Il ricamo

Il ricamo

Quando ero piccolo mia madre era solita cucire tanto.
Mi sedevo vicino a lei e le chiedevo cosa stesse facendo.

Lei mi rispondeva che stava ricamando.

Osservavo il lavoro di mia madre da un punto di vista più basso rispetto a dove stava seduta lei, cosicché ogni volta mi lamentavo dicendole che dal mio punto di vista ciò che stava facendo mi sembrava molto confuso.
Lei mi sorrideva, guardava verso il basso e gentilmente mi diceva:
“Figlio mio, vai fuori a giocare un po’ e quando avrò terminato il mio ricamo ti metterò sul mio grembo e ti lascerò guardare dalla mia posizione!”
Mi domandavo perché utilizzava dei fili di colore scuro e perché mi sembravano così disordinati visti da dove stavo io.

Alcuni minuti dopo sentivo la voce di mia madre che mi diceva:

“Figlio mio, vieni qua e siediti sul mio grembo.”
Io lo facevo immediatamente e mi sorprendevo e mi emozionavo al vedere i bei fiori o il bel tramonto nel ricamo.
Non riuscivo a crederci; da sotto si vedeva così confuso.

Allora mia madre mi diceva:

“Figlio mio, di sotto si vedeva confuso e disordinato ma non ti rendevi conto che di sopra c’era un progetto.
C’era un disegno, io lo stavo solo seguendo.
Adesso guardalo dalla mia posizione e saprai ciò che stavo facendo!”

Brano tratto dal libro “Il Dio Padre di Gesù.” di Giovanni Maddamma

La predica di San Francesco e frate Ginepro

La predica di San Francesco e frate Ginepro

Un giorno, uscendo dal convento, San Francesco incontrò frate Ginepro.
Era un frate semplice e buono e San Francesco gli voleva molto bene.

Incontrandolo gli disse:

“Frate Ginepro, vieni, andiamo a predicare.”
“Padre mio,” rispose, “sai che ho poca istruzione.
Come potrei parlare alla gente?”
Ma poiché san Francesco insisteva, frate Ginepro acconsentì.
Girarono per tutta la città, pregando in silenzio per tutti coloro che lavoravano nelle botteghe e negli orti.

Sorrisero ai bambini, specialmente a quelli più poveri.

Scambiarono qualche parola con i più anziani.
Accarezzarono i malati.
Aiutarono una donna a portare un pesante recipiente pieno d’acqua.

Dopo aver attraversato più volte tutta la città, san Francesco disse:

“Frate Ginepro, è ora di tornare al convento.”
“E la nostra predica?” chiese frate Ginepro.
“L’abbiamo fatta… l’abbiamo fatta” rispose sorridendo il santo.

Brano senza Autore, tratto dal Web

La parola piangere. Favola & Filastrocca.

La parola piangere.
Favola & Filastrocca.
—————————–
Favola
Filastrocca
—————————–
“Favola”

 

Questa storia non è ancora accaduta, ma accadrà sicuramente domani.
Ecco cosa dice.
Domani una brava, vecchia maestra condurrà i suoi scolari, in fila per due, a visitare il “Museo del Tempo Che Fu,” dove sono raccolte le cose di una volta che non servono più, come la corona del re, lo strascico della regina, il tram di Monza, eccetera.
In una vetrinetta un po’ polverosa c’era la parola:

“Piangere.”

Gli scolaretti di Domani lessero il cartellino, ma non capivano, quindi chiesero:
“Signora, che vuol dire?
“È un gioiello antico?
Apparteneva forse agli Etruschi?”
La maestra spiegò che una volta quella parola era molto usata, e faceva male.
Mostrò una fialetta in cui erano conservate delle lacrime:
chissà, forse le aveva versate uno schiavo battuto dal suo padrone, forse un bambino che non aveva casa.

“Sembra acqua!” disse uno degli scolari.

“Ma scottava e bruciava!” rispose la maestra.
“Forse la facevano bollire prima di adoperarla?” chiese ancora uno degli scolari.
Gli scolaretti proprio non capivano, anzi cominciavano già ad annoiarsi.
Allora la buona maestra li accompagnò a visitare altri reparti del Museo dove c’erano da vedere cose più facili come:
L’inferriata di una prigione, un cane da guardia, il tram di Monza, eccetera, tutta roba che nel felice paese di Domani non esisteva più.

