiamata serale o un invito sorprendente sia indice di notizie cattive.
“Ho pensato che sarebbe bello passare un po’ di tempo con te.” le risposi.
“Mi piacerebbe moltissimo.” disse.
Quel venerdì mentre, dopo il lavoro, la andavo a prendere, ero nervoso.
Era il nervosismo che precede un appuntamento.
E quando giunsi alla sua casa, vidi che anch’ella era molto emozionata.

Un bel sorriso sul volto, irradiava luce come un angelo.

“Ho detto alle amiche che dovevo uscire con mio figlio e quasi mi invidiavano!” mi spiegò mentre entrava in macchina.
Mi attendeva sulla porta con il suo soprabito, era stata dalla parrucchiera e il vestito era quello dell’ultimo anniversario di nozze.
Andammo a un ristorante non particolarmente elegante, ma molto accogliente.
Mia madre mi prese a braccetto come se fosse “La Prima Dama della Nazione”.
Quando ci sedemmo presi a leggerle il menù.
I suoi occhi riuscivano a leggere solo le scritte più grandi.
Quando andai a sedermi di fronte a lei, alzai lo sguardo:
la mia mamma, seduta dall’altro lato del tavolo, mi guardava con ammirazione.

Un sorriso felice si delineava sulle sue labbra:

“Ero io che ti leggevo il menù, quand’eri piccolo.
Ti ricordi?”
“Adesso è ora che ti riposi e che mi permetta di restituirti il favore!” risposi.
Durante la cena facemmo una gradevole conversazione:
niente di straordinario.
Ci aggiornammo sulla nostra vita.
Parlammo tanto che perdemmo il film che ci eravamo proposti di vedere.
“Verrò ancora fuori con te, solo però se permetti a me di invitarti!” disse mia madre quando la portai a casa sua.
Accettai, la baciai, la abbracciai.
“Come hai trovato la ragazza?” volle sapere mia moglie.
“Molto piacevole.
Molto più di quanto immaginavo!” le risposi.
Alcuni giorni dopo mia madre morì di infarto, e avvenne così velocemente che non si poté fare niente.
Poco tempo dopo ricevetti un avviso dal ristorante dove avevamo cenato mia madre e io e un invito che diceva:

“La cena è stata pagata in anticipo!”

Mia madre era sicura di non poterci essere, ma pagò lo stesso per due:
“Per te e per tua moglie, non potrai mai capire cosa ha significato per me quella serata.
Ti amo!”
In quel momento compresi l’importanza di dire a tempo debito “Ti amo” e di dare ai nostri cari lo spazio che meritano; niente nella vita sarà più importante di Dio e della tua famiglia:
dalle il tempo perché possano sentirsi amati.

Brano tratto dal libro “Un cuore rattoppato.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

Gli auguri meccanici

Gli auguri meccanici

Un giovane, invitato al matrimonio di un amico, fu incuriosito dal gran numero di persone che si recavano a porgere gli auguri agli sposi e ai parenti degli sposi, che in fila li ricevevano.
Aveva notato che ospiti e parenti degli sposi si scambiavano meccanicamente frasi rituali, senza neppure ascoltarsi reciprocamente.
Perciò si mise in fila e, quando arrivò di fronte al primo parente, disse con tono pacato e con il sorriso sulle labbra:

“Oggi è morta mia moglie!”

La risposta fu:
“Mille grazie, molto gentile!”
Ripeté la stessa frase a un altro parente e gli fu risposto:
“Molto gentile, grazie infinite!”
Alla fine arrivò dallo sposo, sempre ripetendo la stessa frase.

Questa volta la risposta fu:

“Grazie.
Adesso tocca a te, vecchio mio!”

Brano senza Autore

La paziente e l’infermiere

La paziente e l’infermiere

La scrittrice Antonia Arslan ricorda così quello che successe quando, dopo un periodo di coma farmacologico, riprese coscienza.

“Io avevo sete, tanta sete!
Ogni tanto provavo a farmi capire con gli occhi, perché non riuscivo a muovere le mani, sentendo la gola ostruita da qualcosa di viscido ma pesante come un sasso.
“Ho sete! Voglio acqua!” cercavo di dire e mi raschiavo la gola per parlare, ma non riuscivo a tirare fuori la voce.
Tentavo e ritentavo continuamente, pensando che la voce uscisse ma poi non la sentivo:
neanche un soffio.
Non c’era nessuno intorno:
il buio si faceva, di momento in momento, più intenso e la sete ancora più acuta!
Riemergevo da un sonno opprimente ma non potevo chiamare, solo aspettare, quando fui colpita da un’acuta nostalgia:
una voglia di piangere sulla mia miseria, sulla mia solitudine, sulla mia sete.

