Due racconti di Bruno Ferrero sulla vita

Due racconti di Bruno Ferrero sulla vita
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Il saggio e la noce di cocco

La vita non può essere un trattino tra due date

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“Il saggio e la noce di cocco”

 

Una scimmia da un albero gettò una noce di cocco in testa ad un saggio.
L’uomo la raccolse, ne bevve il latte, mangiò la polpa, e con il guscio si fece una ciotola.

La vita non smetterà mai di gettarci addosso palate di terra o noci di cocco, ma noi riusciremo a uscire dal pozzo,

se ogni volta reagiremo.

Ogni problema ci offre l’opportunità di compiere un passo avanti.
Ogni problema ha una soluzione, se non ci diamo per vinti…

Brano tratto dal libro “Ma noi abbiamo le ali.” Editrice ElleDici.
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“La vita non può essere un trattino tra due date”

 

L’incisore di lapidi funerarle alzò lo scalpello e disse:
“Ho finito!”
L’uomo esaminò la pietra:
la foto del padre, le due date 1916 e 2000 separate, soltanto, da un trattino di un paio di centimetri.

Poi scosse la testa e disse:

“Non so come spiegarmi, ma mi sembra così poco.
Vede, mio padre ha avuto una vita piena, lunga, avventurosa.
Vorrei si intuisse in qualche modo la sua infanzia in una grande famiglia, la campagna ricca di verde e di animali, i lavori pesanti, la soddisfazione di un buon raccolto, le preoccupazioni per i temporali estivi, la siccità…
Poi la guerra, le divise, le tradotte, la ferita, la fuga da un campo di prigionia, l’incontro con mia madre…
I figli che nascono, crescono, si sposano, i nipotini che arrivano uno dopo l’altro…
Poi la vecchiaia serena, la malattia, certo, ma anche l’affetto, l’amore, l’entusiasmo, la passione, le lunghe giornate di lavoro, le ansie, le preoccupazioni, le gioie…”
L’incisore ascoltava con attenzione, poi impugnò lo scalpello e il martello e con quattro rapidi colpi allungò il trattino tra la data di nascita e quella di morte di quasi mezzo centimetro.

Si voltò verso l’uomo e fece:

“Va meglio così?”

La vita non può essere un trattino tra due date.
Abbraccia ogni istante della tua vita.
Adesso.
La vita è tutto quello che hai.

Brano tratto dal libro “La vita è tutto quello che abbiamo.” Edizioni ElleDiCi.

L’amicizia in istituto

L’amicizia in istituto

Il piccolo e zoppo Leonardo (detto Leo) e Tommaso erano arrivati all’istituto per bambini senza famiglia lo stesso giorno, pochi mesi dopo la nascita.
Le volontarie erano molto buone con loro, un po’ meno i bambini della scuola pubblica che frequentavano.
Erano crudeli spesso con il timido Leo, ma Tommaso sapeva metterli a posto, perché era un bambino robusto e intelligente:

il più bravo a scuola e il più svelto in cortile.

Era Tommaso che aiutava Leo, gli stava sempre vicino.
Lo consolava quando aveva paura, lo aspettava durante le passeggiate, giocava con lui perché non sentisse la malinconia del suo handicap, lo faceva ridere raccontandogli le storie buffe.
All’istituto venivano spesso le coppie che facevano conoscenza con i bambini e li portavano fuori a mangiare in vista di una possibile adozione.
Nessuno si interessava a Leo e Tommaso inventava sempre una scusa o si metteva a fare mattane per non uscire.
Lo aveva fatto solo due volte, con il dottor Turrini e sua moglie Anna.
Una domenica, il dottor Turrini chiamò Tommaso e lo guardò negli occhi:
“Sei un bambino veramente in gamba!

Ti piacerebbe venire a vivere con noi?

Saresti in affidamento per un po’, ma noi ti vorremmo adottare.
Come un vero figlio.
Che ne dici?”
Tommaso rimase senza parole.
Avere una mamma e un papà, come tutti.
“Oh, oh s-s-sì, signore!” mormorò.
Improvvisamente la gioia svanì dai suoi occhi.
Se Tommaso se ne andava, chi si sarebbe preso cura del piccolo e zoppo Leo?
“lo … vi ringrazio tanto, signore!” disse, “Ma non posso venire, signore!”

E prima che il dottore scorgesse le sue lacrime, corse via.

Poco dopo, il dottore lo andò a cercare con una delle volontarie.
Tommaso stava aiutando Leo a infilarsi la scarpa speciale.
Il dottore lanciò uno sguardo penetrante a Tommaso:
“È per lui che non sei voluto venire a stare con noi, figliolo?”
“Beh, io … io sono tutto quello che lui ha.” rispose il bambino.

Brano tratto dal libro “Ma noi abbiamo le ali.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

La luce nella caverna

La luce nella caverna

San Pacomio voleva conoscere il significato della vita e meditava ogni giorno le parole sacre e quelle dei sapienti per scoprirne il segreto.
Una notte il Signore lo accontentò e gli mandò un sogno.

Pacomio vide che il mondo era una immensa caverna nera e buia.

