Il crocifisso con il braccio destro staccato

Il crocifisso con il braccio destro staccato

In un’antica cattedrale, appeso ad altezza vertiginosa, c’è un imponente crocifisso d’argento che ha due particolarità.
La prima è la corona di spine sul capo di Gesù:
è tutta d’oro massiccio tempestato di rubini e il suo valore è incalcolabile.

La seconda particolarità è il braccio destro di Gesù:

è staccato e proteso nel vuoto.
Una storia ne spiega il motivo.
Molti anni fa, una notte, un ladro audace e acrobatico progettò un piano perfetto per

impadronirsi della splendida corona d’oro e rubini.

Si calò da uno dei finestroni del tetto legato ad una corda e oscillando arrivò al crocifisso.
Ma la corona di spine era fissata molto solidamente e il ladro aveva solo un coltello per tentare di staccarla.
Infilò la lama del coltello sotto la corona e fece leva con tutte le sue forze.

Provò e riprovò, sudando e sbuffando.

La lama del coltello si spezzò e anche la corda, troppo sollecitata, si staccò dal finestrone.
Il ladro si sarebbe sfracellato sul pavimento, ma il braccio del crocifisso si mosse e lo afferrò al volo.
Al mattino i sacrestani lo trovarono lassù, sano e salvo, tenuto saldamente (e affettuosamente) da Gesù crocifisso.

Brano tratto dal libro “La vita è tutto quello che abbiamo.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

Il maestro di tiro con l’arco e gli allievi

Il maestro di tiro con l’arco e gli allievi

Un grande maestro di tiro con l’arco organizzò una gara tra i suoi allievi per valutare il loro grado di preparazione.
Nel giorno fissato, un bersaglio di legno con al centro un cerchio rosso fu legato su un albero ad una estremità della radura.
All’estremità opposta, fu tracciata sul suolo una linea, dietro la quale si piazzarono i concorrenti.
Un giovane avanzò baldanzosamente, impaziente di dimostrare la sua abilità.
Afferrò saldamente l’arco e una delle frecce, poi si sistemò in posizione di tiro.
“Posso tirare, maestro?” chiese.

Il maestro che lo fissava attentamente gli domandò:

“Vedi i grandi alberi che ci circondano?”
“Sì, maestro, li vedo benissimo tutt’intorno alla radura!” rispose il giovane.
“Bene,” rispose il maestro, “torna con gli altri perché non sei ancora pronto.”
L’allievo, sorpreso, posò l’arco e obbedì.
Un secondo concorrente si fece avanti.
Prese l’arco e la freccia e mirò con cura.
Il maestro si portò di fianco all’arciere e gli chiese:
“Puoi vedermi?”
“Sì, maestro, posso vedervi.
Siete qui vicino a me!” replicò il secondo concorrente.
“Torna a sederti con gli altri.” rispose il maestro, “Tu non potrai mai colpire il bersaglio.”
Tutti i partecipanti, gli uni dopo gli altri, afferrarono l’arco e si prepararono a scoccare la freccia, ma ogni volta il maestro poneva loro una domanda, ascoltava la risposta e li rimandava al loro posto.

La folla sorpresa cominciò a rumoreggiare.

Nessuno degli allievi aveva tirato una sola freccia.
Allora si fece avanti il più giovane degli allievi.
Se n’era stato in disparte, silenzioso.
Tese l’arco poi restò perfettamente immobile, gli occhi fissi davanti a lui.
“Vedi gli uccelli che sorvolano il bosco?” gli chiese il maestro.
“No, maestro, non li vedo!” rispose l’allievo.
“Vedi l’albero sul quale è inchiodato il bersaglio di legno?” domandò allora il maestro.
“No, maestro, non lo vedo!” replicò il giovane.
“Vedi almeno il bersaglio?” lo interrogò.
“No, maestro, non lo vedo!” replicò l’allievo.

Dalla folla degli spettatori si levò una risata.

Come poteva quel ragazzo colpire il bersaglio se non riusciva nemmeno a distinguerlo dall’altra parte della radura?
Ma il maestro impose il silenzio e domandò pacatamente all’allievo:
“Allora, dimmi, che cosa vedi?”
“lo vedo un cerchio rosso!” spiegò il giovane.
“Perfetto!” replicò il maestro, “Tu puoi tirare!”
La freccia solcò l’aria sibilando leggera e si piantò vibrando nel centro del cerchio rosso disegnato sul bersaglio di legno.

Brano senza Autore

Il regno dei fagioli

Il regno dei fagioli

Un re di un potente e prospero regno doveva la sua fortuna alla corona che portava in testa.
La indossava esclusivamente nelle cerimonie ufficiali.
I sudditi non avevano mai saputo da dove provenisse la corona e, per questa ragione, fantasticavano sulle origini della stessa.
La leggenda maggiormente tramandata era riferita ad un ordine cavalleresco, il quale aveva forgiato la corona con tutti i metalli della terra, provenienti dai quattro poli e, per questo, carica di magnetismo.