Fu in quel momento che tornarono in due:

l’infermiera e un giovane, poco più di un ragazzo.
Ogni tanto vengono in coppia:
quando ti devono sollevare e cambiare!
Mi sprimacciarono il cuscino, mi rassettarono il lenzuolo, controllarono che i piedi fossero coperti e che le lucette sul quadro dei controlli fossero a posto.
Poi l’infermiera andò ad aggiornare il diario!
Mentre facevano queste cose, io li seguivo con gli occhi ansiosa, cercando di parlargli, di farmi capire, di fargli capire che avevo bisogno di acqua.
Non sapevo ancora, allora, di avere un tubo in gola.
Stavano per andarsene e l’infermiera uscì per prima.
Ma, come se avesse sentito l’intensità disperata del mio sguardo, il ragazzo si voltò lentamente, mi guardò con attenzione e sorrise!
Poi disse con semplicità:
“Cosa stai pensando, cara:
forse hai bisogno di un’acquata?”

E, come fra sé, si rispose:

“Certo che ne ha bisogno!” e uscì svelto per ritornare, dopo un momento, con larghi teli bianchi e un catino d’acqua, appena tiepida.
Cominciò a bagnare i teli e me li appoggiava sul corpo, dappertutto con meticolosa attenzione, rimettendoli nell’acqua ogni tanto.
Tamponandomi, con un angolo di tela, la fronte e le labbra.
Un senso di frescura infinita mi si diffondeva per le membra e perfino l’arsura in gola si attenuava.
Il buio sembrava meno denso!
Per mezz’ora ci parlammo con gli occhi.
Ogni tanto mi guardava, scuoteva la testa, e diceva:
“Ancora un po’ vero?
Ti fa star meglio, si vede!”
Quando lo vennero a chiamare rispose:
“Non la posso ancora lasciare!” e continuò a darmi acqua sul corpo.
Così mi addormentai di nuovo e lui se ne andò, piano piano, silenziosamente:
per qualche ora dormii tranquilla.

Speravo di rivederlo il giorno dopo:

speravo che mi facesse un’altra acquata, volevo dirgli ancora grazie con gli occhi.
Ma non lo rividi, né il giorno dopo né quelli seguenti!
E quando, finalmente, mi tolsero il tubo e potevo parlare cominciai a chiedere di lui, ma nessuno lo conosceva, né le infermiere né i dottori:
e mi accorsi che tutti loro pensavano che avessi avuto un’allucinazione;
che m’immaginavo di ricordare qualche cosa che, invece, era stata solo un desiderio, una visione interiore dovuta alla troppa sete, ai tanti farmaci, chissà…
Allora smisi di chiedere!
Ma, molti giorni dopo, entrò proprio lui, verso sera, nella mia stanza portando un bicchiere.
Lo riconobbi immediatamente, ma lui no!
Io cominciai a parlargli dell’acquata, sorridendo nervosa, accavallando le parole:
e, finalmente, si ricordò di me!
Ma non pensava di aver fatto nulla di speciale.
Lui, quella sera, aveva fatto un turno per caso, una sostituzione.
Io insistetti, gli dissi quanto avesse significato per me quel suo darmi l’acqua, bagnarmi tutta contro i fantasmi notturni.
E, solo allora, arrossì tutto in viso, come un ragazzino!”

Brano senza Autore

Ora sai dove sta Dio

Ora sai dove sta Dio

Una comitiva di zingari si fermò al pozzo di un cascinale.
Un bambino di circa cinque anni uscì nel cortile, osservandoli con occhi sgranati.
Uno zingaro in particolare lo affascinava, un pezzo d’uomo che aveva attinto un secchio d’acqua dal pozzo e stava lì, a gambe larghe, bevendo.

Un filo d’acqua gli scorreva giù per la barba di fuoco,

corta e folta, e con le mani forti reggeva il grosso secchio di legno, appoggiandolo alle labbra come se fosse stata una tazza.
Quando ebbe terminato, si tolse la fusciacca multicolore e con quella si asciugò la faccia.
Poi si chinò e scrutò in fondo al pozzo.
Incuriosito, il bambino si alzò in punta di piedi per cercare di vedere oltre l’orlo del pozzo che cosa stesse guardando lo zingaro.
Il gigante si accorse del bambino e sorridendo lo sollevò da terra tra le braccia.