—————————–
“Filastrocca”

 

Un giorno tutti saremo felici.
Le lacrime, chi le ricorderà?

I bimbi scoveranno
nei vecchi libri
la parola “piangere”
e alla maestra in coro chiederanno:
“Signora, che vuol dire?

Non si riesce a capire”.

Sarà la maestra,
una bianca vecchia
con gli occhiali d’oro,
e dirà loro:
“Così e così”.

I bimbi lì per lì
non capiranno.
A casa, ci scommetto,
con una cipolla a fette
proveranno e riproveranno
a piangere per dispetto
e ci faranno un sacco di risate…

E un giorno tutti in fila,

andranno a visitare
il Museo delle lacrime:
io li vedo, leggeri e felici,
i fiori che ritrovano le radici.

Il Museo non sarà tanto triste:
non bisogna spaventare i bambini.
E poi, le lacrime di ieri
non faranno più male:

è diventato dolce il loro sale.

E la vecchia maestra narrerà:
“Le lacrime di una mamma senza pane…
le lacrime di un vecchio senza fuoco…
le lacrime di un operaio senza lavoro…
le lacrime di un negro frustato
perchè aveva la pelle scura…”
“E lui non disse nulla?”
“Ebbe paura?”
“Pianse una sola volta ma giurò:
una seconda volta
non piangerò”.

I bimbi di domani

rivedranno le lacrime
dei bimbi di ieri:
del bimbo scalzo,
del bimbo affamato,
del bimbo indifeso,
del bimbo offeso, colpito, umiliato…

Infine la maestra narrerà:
“Un giorno queste lacrime
diventarono un fiume travolgente,
lavarono la terra
da continente a continente,
si abbatterono come una cascata:
così, così la gioia fu conquistata”.

Favola e Filastrocca di Gianni Rodari

Una preghiera fatta da un bambino

Una preghiera fatta da un bambino

Un bambino pensando una preghiera, disse così:
“Signore questa notte ti chiedo una cosa speciale…

Trasformami in una televisione,

così che io possa occupare il suo posto.
Mi piacerebbe vivere come vive la televisione di casa mia.
In altre parole avere una stanza speciale per riunire tutti i membri della mia famiglia attorno a me.

Essere preso sul serio quando parlo.

Fa che io sia al centro dell’attenzione così che tutti mi prestino ascolto senza interrompermi né discutere.
Mi piacerebbe provare l’attenzione particolare che riceve la televisione quando qualcosa non funziona…
E tener compagnia a mio papà quando torna a casa, anche quando è stanco dal lavoro.

E che mia mamma, al posto di ignorarmi, mi cerchi quando è sola e annoiata.

E che i miei fratelli e sorelle litighino per poter stare con me…
E che possa divertire tutta la famiglia, anche se a volte non dica niente.
Mi piacerebbe vivere la sensazione di chi tralascia tutto per passare alcuni momenti al mio fianco.
Signore non ti chiedo molto.
Solo vivere come vive qualsiasi televisione.”

Brano senza Autore, tratto dal Web

Il pittore e l’ubriaco

Il pittore e l’ubriaco

Sperando di lavorare per qualche giorno, un pittore ambulante di ritratti sostò in una piccola città.
Uno dei suoi primi clienti fu un ubriaco il quale,

nonostante la sua faccia sporca, la barba lunga e gli abiti inzaccherati,

si sedette con tutta la dignità di cui era capace per farsi fare il ritratto.
L’artista impiegò più del solito per realizzare il suo lavoro, quando ebbe finito, alzò il ritratto dal cavalletto e lo mostrò all’uomo.

“Questo non sono io!”

balbettò l’ubriaco sorpreso mentre guardava l’uomo sorridente e ben vestito del ritratto.
L’artista, che aveva guardato oltre l’esteriore e aveva visto la bellezza interiore dell’uomo, disse pensoso:
“Ma questo è l’uomo che potresti essere!”

Brano di Paul Wharton

Ancora cinque minuti papà!

Ancora cinque minuti papà!

