La volpe ed il bramino

La volpe ed il bramino

C’era una volta un bramino, un sacerdote dell’India, un po’ ingenuo e molto buono.
Il religioso si muoveva spesso per andare a celebrare cerimonie religiose in luoghi lontani ed isolati.
Un giorno decise di andare a predicare in un villaggio lontano, per raggiungerlo dovette passare attraverso una foresta.
Lungo il cammino incontrò un leone rinchiuso in una gabbia.
Il bramino provò pietà per l’animale e decise di liberarlo, nonostante sapesse che i leoni potevano mangiare gli uomini.

Il leone gli disse:

“Ti giuro che non mangerei mai il mio benefattore!”
Così il buon bramino lo liberò.
A quel punto l’animale disse:
“Come hai potuto pensare che dicessi la verità?
Ho fame e ti mangerò!”
Allora il bramino gli chiese:
“Prima di mangiarmi, sentiamo cosa ne pensa questo albero!”

L’albero rispose:

“Gli uomini sono cattivi.
Io offro loro riparo e refrigerio, e loro per tutta ricompensa mi tagliano e mi uccidono.
Per me lo puoi mangiare!”
Il bramino decise di chiedere un altro parere:
poco lontano, in una radura, c’era un asino che stava brucando… gli fecero la stessa domanda e l’asino rispose:
“Gli uomini?
Creature perfide!
Ci sfruttano tutta la vita, e quando siamo vecchi ci abbandonano.
Mangialo pure!”
In quell’ istante, videro che stava arrivando una volpe:
“Chiediamo anche a lei, disse il bramino, e se anche lei dirà di mangiarmi, potrai mangiarmi!”

La volpe guardò i due e disse:

“Voi mi state prendendo in giro:
ma come faceva un leone così ciccione a stare in una gabbia così piccola?”
Il leone, un po’ alterato, rispose che invece era possibile, e la volpe continuò:
“Sì, e io vi credo!
Figuriamoci un po’… secondo me, mi state prendendo in giro!”
Arrabbiato, il leone entrò nella gabbia e immediatamente la volpe chiuse la porta di ferro e l’assicurò con la sbarra; poi si rivolse al bramino e disse:
“Nella vita non basta essere buoni e bravi, ci vuole sempre un po’ d’astuzia!”
Quel giorno il bramino non andò al villaggio, ma ritornò a casa a meditare su quello che aveva imparato dall’astuta volpe.

Fiaba Indiana
Brano senza Autore.

Il ragazzino e la barca a vela

Il ragazzino e la barca a vela

C’era una volta un ragazzino che aveva costruito una barca a vela.
Ne aveva scavato con cura lo scafo nel legno, l’aveva smerigliato con estrema attenzione dipingendolo infine con ogni possibile delicatezza, poi aveva ritagliato la vela dalla più candida delle stoffe.
Una volta terminato, non vedeva l’ora di varare la sua barchetta e così la portò subito al lago.
Trovò uno spiazzo d’erba vicino alla riva e, inginocchiatosi, depose con cautela il piccolo vascello sul pelo dell’acqua.
Soffiò un pochino nella vela e si mise ad aspettare.
Ma la barca non si muoveva e così il ragazzo soffiò più forte, finché il vento colmò la piccola vela e la barchetta prese il largo.
“Si muove! Si muove!” gridava, battendo le mani e saltando sulla riva del lago.

All’improvviso il ragazzo si fermò.

Si era reso conto di non aver assicurato la barchetta con uno spago.
Vide la sua creatura spingersi sempre più lontano finché non sparì del tutto dalla sua vista.
Il ragazzino era felice e triste nello stesso tempo:
orgoglioso che la sua barca veleggiasse bene, ma triste di averla perduta.
Corse a casa in lacrime.
Qualche tempo dopo, girovagando per il paese, per caso passò davanti da una bottega che vendeva giocattoli vecchi e nuovi.
E in vetrina c’era la sua barca.
Era in estasi.