“Sai chi ci sta laggiù?” chiese.

Il bambino scosse il capo.
“Ci sta Dio!” disse.
“Guarda!” aggiunse lo zingaro e tenne il bambino sull’orlo del pozzo.
Là, nell’acqua ferma come uno specchio, il bambino vide riflessa la propria immagine:

“Ma quello sono io!”

“Ah!” esclamò lo zingaro, rimettendolo con dolcezza a terra, “Ora sai dove sta Dio!”

Brano tratto dal libro “Quaranta Storie nel Deserto.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

La leggenda della brocca

La leggenda della brocca

Molto, molto tempo fa, ci fu una grande siccità sulla terra.
Tutti i laghi, le sorgenti, i torrenti e i pozzi si erano prosciugati.
Gli alberi, i cespugli e l’erba erano seccati.
Persone e animali morivano di sete.
In un piccolo villaggio, una bambina guardava angosciata la mamma a letto divorata dalla febbre, con le labbra aride e screpolate dall’arsura.

Anche se era già buio,

si coprì con lo scialle della mamma e uscì con una brocca di terracotta in mano per tentare di trovare un po’ d’acqua.
Camminò in lungo e in largo, ma non riuscì a trovare neanche una goccia d’acqua da nessuna parte, finché sfinita si sdraiò sull’erba di un prato e si addormentò.
Quando si svegliò e riprese la brocca, si accorse che dentro aveva un po’ d’acqua.
Era un’acqua molto fresca e limpida.
La bambina era felice ed era tentata di bere, ma le è venne in mente che poi non sarebbe stata sufficiente per sua madre, e corse a casa con la brocca stretta al petto.
Aveva così tanta fretta che non si accorse nemmeno di un cagnolino davanti a casa sua, inciampò e lasciò cadere la brocca.
La bambina si rialzò con le lacrime agli occhi.
La bambina pensava di aver rovesciato l’acqua.
Invece la brocca era caduta in piedi e non aveva perso neanche una goccia della preziosa acqua.

Il cane uggiolava tristemente.

La bambina verso un po’ d’acqua nella sua mano a coppa e la mise sotto il muso del cane che la leccò avidamente, riprendendo a scodinzolare.
La bambina riprese la brocca e con gran meraviglia vide che non era più di terracotta, ma di argento.
Corse a casa e la diede alla mamma.
“Mamma, mamma!
Ho trovato dell’acqua!”
La madre però le disse:
“Devo morire comunque, è meglio che beva tu!” e restituì la brocca alla figlia.
In quel momento, la brocca d’argento si trasformò in una brocca d’oro.
La bambina aveva una sete terribile e stava per accostare la brocca alle labbra quando bussarono alla porta.

La bambina andò ad aprire.

Sulla soglia c’era un povero vagabondo che mormorò:
“Un po’ d’acqua, vi prego, per amor di Dio!”
La bambina ingoiò la saliva e porse la brocca al vagabondo.
Improvvisamente, sette diamanti splendenti apparvero sulla brocca, e da ognuno di essi scaturì un grande flusso di acqua limpida e fresca.

Brano senza Autore

La creazione delle lacrime

La creazione delle lacrime

Quando furono cacciati dal Paradiso terrestre, Adamo ed Eva partirono pieni di acrimonia e di rabbia.
I loro volti erano lividi, le labbra piegate in smorfie di dolore, il cuore colmo di amarezza.

Si erano accusati a vicenda, insultati, minacciati.

“Maledetto, sei solo un incapace!” aveva gridato Eva.
“È tutta colpa tua!” aveva sbraitato Adamo, fino a diventare rauco.
Camminavano con i pugni stretti, gli occhi lampeggianti, un peso dentro, opprimente come un macigno.

Tutto questo provocava a Dio una grande tristezza.

Decise così di aggiungere qualcosa alla creazione.
Qualcosa che non aveva previsto nel progetto originale.
Passò lieve tra l’uomo e la donna e sfiorò il loro cuore e i loro occhi.

E creò le lacrime.

Adamo ed Eva cominciarono a piangere.
Il macigno e la rabbia che avevano dentro si sciolse.
Una nuova tenerezza li sommerse e si abbracciarono.