Una donna si avvicinò ad un uomo seduto sulla panchina di un parco giochi.
“Quel bambino con la maglietta rossa sullo scivolo è mio figlio.” disse lei.
“È un bravo bambino.
Mia figlia invece è quella bambina in bicicletta, con il vestito bianco.” rispose l’uomo.
Poco dopo, guardando l’orologio, il padre della piccola si alzò per andare via:

“Che ne dici Melissa, ce ne andiamo?”

La figlia rispose pregandolo di rimanere ancora altri cinque minuti al parco.
Senza dire altro, l’uomo annuì tornando a sedersi sulla panchina.
I cinque minuti chiesti dalla bambina passarono in fretta e puntuale l’uomo le chiese nuovamente: “Andiamo?”
“Ancora cinque minuti papà, solo cinque minuti!” disse la bambina.
Il papà sorridendo rispose “Okay!”

La donna, stupita della calma dell’uomo gli disse:

“Caspita, lei è davvero un padre molto paziente!”
A quel punto l’uomo sorrise ancora…
“Il fratello di Melissa è stato ucciso da un automobilista ubriaco l’anno scorso.
Non abbiamo trascorso molto tempo insieme, e adesso darei qualunque cosa pur di stare cinque minuti con lui.
Ho promesso a me stesso che non avrei ripetuto quel terribile errore con Melissa…

… Lei crede che le vengano concessi altri cinque minuti per giocare…

La verità è che sono io a concedermi altri cinque minuti per vederla giocare!”

Con poche parole l’uomo è riuscito ad affrontare una questione molto importante:
nella vita non ci si deve mai lasciar sopraffare dagli impegni lavorativi e dalla carriera, a scapito degli affetti e di tutto ciò che è veramente importante.
Spesso non si ha una seconda possibilità!

Brano senza Autore

È arrivato un mostro!

È arrivato un mostro!

Il paese di Dolceacqua era il più sereno e pacifico della terra.
Come scrivono nei loro libri gli scrittori, era un paesino davvero “ridente.”
Tutto procedeva bene finché una notte blu, per le vie deserte, si sentì uno strano “toc toc, toc toc, toc toc…”, accompagnato da un ansimare cupo e raschiante.
Solo qualche coraggioso si affacciò alla finestra.
Un bisbigliare concitato cominciò a rincorrersi dietro le persiane:
“È un forestiero!”
“Un gigante…”
“Mamma mia, quant’è brutto!”
“Ha l’aria feroce…”
“E’ un mostro! Divorerà i bambini!”

Lo sconosciuto camminava curvo sotto il peso di un grosso sacco.

Aveva gli occhi gialli, la barba irsuta e verde, le unghie lunghe e curve.
Ogni tanto era costretto a fermarsi per soffiarsi il naso:
doveva avere un terribile raffreddore.
Ecco perché ansimava e tossiva come un vecchio mantice sforacchiato.
C’era, al fondo del paese, a due passi dal bosco, una profonda caverna nera.
Il mostro, non trovando niente di meglio, ci si installò.
Nell’osteria del paese si riunirono il giorno dopo tutti, anche le nonne, le mamme e i bambini.
“Io l’ho visto bene e da vicino: è terribile!”

“L’ho guardato negli occhi: fanno paura!”

“Sputa fiamme dalle narici!”
“Io ho sentito il suo ruggito: tremo ancora tutta!” gorgheggiò Maria Rosa, la più bella ragazza del paese.
Tutti i giovanotti sospirarono.
“È il diavolo!” disse una nonna.
“Ma che diavolo! È un orco mangia-uomini… poveri noi!” singhiozzò una vecchietta.
“Bhé, se mangia gli uomini, tu non dovresti preoccuparti!” sghignazzò Battista, il buffone del villaggio.
“Io l’ho visto da vicino vicino!” disse Simone, un ragazzetto di dodici anni.
“Anche io… Ero con lui.” gli fece eco la sorellina Liliana.
“Ecco, anche i bambini!” brontolò Sebastiano, il sindaco, “E dite, ditelo voi, come era quel mostro. Faceva paura, non è vero?”
“No!” disse Simone.
“Non faceva paura!” disse Liliana.