Questa leggenda era, inoltre,

alimentata da due differenti tabù, quello di non essere mai stata toccata dalle mani del volgo e quello di essere sempre tenuta ben dritta in capo dal regnante, pena la decadenza dei suoi effetti taumaturgici.
Avvenne che le cose del regno non andassero bene, con guerra e carestia all’orizzonte.
I dignitari di corte intuirono che era colpa del re che, ormai vecchio, non portava la corona in modo coretto; o troppo a destra o a sinistra del capo.
Per via degli atavici tabù e della superstizione, il re non tollerava alcuna illazione verbale su di essa, né che la corona venisse toccata da altre mani diverse dalle sue, essendone morbosamente legato.
Per questa ragione nessuno aveva il coraggio di segnalare e correggere l’anomalia di come venisse portata.

Neppure il giullare di corte osava tanto,

nonostante scherzasse pubblicamente sull’obesità del re.
I dignitari allarmati fecero un consiglio segreto per trovare una soluzione, ma non ne vennero a capo.
Decisero, quindi, di consultare l’ortolano di corte, nonché speziale, considerato uomo saggio e avveduto, chiedendogli se avesse qualche rimedio.
Questi propose, come unico espediente capace di raddrizzare la postura del re, di fargli mangiare in abbondanza fagioli alla vigilia delle cerimonie.
Una difficoltà era rappresentata dal fatto che i legumi non fossero previsti nella cucina reale, siccome da poco presenti nelle coltivazioni di quel regno.
Nonostante ciò, al re piacquero tantissimo i nuovi piatti a base di fagioli.
Non intuì mai che la flatulenza che sopraggiungeva in seguito ai pasti consumati era causata dagli zuccheri nobili contenuti in essi, noti per provocare fastidiosi gas intestinali con l’imbarazzante effetto collaterale del soffio dei peti.

I fagioli venivano fatti consumare al grasso re prima delle cerimonie ufficiali che,

trovandosi puntualmente in imbarazzo durante le stesse, era costretto ad assumere una posizione confacente al suo ruolo sul trono, raddrizzando la postura del corpo ed evitando così la caduta della corona, sistemata tempestivamente da lui stesso.
Fortuna e prosperità tornarono in quel regno, nel quale i fagioli divennero pietanza ufficiale apprezzata a corte e dai sudditi, tanto da chiamarsi in seguito “Fagiolandia”.
Il fastidioso disturbo dei legumi fu chiamato per scaramanzia “aria di festa”, dato che, in quel momento di difficoltà, i fagioli salvarono il regno.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Il guardiano

Il guardiano

Un uomo era profondamente legato al suo maestro.
Su lui vegliava affinché non gli si avvicinasse nessun pericolo.
Il maestro viveva sotto una tenda, circondata da una siepe.
La siepe era circondata da un recinto di bambù, il recinto di bambù da un muro di pietra.
Il guardiano dormiva accanto alla porta del muro di pietra.
Da lì teneva d’occhio la strada e poteva sentire la voce del maestro se lo chiamava da dentro la tenda.
Ma, invecchiando, il suo udito peggiorò.

Così decise di avvicinarsi al recinto di bambù.

Quando anche da lì divenne difficile sentire la voce del maestro, il guardiano si spostò di nuovo, a lato della siepe.
Dopo un po’ di tempo iniziò comunque a svegliarsi la notte in preda alla paura di non aver udito il richiamo del maestro nel momento del bisogno.
Allora si mise a far la guardia proprio davanti alla tenda.
Nel silenzio, riconosceva il respiro del maestro ed era felice di vegliare su di lui.

Ma un giorno si svegliò e non udì più niente.

Preoccupato, si precipitò nella tenda.
Era vuota…
Come aveva potuto distrarsi?
Non se lo sarebbe mai perdonato…

Iniziò a cercare il maestro.

Dalla tenda arrivò alla siepe, dalla siepe al recinto di bambù, dal recinto di bambù al muro di pietra.
Là, sulla porta, stava seduto il maestro, che gli disse tranquillo:
“Vai a riposarti nella tenda adesso.
D’ora in poi sarò io il tuo guardiano!”

Brano senza Autore.

Il bambino e l’aquilone

Il bambino e l’aquilone

Una tersa e ventilata mattina di settembre, un bambino, aiutato dal nonno, fece innalzare nel cielo un magnifico aquilone.
Portato dal vento, l’aquilone saliva e saliva sempre più in alto finché divenne solo più un puntolino.

Il filo si srotolava e seguiva l’aquilone verso l’alto,

ma il nonno aveva legato saldamente una estremità del filo al polso del bambino.
Lassù, nell’azzurro, l’aquilone dondolava tranquillo e sicuro, seguendo le correnti.
Due grassi piccioni chiacchieroni, che volavano pigramente, si affiancarono all’aquilone e cominciarono a fare commenti sui suoi colori.
“Sei vestito proprio in ghingheri, amico.” disse uno.

“Dai, vieni con noi.