Brano tratto dal libro “C’è qualcuno lassù.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

La lepre ed il ghiacciolo

La lepre ed il ghiacciolo

Sui verdi fianchi di una balza delle Alpi, sotto un roccione sporgente, c’era la tana di una lepre di montagna.
Quella lepre ogni tanto faceva capolino.
Come tutti gli animali selvatici, era povera in canna e viveva nutrendosi di ogni sorta di erbaggi.
Aveva però due vestiti, un lusso che la natura le concedeva gratuitamente e senza pericolo di farla diventare ambiziosa.
I fiori, che vedevano la lepre d’estate, conoscevano bene il suo giubbetto color grigio-bruno con la gran toppa bianca sul petto.
I ghiacci e le nevi che la vedevano d’inverno, conoscevano invece il suo candido, attillato pastrano.
Anche i ghiaccioli, che pendevano numerosi e impettiti dall’ingresso della tana, stavano ad ammirarla un po’ invidiosi per ore e ore, mentre dormiva avvolta nella sua bianca pelliccia.
I fiori che segnavano il tempo di primavera e d’estate non consideravano la lepre un personaggio importante, pensando che avesse, come tutti gli altri animali, un solo vestito; ma le rocce e gli alberi, che la vedevano in tutte le stagioni, sapevano benissimo che i suoi vestiti erano due, e avevano di lei grande stima, perché la ritenevano una bestia facoltosa e tuttavia sempre umile, riservata e gentile.
Sul finire di un inverno, mentre la lepre si preparava a cambiare vestito perché l’aria si era fatta meno cruda e ormai le nevi avevano preso congedo, sul roccione sovrastante la tana si vide un ghiacciolo ostinatamente aggrappato all’orlo della fenditura.

“Non ti decidi ad andartene?” gli chiese un giorno l’abete più vicino.

“I tuoi fratelli sono già partiti da un pezzo!
Finirai col non riuscire a raggiungerli!”
“Andarmene, io?
Io non me ne vado: rimango!
Durante l’inverno non ho fatto altro che sentir decantare la primavera con i suoi colori, l’estate con la sua luce e il vento che sembra una carezza, e la gioia dei fiori e dell’erba, e il cielo tutto lucido e pulito.
Perfino le lepri so che mutano d’abito, come per prepararsi ad una festa.
Perché proprio io non dovrei conoscere tante belle cose, se sono belle davvero?
Ho deciso perciò di restare fino alla primavera, magari fino all’estate!”
“Resta pure, se ci riesci!” replicò l’abete.
“Questo, amico bello, è affar mio!” concluse il ghiacciolo.
Quando l’aria cominciò a intiepidire, il ghiacciolo volle mettersi al riparo dal sole.
Si staccò dalla fenditura e si lasciò cadere in un’incavatura della roccia nella quale il sole non batteva e da cui avrebbe potuto assistere comodamente allo spettacolo atteso.
Ma quando si fu fermato, sentì che era caduto addosso a qualcosa.
“Che maniera villana di presentarsi!” brontolò quel qualcosa.
“Sono veramente mortificato!” esclamò il ghiacciolo, “Non avevo visto che c’era lei.

Se permette, anzi, mi presento:

io sono il ghiacciolo, l’ultimo ghiacciolo dell’inverno!”
“Bene, tanto piacere.
Io sono la cartuccia, una cartuccia di fucile da caccia!” spiegò la cartuccia.
“Ma come si trova qui, signora cartuccia?
È carica o scarica?
Che pensa della primavera e dell’estate?
Che programmi ha per il futuro?” domandò il ghiacciolo.
“Ragazzo, non prendiamoci confidenze!” replicò la cartuccia
Era una cartuccia molto dura e superba, e vedeva tutte le cose dal punto di vista delle cartucce.
“Sono di ottima marca, e… carica, naturalmente.
“E se mi trovo qui è solo a causa di uno spiacevole contrattempo.
Durante una battuta, il mio padrone mi ha smarrita, povero sciocco!
Andava a caccia della lepre, e io ero l’ultima cartuccia che gli restava.
La lepre può ringraziare il cielo:
se avesse avuto a che fare con me, non sarebbe scappata di certo.
Con me non si scherza!”

“Ma che le ha fatto la lepre?” chiese il ghiacciolo.