E aggiunse: “Era solo diverso da noi!”

Se ne andarono tutti a casa e, mentre camminavano in fretta per le strade silenziose, avevano una gran paura di incontrarsi faccia a faccia con il mostro.
Sbirciavano in su, verso il bosco.
Dove si intravedeva la gran bocca nera della caverna in cui era andato ad abitare il mostro.
Proprio in quel momento, ingigantito dall’eco della caverna, si udì un tremendo, roboante starnuto.
“È il mostro! Aiuto!” e strillando a più non posso tutti si rifugiarono in casa e chiusero a tripla mandata tutte le serrature che trovarono.
Le mamme rimboccarono le coperte ai bambini:
“Non abbiate paura, qui siamo al sicuro!”
I papà chiusero le finestre e misero un robusto randello dietro alla porta.
“Se osa venire da queste parti, dovrà vedersela con noi.”

Nei giorni seguenti, a Dolceacqua, la vita riprese normalmente.

I papà e le mamme al lavoro, i bambini a scuola, Maria Rosa davanti allo specchio a mettere i bigodini ai suoi bei capelli color del grano.
I giovanotti la sbirciavano e sospiravano.
Quasi tutti si erano dimenticati del mostro, che, a onor del vero, non dava fastidio a nessuno.
Solo, ogni tanto, si udiva un rumore terribile.
La gente diceva:
“Ma guarda, il mostro ha starnutito, si è di nuovo raffreddato!” e tornavano alle loro occupazioni.
Un giorno un camion carico di mattoni passò troppo velocemente su una buca della strada e perse due mattoni.
Tommaso, un ragazzino che passava di là, si fermo e ne raccolse uno.
Samuele, un suo amico che usciva dalla scuola, dove si era fermato a finire i compiti, lo vide.
“Ehi, Tom! Che cosa vuoi fare con quel mattone?”
“Ho voglia di andare a tirarlo sulla testa del mostro che abita la caverna nera.
Non abbiamo bisogno di mostri in questo paese!”

Samuele replicò ridendo:

“Scommettiamo che non hai il coraggio?”
Ma Tommaso se ne andava tutto impettito con il suo mattone in mano.
Samuele raccolse l’altro mattone:
“È vero, non abbiamo bisogno di quel mostro, qui.
Aspettami, Tom, vengo con te!”
Tommaso disse:
“D’accordo, ma l’idea è stata mia e sono io che tirerò il primo mattone!”
Un contadino appoggiato alla staccionata del suo prato li vide passare:
“Dove andate?”
Tommaso spiegò:
“Andiamo a buttare questi mattoni sulla testa del mostro che abita lassù, nella caverna nera!”
Il contadino disse:
“Per me non avrete il coraggio.
E poi, come farete a far uscire il mostro dalla caverna?
È sempre rintanato dentro e lo si sente solo starnutire qualche volta!”

“Griderò:

“Vieni fuori, mostro!
Dovrà ben uscire!” dichiarò Tommaso.
Il contadino borbottò:
“Aspettate un attimo, ho un mattone che mi serve a tener aperta la porta; lo prendo e vengo con voi. Non abbiamo bisogno di mostri qui!”
Tommaso, Samuele e il contadino se ne andarono insieme con un mattone sotto il braccio. Passarono accanto all’orto della signora Zucchini.
“Dove andate?” chiese la signora Zucchini quando li vide.
“Andiamo a gettare questi mattoni sulla testa del mostro che abita nella caverna nera!” rispose Tommaso.
La signora Zucchini sogghignò:
“Non ne avrete il coraggio.
Dicono che sia orribile e peloso.
E poi, dopotutto, non dà fastidio a nessuno!”
Tommaso e Samuele protestarono:
“Non importa, non abbiamo bisogno di un mostro qui!”
“Scapperà come un coniglio e noi diventeremo gli eroi del paese!” aggiunse il contadino.
“Vengo anch’io!” decise la signora Zucchini, “Ho qualche mattone in un angolo; chiamerò anche i miei sette figli:

voglio che anche loro siano degli eroi!”