Corse dentro e disse entusiasta al negoziante:

“Quella è la mia barca.
La mia.”
L’uomo squadrò il ragazzino e rispose:
“Ti sbagli.
L’ho comprata.
Adesso è in vendita!”
“Ma è la mia barca!” gridò il piccolo, “L’ho fatta io.
L’ho varata e poi l’ho persa.
È mia!”
“Ti sbagli!” ripeté il negoziante, “Se la vuoi te la devi comperare.”
“Quanto costa?” chiese il ragazzo.
Quando ebbe sentito il prezzo ebbe un tuffo al cuore.
Nella sua piccola cassaforte, a casa, c’era soltanto qualche spicciolo.
A capo chino se ne uscì dal negozio.
Ma il ragazzino era un tipo deciso.
Tornato a casa, andò nella sua stanza e contò i suoi averi fino all’ultima monetina per scoprire quanto denaro gli mancava per potersi ricomprare la sua preziosa barca.

Fece qualche lavoretto e risparmiò:

adesso aveva i soldi.
Corse di nuovo al negozio, sperando che la barca fosse ancora lì.
Sorrise:
eccola in mezzo alla vetrina al solito posto.
Entrò nel negozio, rovesciò le tasche e depose tutto il suo denaro vicino alla cassa.
“Voglio comprare la mia barca!” esclamò.
Il negoziante prese la barca dalla vetrina e la mise nelle mani del ragazzino, eccitatissimo.
Il piccolo strinse la barchetta al petto e corse a casa dicendosi pieno di orgoglio:
“Tu sei la mia barca.
La mia!
Sei due volte mia!
Mia perché ti ho fatto, e mia perché ti ho riconquistato!”

Brano senza Autore.

L’uomo con la falce

L’uomo con la falce

Diversi anni fa, in una calda giornata di primavera, due comari stavano camminando lungo un alberato viottolo di campagna, raccontandosi, tra sonore risate, gli avventurosi tradimenti fatti ai rispettivi mariti, vantandosi a vicenda.
Arrivate vicino ad una radura, scorsero da lontano un uomo mai visto prima,

molto magro, tanto alto quanto pallido.

Portava un grande cappello di una foggia strana e falciava a grandi bracciate l’erba, nella zona in cui predominavano i papaveri.
La lama della falce, colpita dai raggi del sole, diventava sempre più luccicante.
Lo sconosciuto falciava con così tanta lena che la falce, quando sfiorava la terra, nel tagliare l’erba impregnata di rugiada emetteva un incerto sibilio, che sembrava dicesse:

“Duecento! Trecento!”

Vedendo questa scena ed udendo questo sibilio, le due signore scapparono via spaventate, tornando di corsa al villaggio.
Non appena ebbero ripreso fiato dissero ai propri compaesani:
“Abbiamo appena visto l’uomo della morte con la falce.

Ci ha avvisato che se non cambiamo vita farà duecento, trecento morti!”

Il villaggio, memore di una antica pestilenza che aveva decimato il borgo, credette alle due donne e tutti si misero in riga, dato che erano in tanti, ed in vario modo, a violare le leggi del Signore e della comunità.
Il falciatore altro non era che un povero bracciante venuto da fuori regione, testimone della vita che mai si arrende.
Il suo lavoro era un inno alla vita.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

La favola del pesciolino d’oro

La favola del pesciolino d’oro

C’era una volta un pesciolino d’oro, che un bel giorno prese i suoi sette talenti e guizzò lontano, a cercar fortuna.
Non era arrivato tanto lontano che incontrò un’anguilla, che gli disse:

“Psst, ehilà compare, dove te ne vai?”

“Me ne vado in cerca di fortuna.” rispose fieramente il pesciolino d’oro.
“Sei arrivato nel posto giusto!” disse l’anguilla, “Per soli quattro talenti ti puoi comprare questa magnifica e velocissima pinna, grazie alla quale viaggerai a velocità doppia!”
“Oh, è un ottimo affare!” disse estasiato il pesciolino d’oro.
Pagò, prese la pinna e nuotò via più velocemente di prima.
Arrivò ben presto dalle parti di una grossa seppia, che lo chiamò:

“Ehilà, compare, dove te ne vai?”