“Niente mi ha fatto.
Ma non doveva nascere lepre.
Se la trovo, l’accoppo!” esclamò la cartuccia.
“Via, c’è posto per tutti a questo mondo…” disse, sicuro, il ghiacciolo.
“Tu non immischiarti nei miei affari privati.
Spero solo che il cacciatore ripassi di qua e che mi veda.
Al resto penserò io!” conclusa la cartuccia.
L’aria si era fatta ormai mite e la lepre vagava nei dintorni in cerca di nutrimento.
Quanto al ghiacciolo, esso faceva una gran fatica a non sciogliersi, e cercava di aderire all’incavatura della roccia nel punto più profondo e più fresco.
Voleva a tutti i costi vedere i fiori dei rododendri, le stelle alpine, il tenero dell’erba novella, il cielo lucido e pulito nello sfolgorio della sua luce cilestrina.
Ormai non doveva attendere molto.
Ma un mattino, svegliandosi, non vide più la cartuccia.
Orme d’uomo, recenti, erano impresse nel suolo ai piedi del roccione.
Il cacciatore era passato di là?
La cartuccia aveva ritrovato il fucile?
Bisognava avvertire la lepre del pericolo, subito!
“Lepre! Lepre! Ehi, lepre!” si mise a gridare il ghiacciolo, “Non uscire!
C’è gente che ti minaccia qua intorno!”

Nessuno rispose.

La lepre certamente era fuori dalla tana.
Al ghiacciolo non rimase che starsene rincattucciato nell’incavatura della roccia a rimuginare pensieri uno più triste dell’altro.
Verso sera, trascinandosi a stento, la lepre fece ritorno alla tana.
Era malconcia, grondava sangue, aveva la febbre.
“Oh, poveretta, poveretta!” esclamò commosso il ghiacciolo che, in fondo, non aveva un cuore di ghiaccio, “Che ti è successo?
Chi è stato?
Quella sciagurata cartuccia?”
“Non so!” rispose la lepre con un filo di voce, cadendo sfinita sulla soglia della tana, “Ho visto una vampa.
Ho udito un sibilo.
Sono ferita.
Ho tanta sete…”
Il ghiacciolo non volle udire altro.
Si rotolò fin sul margine dell’incavatura, sulla roccia ancor calda dal sole, e cominciò rapidamente a sciogliersi.
Cadde in gocce fitte e refrigeranti sulle ferite della lepre, in gocce ristoratrici sulle labbra riarse.
“Chi piange lassù?” balbettò la lepre stupita, riavendosi a poco a poco.
Ma il ghiacciolo non poté più rispondere.
Si era ormai sciolto del tutto, senza neppur pensare che le stelle alpine e i rododendri non erano ancora fioriti, che il cielo non era ancora terso e azzurro.
Tutte cose che dovevano essere belle, oh molto belle, a vedersi.

Brano tratto dal libro “Tutte storie. Per la catechesi, le omelie e la scuola di religione.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

Tre racconti di Bruno Ferrero su Giovanni Maria Vianney

Tre racconti di Bruno Ferrero su Giovanni Maria Vianney
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La sfida tra fratelli

L’ultimo della classe

Egli guarda me ed io guardo Lui

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“La sfida tra fratelli”

 

Giovanni Maria Vianney ancora fanciullo, aveva un fratello maggiore di lui, di nome Francesco, che lo prendeva sempre in giro per le sue incapacità e per la sua religiosità.
Come fare per avere una giusta rivincita?
Si propose un modello e questo lo trovò in una piccola statuina della Madonna, che una religiosa gli aveva regalato.
Sentite come ebbe la prima vittoria sul fratello.
Mandati tutti e due a zappare nel campo, Francesco, essendo più grande, lo anticipava e lo precedeva nel lavoro.
Come raggiungerlo?

Giovanni Maria pose alcuni passi davanti a sé la statuina:

guardandola, si rincuorava nel lavoro, si sforzava di più e raggiungeva il fratello.
Ma il fratello partiva per la rivincita.
Ecco allora che il piccolo riprendeva l’immagine, la collocava di nuovo davanti a sé, si entusiasmava nel lavoro e progrediva.
Così facendo, tenne testa fino a sera al fratello, che a casa dovette, non senza dispetto, confessare alla madre, che Giovanni Maria aveva fatto tanto lavoro come lui.
Ma aggiungeva:
“La sfida non è stata giusta!
Io ero solo, ma lui no, aveva ad aiutarlo la Vergine Maria!”

Brano tratto dal libro “Mese di maggio per i bambini.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.
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“L’ultimo della classe”

 

Quando era seminarista, Giovanni Maria Vianney, il futuro santo Curato d’Ars, aveva enormi difficoltà con la scuola.
Non riusciva a capire neppure le nozioni più semplici.
I superiori del seminario lo avevano rimandato a casa più volte.
Ma lui caparbiamente insisteva.
Aveva ormai 21 anni e sedeva in aula con ragazzi che avevano dieci anni meno di lui.