Quando i sette bambini arrivarono, il più grande domandò:
“Non c’è nessuno che voglia abitare nella caverna nera:
perché non la lasciamo al mostro?”
La madre gli rispose:
“Perché è un mostro, tutto qui.
Allora taci, prendi un mattone e seguici!”
Piano piano si formò una lunga coda di gente con un mattone in mano.
Chiudeva la fila il maestro con tutti i bambini della scuola.
Il sindaco ordinò che tutti gli abitanti di Dolceacqua prendessero un mattone dal vicino cantiere e si mettessero in marcia per tirarlo sulla testa del mostro che abitava nella caverna nera.
“Lo faremo scappare nel paese vicino!” gridò la signora Zucchini, “L’abbiamo tenuto abbastanza, noi!
Che vada a disturbare gli altri, adesso!”
Tutti gridarono:
“Urrà, bene!
Non abbiamo bisogno di mostri in questo paese!”

E si misero in marcia verso la caverna nera.

Proprio quel giorno, il mostro aveva deciso di pigrottare un po’ di più a letto e di terminare il suo libro preferito, facendo colazione con succo d’arancia e due uova al tegamino.
Improvvisamente sentì un rumore di passi e il vociare di persone che si avvicinavano e pensò: “Finalmente una visita!
È tanto tempo che sono solo!”
Saltò giù dal letto, si mise una camicia pulita e la cravatta, si lavò ben bene anche dietro le orecchie e si pulì i denti con spazzolino e dentifricio.
Poi aprì la porta e uscì, salutando tutti con un gran sorriso.
Tutti gli abitanti di Dolceacqua si fermarono impietriti:
Tommaso, Samuele, il contadino, la signora Zucchini e i suoi sette figli, i vicini, il sindaco, il maestro e i bambini della scuola.
Sembravano delle belle statuine.
Il mostro sorrise ancora e li invitò:
“Entrate, entrate.
Ho appena fatto il caffè!”

Tutti i suoi denti brillavano, ne aveva tanti e molto appuntiti.

Il mostro insisteva: “Entrate, per piacere, sono così contento di vedervi!”
Ma nessuno capiva la lingua del mostro.
Sentivano solo dei terribili grugniti e dei suoni che facevano accapponare la pelle.
Lasciarono cadere i mattoni e se la diedero a gambe, correndo a più non posso.
Nella confusione la piccola Liliana si prese una brutta storta alla caviglia, ma nessuno senti il suo “Ahia!”
Erano tutti troppo occupati a fuggire.
Così il mostro si trovò, un po’ imbarazzato, a contemplare un mucchio di mattoni e una bambina con i lacrimoni perché aveva male alla caviglia.
Il mostro corse in casa e prese la valigetta del pronto soccorso.
In quattro e quattr’otto, spalmò sulla caviglia di Liliana la pomata “Baciodimamma” che fa guarire tutto, la fasciò con cura e asciugò le lacrime della bambina.
Intanto gli abitanti erano arrivati ansimanti nella piazza centrale.
Non ebbero tempo di riprendere fiato.

Una voce gridò:

“Il mostro ha preso Liliana!”
“Se la mangerà!” strillò la signora Zucchini.
“Corriamo a liberarla!” disse un coraggioso.
Ripresero tutti la strada della caverna nera.
Ben decisi stavolta a liberare la piccola Liliana.
Quando arrivarono trovarono il mostro e Liliana che giocavano a dama, ridendo, scherzando e bevendo una cioccolata calda dal profumo delizioso.
“Ooooh!” dissero tutti insieme.
“Ah! Siete tornati, meno male!” disse il mostro, “Non ero riuscito a ringraziarvi del vostro splendido regalo.
La caverna è umida e malsana e perciò sono sempre raffreddato.
Con i mattoni che mi avete portato mi costruirò una bella casetta.
Grazie, davvero, di cuore!”
Chissà come, questa volta la gente capì il discorso del mostro.
E lo aiutarono tutti a costruire una graziosa casetta in fondo al paese.
Il più felice era Tommaso, che alla fine disse:
“Avete visto che ho fatto uscire il mostro dalla caverna nera?”