“Sono partito in cerca di fortuna.” rispose il pesciolino d’oro.
“La hai trovata, figliolo!” disse la seppia, “Per un prezzo stracciato ti posso vendere questa elica, così viaggerai ancora più in fretta!”
Il pesciolino d’oro comprò l’elica con il denaro che gli era rimasto e ripartì a velocità doppia.
Arrivò ben presto davanti a un grosso squalo, che lo salutò:

“Ehilà, compare, dove te ne vai?”

“Sono in cerca di fortuna.” rispose il pesciolino d’oro.
“La hai trovata.
Prendi questa comoda scorciatoia,” disse lo squalo indicando la sua gola spalancata, “così guadagnerai un sacco di tempo!”
“Oh, grazie mille!” esclamò il pesciolino d’oro e si infilò nelle fauci dello squalo, dove venne comodamente digerito.

Brano tratto dal libro “Cerchi nell’acqua.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

La sperduta (La campana della Basilica di Santa Maria Maggiore a Roma)

La sperduta
(La campana della Basilica di Santa Maria Maggiore a Roma)

A Roma, tanti anni fa, la Basilica di Santa Maria Maggiore era ancora circondata dalla campagna e il suono delle campane, specialmente alla sera, arrivava molto lontano e invitava alla preghiera tutti gli abitanti delle casette sparse nei dintorni.
Da una di quelle casette uscì un giorno una bambina, Maria,

per andare a far visita ad alcuni parenti che abitavano in aperta campagna.

Maria credeva di conoscere bene la strada, invece, sopraggiunta la notte, non seppe più orientarsi e si smarrì tra sentieri e stradicciole, senza riuscire a trovare la strada di casa.
Dopo aver girato e rigirato senza concludere nulla, anzi confondendosi sempre più, si mise a sedere su una pietra e scoppiò in un pianto a dirotto.
Ma nessuno passava di notte per quelle strade e nessuno poteva aiutarla.

Si ricordò della Madonna e incominciò a recitare l’Ave Maria.

Arrivata alle parole “prega per noi peccatori, adesso…”, sentì il suono di una campana.
Il suono si prolungava, si ripeteva, come una voce insistente nella notte.
La bambina seguì quella voce e, di sentiero in sentiero,

si ritrovò alla Basilica di Santa Maria Maggiore e poté tornare a casa.

Da quella volta, la campana che tutte le sere, all’una di notte, suona per qualche minuto è detta “La Sperduta” e ricorda la bambina che si era perduta nella campagna romana e i tanti che si perdono oggi nelle città del mondo.

Brano tratto dal libro “365 Piccole Storie per l’anima.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

I fiori della riconciliazione

I fiori della riconciliazione

Molto tempo fa c’era un paese conosciuto in tutto il mondo per le sue terre fertili ed i suoi raccolti incredibilmente abbondanti.
Un giorno vi arrivò da lontano un uomo assai povero con la sua famiglia.
Si stabilì in una casetta abbandonata, che cadeva a pezzi, con un piccolo orto; il comune pretese comunque un affitto mensile.
Lo straniero aveva portato dal suo paese semi di piante sconosciute e iniziò a coltivare il piccolo orto seminando proprio quelle piante.

La gente del posto fu presa subito da mille paure:

e se quei semi avessero appestato la loro bella terra?
E se quelle piante sconosciute avessero inaridito i loro fertili campi?
Fu così che un mattino la famigliola si svegliò e trovò la propria casa circondata dal filo spinato.
Qualcuno, quella stessa notte, si era dato da fare per evitare che i sospetti e le paure si tramutassero in realtà.
Successe poi qualcosa di molto strano:
la terra fertile di quel paese smise di dare i soliti abbondanti frutti, iniziò a produrre erbacce e piante infestanti.
La gente del paese viveva giorni terribili di disperazione, presto sarebbe caduta nella miseria.
Stranamente, l’unica terra che continuava a dare buoni frutti era quella del piccolo orto della famiglia straniera.