Facciamo una gara di resistenza.” disse l’altro.
“Non posso.” disse l’aquilone.
“Perché?” chiesero i due piccioni.
“Sono legato al mio padroncino, laggiù sulla terra!” rispose l’aquilone
I due piccioni guardarono in giù.

“Io non vedo nessuno.” disse uno.

“Neppure io lo vedo,” rispose l’aquilone, “ma sono sicuro che c’è perché ogni tanto sento uno strattone al filo!”

Sii felice se ogni tanto Dio dà uno strattone al tuo filo.
Non lo vedi, ma è legato a te.
E non ti lascerà perdere.

Brano tratto dal libro “Ma noi abbiamo le ali.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

L’elefante incatenato

L’elefante incatenato

Quando ero piccolo adoravo il circo, ero attirato in particolar modo dall’elefante che, come scoprii più tardi, era l’animale preferito di tanti altri bambini.
Durante lo spettacolo faceva sfoggio di un peso, una dimensione e una forza davvero fuori dal comune… ma dopo il suo numero, e fino ad un momento prima di entrare in scena, l’elefante era sempre legato ad un paletto conficcato nel suolo, con una catena che gli imprigionava una delle zampe.
Eppure il paletto era un minuscolo pezzo di legno piantato nel terreno soltanto per pochi centimetri e anche se la catena era grossa mi pareva ovvio che un animale del genere potesse liberarsi facilmente di quel paletto e fuggire.

Che cosa lo teneva legato?

Chiesi in giro a tutte le persone che incontravo di risolvere il mistero dell’elefante; qualcuno mi disse che l’elefante non scappava perché era ammaestrato… allora posi la domanda ovvia:
“Se è ammaestrato, perché lo incatenano?”
Non ricordo di aver ricevuto nessuna risposta coerente.

Con il passare del tempo dimenticai il mistero dell’elefante e del paletto.

Per mia fortuna qualche anno fa ho scoperto che qualcuno era stato tanto saggio da trovare la risposta: l’elefante del circo non scappa perché è stato legato a un paletto simile fin da quando era molto, molto piccolo.
Chiusi gli occhi e immaginai l’elefantino indifeso appena nato, legato ad un paletto che provava a spingere, tirare e sudava nel tentativo di liberarsi, ma nonostante gli sforzi non ci riusciva perché quel paletto era troppo saldo per lui, così dopo vari tentativi un giorno si rassegnò alla propria impotenza.

L’elefante enorme e possente che vediamo al circo non scappa perché crede di non poterlo fare:

sulla sua pelle è impresso il ricordo dell’impotenza sperimentata e non è mai più ritornato a provare… non ha mai più messo alla prova di nuovo la sua forza… mai più!

A volte viviamo anche noi come l’elefante pensando che non possiamo fare un sacco di cose semplicemente perché una volta, un po’ di tempo fa ci avevamo provato ed avevamo fallito, ed allora sulla pelle abbiamo inciso “non posso, non posso e non potrò mai.”
L’unico modo per sapere se puoi farcela è provare di nuovo mettendoci tutto il cuore… tutto il tuo cuore!”

Brano tratto dal libro “Lascia che ti racconti. Storie per imparare a vivere.” di Jorge Bucay

Il segreto della bilancia

Il segreto della bilancia

Un uomo gravemente ammalato fu accolto in una comunità e messo in una grande stanza insieme a molti altri ammalati.
Ma poco dopo essere deposto sul suo giaciglio, chiamò a gran voce il superiore.
“In che luogo mi avete portato?” protestò, “Le persone che ho intorno ridono e scherzano come bambini!
Non sono certe ammalate come me!”
“A dire la verità lo sono molto più di lei!” rispose il superiore, “Ma hanno scoperto un segreto, che oggi pochissimi conoscono o in cui, pur conoscendo, non credono più.”

“Quale segreto?” domandò l’uomo.

“Questo!” rispose un anziano dal letto confinante.
Estrasse dal comodino una piccola bilancia, prese un sassolino e lo depose su un piatto; subito l’altro si alzò.
“Che stai facendo?” chiese l’uomo.
“Ti sto mostrando il segreto!
Questa bilancia rappresenta il legame che esiste fra uomo e uomo.

Il sassolino è il tuo dolore che ora ti abbatte.

Ma mentre abbatte te, solleva l’altro piatto della bilancia permettendo ad un altro di gioire.
Gioia e dolore si tengono sempre per mano.
Ma bisogna che il dolore sia offerto, non tenuto per sé; allora fa diventare come bambini e fa fiorire il sorriso anche in punto di morte.”
“Nessuna scienza giustifica quello che tu dici!” fu la riflessione dell’uomo.
“Appunto per questo c’è in giro tanto dolore vissuto con amarezza.

Qui non è questione di scienza ma di fede.

Perché non entri anche tu nella bilancia dell’amore?”
L’uomo accettò la strana proposta.
E fu così che quando guarito, rivisse istanti di gioia, non poté non pensare alla sofferenza degli altri.
E si sentì legato agli uomini di tutto il mondo da un sottile filo d’oro.”

Brano senza Autore, tratto dal Web