Brano tratto dal libro “Nuove storie. Per la scuola e la catechesi.” di Bruno Ferrero

Un posto a sedere

Un posto a sedere

C’era una volta un uomo che acquistò una casa e impegnò tutto il suo tempo e le sue energie per farla diventare una reggia.
Si alzava al mattino presto e subito a lavoro per realizzare la sua reggia.
Passarono gli anni, la casa cambiò d’aspetto, ma questo non gli bastava, la voleva ancora più bella, così continuò con modifiche e ritocchi, tanto che la gente del suo paese diceva:

“Ma come è cambiata questa casa!” e questo rallegrava il proprietario.

Questo signore aveva a cuore solo il suo progetto tanto che i compaesani bussarono alla sua casa per dirgli:
“Il parroco vorrebbe vederti domenica in parrocchia.”
Ma lui non volle smuoversi dalla sua casa:
“Ho da fare, devo finire qui, non mi scocciate!”
Altre persone gli fecero lo stesso annuncio ed ebbero la stessa risposta.
Un giorno andò anche il parroco del paese a parlargli ed ebbe la stessa risposta.

L’uomo terminò la sua villa e un giorno anche la morte bussò alla sua porta:

“Stavolta devi venire per forza!”
E comparve alla presenza dell’Altissimo però non trovò posto dove sedersi e si domandò:
“Mi scusi, non trovo un posto per sedermi.”
E il Signore rispose:
“Ti ho mandato tante persone per farti venire ad occupare il tuo posto e tu non sei mai venuto.
Ora se vuoi sederti devi usare per forza questa.”

E gli mostrò la prima pietra che usò per erigere la sua villa.

Era una pietra piccola e scomoda e non dava possibilità di sedersi bene.
L’uomo si lamentava e chiese se si poteva avere un’altra sedia.
Il Signore gli disse:
“Questa è la sedia che ti sei portato, hai fatto tutto tu, io non c’entro nulla!”

Brano di Stefano Molisso

La grotta azzurra

La grotta azzurra

Era un uomo povero e semplice.
La sera, dopo una giornata di duro lavoro, rientrava a casa spossato e pieno di malumore.
Guardava con astio la gente che passava in automobile o quelli seduti ai tavolini del bar.
“Quelli sì che stanno bene!” brontolava l’uomo, pigiato nel tram, come un grappolo d’uva nel torchio.
“Non sanno cosa vuol dire tribolare…
Tutte rose e fiori, per loro.
Avessero la mia croce da portare!”
Il Signore aveva sempre ascoltato con molta pazienza i lamenti dell’uomo.

E, una sera, lo aspettò sulla porta di casa.

“Ah, sei tu, Signore?” disse l’uomo, quando lo vide. “Non provare a rabbonirmi.
Lo sai bene quant’è pesante la croce che mi hai imposto.”
L’uomo era più imbronciato che mai.
Il Signore gli sorrise bonariamente:
“Vieni con me.
Ti darò la possibilità di fare un’altra scelta.” disse.
L’uomo si trovò all’improvviso dentro una enorme grotta azzurra.
L’architettura era divina.

Ed era tempestata di croci:

piccole, grandi, tempestate di gemme, lisce, contorte.
“Sono le croci degli uomini,” disse il Signore, “scegline una!”
L’uomo buttò con malagrazia la sua croce in un angolo e, fregandosi le mani, cominciò la cernita.
Provò una croce leggerina ma era lunga e ingombrante.
Si mise al collo una croce da vescovo, ma era incredibilmente pesante di responsabilità e sacrificio.
Un’altra, liscia e graziosa in apparenza, appena fu sulle spalle dell’uomo cominciò a pungere come se fosse piena di chiodi.
Afferrò una croce d’argento, che mandava bagliori, ma si sentì invadere da una straziante sensazione di solitudine e abbandono.
La posò subito.
Provò e riprovò, ma ogni croce aveva qualche difetto.
Finalmente, in un angolo semibuio, scovò una piccola croce, un po’ logorata dall’uso.

Non era troppo pesante, né troppo ingombrante.

Sembrava fatta apposta per lui.
L’uomo se la mise sulle spalle con aria trionfante.
“Prendo questa!” esclamò.
Ed uscì dalla grotta.
Il Signore gli rivolse il suo sguardo dolce dolce.
E in quell’istante l’uomo si accorse che aveva ripreso proprio la sua vecchia croce:
quella che aveva buttato via entrando nella grotta.
E che portava da tutta la vita.