Un mattino accadde però qualcosa di strano:

appeso alla porta di ogni casa, vi era un sacchetto di semi, erano semi nuovi, particolari, sconosciuti.
Un contadino tra i più anziani, senza porsi troppe domande, li seminò nel suo campo, ormai non c’era più nulla da perdere, quindi per curiosità volle vedere di che cosa si trattava.
In poco tempo quei semi germogliarono e spuntarono meravigliosi fiori blu.
Tutti ridevano, certo erano belli ma il problema serio era la miseria che sopraggiungeva e quei fiori non davano certo da mangiare!
Ma la cosa straordinaria doveva ancora avvenire:
man mano che spuntavano i fiori, sparivano le erbe infestanti e la terra tornava fertile e ricominciava a produrre frutti abbondanti.
Soltanto allora la gente cominciò a domandarsi da dove provenissero quei semi.
A dare la risposta furono i bambini, perché soltanto loro si erano accorti che quei fiori da tempo abbellivano l’orto della nuova famiglia straniera.
Compresero tutti il gesto buono e generoso di quell’uomo che aveva trovato tanta inospitalità e si era visto separato dal resto del paese da un filo spinato,

eppure aveva teso la sua mano e cercato la pace donando l’unica cosa che possedeva:

semi di fiori blu.
Quella stessa notte il filo spinato scomparve, il giorno successivo la nuova famiglia ricevette molte visite e altrettanti doni da parte della gente del paese.
E furono i bambini a voler dare il nome a quei meravigliosi fiori blu, furono chiamati:
i fiori della riconciliazione!
I fiori in questione erano delle meravigliose ortensie blu.

Brano senza Autore.

L’albero prodigioso

L’albero prodigioso

In un paese lontano si trovava un albero prodigioso.
Nessuno conosceva la sua età.
Alcuni dicevano che era più vecchio della terra.
Donne e uomini venivano a supplicarlo.
Anche i lupi, nelle notti senza luna, ululavano verso di lui.

Ma nessuno osava mangiare i suoi frutti.

Eppure erano frutti magnifici, enormi, innumerevoli, che pendevano dalle due ramificazioni dell’albero.
Metà di questi frutti erano velenosi.
Nessuno sapeva quale delle due metà.
Dei due grandi rami, uno portava la vita, l’altro la morte.
Venne una grande carestia e la gente del paese soffriva la fame.
Solo l’albero rimaneva imperturbabile, carico di frutti splendidi.

Gli abitanti dei dintorni si avvicinavano indecisi e timorosi.

Erano affamati e soffrivano, ma non volevano morire avvelenati.
Ma, un giorno, un uomo che stava per morire si fermò sotto il ramo di destra, raccolse un frutto e lo mangiò senza esitare.
Rimase in piedi, tranquillo, con un respiro che si faceva sempre più gioioso.
Tutti di colpo si accalcarono verso il ramo di destra e cominciarono a mangiare quei frutti deliziosi e salutari.
Alla sera, gli abitanti dei posto si riunirono in consiglio.
Il ramo di sinistra era non solo inutile, ma anche pericoloso.

Decisero di reciderlo con decisione, dal tronco.

Il giorno dopo, tutti si svegliarono presto e si affrettarono a cercare il loro cibo.
Tutti i frutti del ramo di destra erano caduti in terra e imputridivano nella polvere.
Gli uccelli che abitavano tra le foglie erano scomparsi.
L’albero era morto durante la notte.

Brano tratto dal libro “La vita è tutto quello che abbiamo.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

I bergamaschi

I bergamaschi

Gli anni che la vita ci riserva sono tutti unici e preziosi, e quello che trascorsi da militare è ben vivo nella mia memoria.
Lo considerai un anno sabbatico, lontano da casa e da impegni.
Lo passai molto serenamente, mai in ozio, frequentando tutti i corsi proposti.
Ad esempio, conseguì la licenza di terza media, che ancora non avevo, vivendo comunque i miei 20 anni.

La caserma era come un alveare, tutti avevano una mansione.