Uno di questi, undicenne, cominciò ad aiutarlo nello studio.

Giovanni Battista Vianney era molto grato al suo piccolo maestro, ma le difficoltà persistevano:
non capiva, non ricordava, si smarriva, balbettava.
Il ragazzino si lamentò di questo con i compagni di scuola.
Giovanni Maria Vianney lo sentì.
Si alzò dal suo banco, si inginocchiò davanti al ragazzino e gli disse:
“Perdonami perché sono così stupido.”

Brano di Bruno Ferrero.
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“Egli guarda me ed io guardo Lui”

 

Il Santo Curato d’Ars (Giovanni Maria Vianney) incontrava spesso, in Chiesa, un semplice contadino della sua Parrocchia.
Inginocchiato davanti al Tabernacolo, il brav’uomo rimaneva per ore immobile, senza muovere le labbra.

Un giorno, il Parroco gli chiese:

“Cosa fai qui così a lungo?”
“Semplicissimo.
Egli guarda me ed io guardo Lui!”

Brano tratto dal libro “Il canto del grillo.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

O Dio! Fammi diventare come Giovanni!

O Dio! Fammi diventare come Giovanni!

In un centro di raccolta per barboni, un alcolizzato di nome Giovanni, considerato un ubriacone irrecuperabile, fu colpito dalla generosità dei volontari del centro e cambiò completamente.
Divenne la persona più servizievole che i collaboratori e i frequentatori del centro avessero mai conosciuto.

Giorno e notte, Giovanni si dava da fare instancabile.

Nessun lavoro era troppo umile per lui.
Sia che si trattasse di ripulire una stanza in cui qualche alcolizzato si era sentito male, o di strofinare i gabinetti insudiciati, Giovanni faceva quanto gli veniva chiesto col sorriso sulle labbra e con apparente gratitudine, perché aveva la possibilità di essere d’aiuto.
Si poteva contare su di lui quando c’era da dare da mangiare a uomini sfiniti dalla debolezza,

o quando bisognava spogliare e mettere a letto persone incapaci di farcela da sole.

Una sera, il cappellano del centro parlava alla solita folla seduta in silenzio nella sala e sottolineava la necessità di chiedere a Dio di cambiare.
Improvvisamente un uomo si alzò, percorse il corridoio fino all’altare, si buttò in ginocchio e cominciò a gridare:
“O Dio!
Fammi diventare come Giovanni!
Fammi diventare come Giovanni!”
Il cappellano si chinò verso di lui e gli disse:

“Figliolo, credo che sarebbe meglio chiedere:

Fammi diventare come Gesù!”
L’uomo guardò il cappellano con aria interrogativa e gli chiese:
“Perché, Gesù è come Giovanni?”

Brano tratto dal libro “Il segreto dei pesci rossi.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Il rabbino e l’ “amico” critico

Il rabbino e l’ “amico” critico

C’era un tempo un rabbino che la gente venerava come l’inviato di Dio.
Non passava giorno senza che una folla di persone si assiepasse davanti alla sua porta in cerca di un consiglio o della sua guarigione e della benedizione del sant’uomo.
E ogni volta che il rabbino parlava, la gente pendeva dalle sue labbra,

facendo propria ogni parola che diceva.

Fra i presenti c’era però un personaggio piuttosto antipatico, che non perdeva mai l’occasione per contraddire il maestro.
Osservava le debolezze del rabbino e ne sbeffeggiava i difetti, con sgomento dei suoi discepoli, che cominciarono a vedere in lui l’incarnazione del diavolo.
Un giorno però il “diavolo” si ammalò e morì.

Tutti tirarono un sospiro di sollievo.

Di fuori apparivano compresi come si conveniva, ma nel loro cuore erano contenti perché quell’eretico irriverente non avrebbe mai più interrotto i discorsi ispirati del maestro e criticato il suo comportamento.
La gente fu quindi sorpresa di vedere al funerale il maestro genuinamente affranto dal dolore.
Quando più tardi un discepolo gli chiese se era addolorato per la sorte del morto, egli rispose:
“No, no.
Perché dovrei compiangere il nostro amico che è ora in cielo?

E per me che sono triste.

Quell’uomo era l’unico amico che avevo.
Eccomi qui circondato da gente che mi venera.
Lui era il solo che mi metteva alla prova; temo che senza di lui smetterò di crescere!”
E mentre diceva queste parole, il maestro scoppiò in lacrime.

Brano tratto dal libro “La preghiera della rana.” di Anthony de Mello. Edizioni Paoline.