Brano tratto dal libro “Il canto del grillo.” di Bruno Ferrero

Forse un giorno ci rincontreremo

To read the story in English, click here

Ringraziamenti

Forse un giorno ci rincontreremo
Racconto liberamente ispirato al progetto “Education Against Discrimination”, Erasmus+ Youthpass, Mobility of Youth Workers.

L’altro giorno, all’uscita da un centro commerciale, mentre con un amico stavamo per raggiungere la nostra automobile per rientrare a casa, abbiamo notato una giovane coppia che litigava perché nessuno dei due stava riuscendo ad aprire la loro macchina con il telecomando.
Entrambi erano particolarmente nervosi, ma prima che arrivassimo alla nostra automobile, dopo l’ennesimo tentativo, i due finalmente riuscirono ad aprire la macchina ed ad andarsene.

Questa scena mi fece tornare in mente un episodio di qualche anno fa e, nel tragitto per rientrare a casa, raccontai il tutto al mio amico:

“Qualche anno fa, mi dovetti trasferire per lavoro in una piccola cittadina di montagna del nord Italia.
Mancavano circa dieci giorni al mio rientro a casa e se non ricordo male, era pieno inverno.
Mentre stavo rientrando in albergo, ed ero giunto a poche centinaia di metri di distanza da esso, sopraggiunse un fortissimo temporale e, per ripararmi temporaneamente dall’acqua battente, mi fermai sotto ad un balcone.
Ad un certo punto, non molto lontano da dove mi trovavo, vidi due persone che cercavano di aprire con foga il portellone laterale di un piccolo bus.
Erano letteralmente inzuppati di acqua e, non appena fu possibile, mi avvicinai per cercare di dar loro una mano.
Mi spiegarono che non riuscivano a far scendere i passeggeri, così con buona lena, anche io provai a dar loro supporto per aprire il portellone.
Alcuni minuti e diversi tentativi dopo, finalmente, riuscimmo ad aprire il portellone.

Scesero circa dieci adulti e tre bambini.

Subito dopo, mi avviai verso l’albergo, quando una delle due persone a cui avevo dato una mano, mi raggiunse e mi chiese di unirmi a loro per un veloce coffee break.
Rifiutai, perché non vedevo l’ora di andare a rilassarmi per un po’ in camera, ma avendo capito di essere ospiti dello stesso albergo, mi invitarono ad unirmi a cena con loro.
Accettai, e poco prima del momento della cena, scesi nella hall, dove incontrai il signore conosciuto precedentemente, che si presentò come la guida del gruppo in quella zona, in compagnia di una docente universitaria italiana di meteorologia.
Mi illustrarono le attività che avrebbero dovuto fare in zona e, mi presentarono tutti i partecipanti provenienti un po’ da tutto il mondo.
Del gruppo facevano parte una coppia di donne americane con le loro piccole gemelle di circa cinque anni, una coppia del Marocco con un altro bambino piccolo, un giapponese, un coreano e due giovani ragazze che arrivavano dall’Inghilterra.
A questo variegato gruppo, poco dopo, si aggiunse anche una bellissima ragazza italiana del luogo, che aveva il compito di fare da babysitter ai bambini, soprattutto quando i genitori erano in escursione nelle montagne, ma che sarebbe comunque rimasta con loro per tutto il tempo.

Comunicavano quasi esclusivamente in inglese,

e per me non fu certo semplice riuscire a capire cosa cercassero di dirmi in ogni momento, ma con qualche aiuto e qualche bicchiere di vino, la serata trascorse in modo piacevole.
Mi dissero che erano tutti docenti universitari nelle loro rispettive nazioni e che sarebbero rimasti in quel piccolo paesino per circa quindici giorni, perché volevano capire e studiare quanto le abbondanti piogge influissero sul terreno, che durante la stagione autunnale produceva dei magnifici funghi.
Quella sera ci congedammo, e nei giorni seguenti, la cena multiculturale con tutti loro divenne per me un prerogativa e un momento di convivialità.
Finalmente anche io riuscivo a comunicare un po’ meglio con loro e anche loro iniziarono a parlare con me e a raccontarmi le loro esperienze di vita.
Una domenica andai perfino a fare una escursione con loro.