Mi assegnarono l’incarico di autista di camion e questo mi permetteva di avere tanto tempo libero.
Tempo che dedicavo alla lettura, leggendo libri che mi venivano prestati dal cappellano militare.
Ebbi modo di conoscere ed apprezzare due bravi ragazzi bergamaschi, che mi onoravano della loro amicizia.
Ci ritrovammo nella stessa camerata, con i letti vicini, ed io, vedendoli veramente stanchi la sera, rifacevo anche i loro.
Il loro incarico fu quello di effettuare la manutenzione ordinaria della caserma ed il loro lavoro lo presero veramente sul serio, svolgendo tutto in maniera ammirevole,

con riparazioni e manutenzioni fatte a regola d’arte.

La caserma era una base missilistica, soggetta a costanti controlli Nato ed era, anche grazie a loro, sempre in ordine.
Mi confermarono così la nomea che per lavoro i bergamaschi non hanno pari e, per questo, a mio avviso, vennero un po’ sfruttati.
Gli unici due privilegi loro concessi furono quello di non fare la fila alla mensa e quello di non dover fare turni di guardia, essendo sempre impegnati.
Pochi giorni prima del nostro congedo si ruppe il sistema fognario e le competenze, ed il lavoro, dei due bergamaschi risultarono indispensabili.

Vennero trattenuti con una punizione.

Restammo tutti sorpresi poiché, a nostro avviso, dovevano essere premiati con il grado di caporali.
Ma, nonostante questo, con nostra grande meraviglia, li vedemmo lavorare alacremente senza lamentarsi, anzi quasi felici di farlo per il bene collettivo.
Diedero a tutti una grande lezione, come tantissimi italiani che, in seguito, apprezzai per aver fatto grande l’Italia con il loro operare silenzioso.

In questo momento di difficoltà, un grande abbraccio virtuale va a tutti i cittadini italiani, in particolare ai bresciani ed ai bergamaschi, i più colpiti dal coronavirus.
Ed un grande applauso ai dottori, agli infermieri ed alle forze dell’ordine.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Il re ed il principe

Il re ed il principe

Un giorno, un re, per punire suo figlio, lo mandò in esilio in un paese lontano.
Il principe soffrì la fame e il freddo, perse la speranza di ottenere il perdono reale.

Passarono gli anni.

Un giorno, il re inviò al figlio un ambasciatore con l’ordine di esaudire tutti i suoi desideri, tutte le sue aspirazioni.
L’ambasciatore lo disse al principe, che lo guardò stupito e rispose soltanto:

“Dammi un pezzo di pane e un cappotto caldo!”

Aveva completamente dimenticato che era un principe e che poteva ritornare nel palazzo di suo padre a vivere da re.

Brano senza Autore.

Il novizio ed il puledro di razza

Il novizio ed il puledro di razza

Un saggio abate volle un giorno mettere alla prova il più promettente tra i suoi novizi.
Chiamò a sé il giovane.

“Ascolta Pietro, voglio farti un dono.” disse,

“Ti regalerò un cavallo di razza che tu potrai cavalcare e usare a tuo piacimento, se sarai capace di recitarmi dal principio alla fine il Padre Nostro senza mai neppure per un istante distogliere il tuo pensiero dalla preghiera.”
“Oh,” rise Pietro meravigliato, “è puerile padre, quel che mi chiedete.
E davvero io in premio potrei avere un cavallo?”
Impaziente com’era di vedersi in groppa a un bel puledro di razza, il giovane cominciò la sua orazione:

“Padre Nostro che sei nei cieli…”

Ma il suo pensiero era lontano dalle parole di fede:
inseguendo il bel sogno, Pietro mormorava meccanicamente:
“Venga il Tuo regno… come in cielo così in terra…” e ad un certo punto si trovò senza accorgersene a chiedere:

“Ma il cavallo, avrà poi una sella perché io lo possa montare?”

L’abate rise divertito e consolò il giovane.
In fondo era stato un’ottima lezione.

Leggenda della Navarra.
Brano senza Autore.