I giorni che anticiparono la mia partenza trascorsero velocemente.

Ogni tanto, in gruppo andavamo a fare una piacevole passeggiata dopo cena per i borghi del paese, ma in quasi tutte le uscite, ascoltai diverse volte dei brutti commenti riguardanti le persone che erano con me, per via delle loro differenze culturali e fisiche, ma furono comunque delle scene isolate.
Tra le varie cose che notai in quei giorni fu una forte simpatia tra il professore giapponese e la babysitter italiana.
Tutto comunque trascorse in modo tranquillo fino a due sere prima della mia partenza, quando venne organizzato un incontro tra i professori e gli abitanti di quella piccola cittadina, tra cui anche i genitori della ragazza.
Nel susseguirsi dei molteplici interventi della serata, i genitori notarono un feeling tra la loro figlia e il professore, ed il giorno successivo la ragazza fu costretta dai suoi a dimettersi.
Durante la mia ultima sera in loro compagnia regnava un’atmosfera di delusione e sgomento per quello che era accaduto, ma anche quella serata trascorse, e dopo i saluti di rito, rientrai nella mia città.
Ripresa la solita routine quotidiana, mantenni i contatti con quasi tutti i professori che in più di un caso mi invitarono ad andare a trovarli nelle loro rispettive nazioni, ma ancora ad oggi non ci sono andato.”

Terminate queste parole, mi fermai per qualche istante, ed il mio amico mi chiese come mai gli avessi raccontato questa storia…

Dopo questa domanda, continuai con il racconto senza dargli ulteriori spiegazioni:

“In un giorno della scorsa primavera, ricevetti una telefonata da parte del professore giapponese, che dopo le solite domande personali, mi invitò al suo matrimonio in agosto con la ragazza italiana. Rimasi perplesso per qualche istante, ma fui felicissimo per la notizia.
Il 22 di agosto tutti insieme ci rincontrammo.
Erano passati otto anni e mezzo da quando li avevo visti l’ultima volta.
I bambini erano diventati adolescenti e tutti gli altri eravamo invecchiati.
Quando ci ritrovammo, il professore ci mise al corrente del modo in cui era giunto al matrimonio e di come aveva conquistato la sua amata e la sua famiglia.
Tornò in Italia praticamente per una settimana ogni tre mesi subito dopo l’esperienza comunitaria, per vedersi esclusivamente con la sua bella.
Dopo circa tre anni e migliaia di chilometri percorsi tra l’Italia e il Giappone, ebbe il coraggio di tornare nel paese della ragazza per conoscere i suoi.
Nonostante inizialmente fossero un po’ scettici, dopo diversi incontri e il trascorrere di un paio di anni, iniziarono ad apprezzare il professore, ed accettarono che la loro figlia frequentasse quest’uomo.

Così nell’estate precedente a quella attuale, andarono a convivere.

Il professore giapponese mantenne questi suoi viaggi rigorosamente segreti, dato che era rimasto troppo deluso dalla prima reazione dei genitori di lei.
Durante i festeggiamenti, brindammo sia alla nuova coppia di sposi sia all’esserci ritrovati come il gruppo di tanti anni prima.”

Dopo aver terminato il racconto, praticamente sotto casa sua, il mio amico, che nel frattempo era rimasto sorpreso dalla conclusione della storia, mi fece ancora una volta riflettere su quanto nella vita sia importante aiutare gli altri, l’amore e superare i pregiudizi su ogni tipo di discriminazione.

“Una nuova alba è sorta, ma il ricordo non tramonterà.”
Brano di Michele Bruno Salerno
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.

 

————————–
Ringraziamenti

 

Un ringraziamento particolare all’associazione Passepartout.up (Account Facebook), agli organizzatori Edoardo e Biagio ed al trainer del progetto Luca.

Ma soprattutto grazie a tutti voi che avete partecipato:

Afonso, Amjad, Antonia, Barbara, Ben, Brunello, Chaido, Dana, Eva, Giada, Gioia, Giulia, Ioana, Maria, Marisa, Marius, Mihaela, Natacha, Rox, Roxie, Susana, Theoni.