In essa gli esseri umani si aggiravano a tentoni, urtandosi, talvolta ferendosi, incespicando, sempre più sfiduciati e depressi perché non riuscivano a trovare una via d’uscita.
Poi, improvvisamente, un uomo (o una donna) accese una luce.
Una luce minuscola, ma non esiste tenebra così profonda da non poter essere vinta da una luce anche piccolissima.
Con una luce si può sempre trovare una via di scampo, così tutti si misero dietro alla persona che aveva il lumino.
Dapprima si accalcarono, ostacolandosi a vicenda, poi cercarono di mettersi in fila indiana.

Ma erano tanti e il buio era profondo e la luce appena percettibile.

Alla fine trovarono la soluzione adeguata:
si presero tutti per mano.

Brano tratto dal libro “Ma noi abbiamo le ali.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

La lista della spesa e la preghiera

La lista della spesa e la preghiera

Una donna infagottata in abiti fuori misura entrò nel negozio di alimentari.
Si avvicinò al gestore del negozio e, umilmente a voce bassa, gli chiese se potesse avere una certa quantità di alimenti a credito.
Gli spiegò che suo marito si era ammalato in modo serio e non poteva più lavorare e i loro quattro figli avevano bisogno di cibo.
L’uomo sbuffò e le intimò di togliersi dai piedi.

Dolorosamente la donna supplicò:

“Per favore signore!
Le porterò il denaro più in fretta che posso!”
Il padrone del negozio ribadì duramente che lui non faceva credito e che lei poteva andare in un altro negozio nel quartiere.
Un cliente che aveva assistito alla scena si avvicinò al padrone e gli chiese di tentare almeno di accontentare la povera donna.
Il droghiere con voce riluttante, chiese alla donna:
“Hai una lista della spesa?”

Con un filo di speranza nella voce, la donna rispose:

“Sì, signore!”
“Bene,” disse l’uomo, “Metta la sua lista sulla bilancia.
Le darò tanta merce quanto pesa la sua lista.”
La donna esitò un attimo con la testa china, estrasse dalla borsa un pezzo di carta e scarabocchiò qualcosa in fretta, poi posò il foglietto con cautela su un piatto della bilancia, sempre a testa bassa.
Gli occhi del droghiere e del cliente si dilatarono per la meraviglia quando videro il piatto della bilancia abbassarsi di colpo e rimanere abbassato.
Il droghiere fissando la bilancia, brontolò:
“È incredibile!”
Il cliente sorrise e il droghiere cominciò a mettere sacchetti di alimenti sull’altro piatto della bilancia.
Sbatteva sul piatto scatole e lattine, ma la bilancia non si muoveva.
Così continuò e continuò, con una smorfia di disgusto sempre più marcata.
Alla fine afferrò il foglietto di carta e lo fissò, livido e confuso.

Non era una lista della spesa.

Era una preghiera:
“Mio Dio, tu conosci la mia situazione e sai ciò di cui ho bisogno:
metto tutto nelle tue mani.”
Il droghiere consegnò alla donna tutto ciò che le serviva, in un silenzio imbarazzato.
La donna ringraziò e lasciò il negozio.

Brano tratto dal libro “Ma noi abbiamo le ali.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Il bambino e l’aquilone

Il bambino e l’aquilone

Una tersa e ventilata mattina di settembre, un bambino, aiutato dal nonno, fece innalzare nel cielo un magnifico aquilone.
Portato dal vento, l’aquilone saliva e saliva sempre più in alto finché divenne solo più un puntolino.

Il filo si srotolava e seguiva l’aquilone verso l’alto,

ma il nonno aveva legato saldamente una estremità del filo al polso del bambino.
Lassù, nell’azzurro, l’aquilone dondolava tranquillo e sicuro, seguendo le correnti.
Due grassi piccioni chiacchieroni, che volavano pigramente, si affiancarono all’aquilone e cominciarono a fare commenti sui suoi colori.
“Sei vestito proprio in ghingheri, amico.” disse uno.

“Dai, vieni con noi.

Facciamo una gara di resistenza.” disse l’altro.
“Non posso.” disse l’aquilone.
“Perché?” chiesero i due piccioni.
“Sono legato al mio padroncino, laggiù sulla terra!” rispose l’aquilone
I due piccioni guardarono in giù.

“Io non vedo nessuno.” disse uno.

“Neppure io lo vedo,” rispose l’aquilone, “ma sono sicuro che c’è perché ogni tanto sento uno strattone al filo!”

Sii felice se ogni tanto Dio dà uno strattone al tuo filo.
Non lo vedi, ma è legato a te.
E non ti lascerà perdere.

Brano tratto dal libro “Ma noi abbiamo le ali.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Il leone, il moscerino ed il ragno

Il leone, il moscerino ed il ragno

Sulla riva del ruscello, un moscerino minuscolo si era addormentato.
Ma dal profondo della foresta arrivò un ruggito sordo e possente.
Il povero moscerino sì spaventò terribilmente.
Un grande, grosso, grasso leone alla ricerca della cena, ruggiva a pieni polmoni.
Il moscerino gridò indignato:
“Ehilà! La volete smettere?
Cos’è tutto sto trambusto?
Non potete lasciar dormire in pace la brava gente?
Che diritto avete di stare qui?”
Il leone sbuffò:
“Che diritto?
Il mio diritto!

Io sono il re della foresta.

Faccio quello che mi piace, dico quello che mi piace, mangio chi mi piace, vado dove mi piace, perché io sono il re della foresta!”
“Chi ha detto che voi siete il re?” domandò tranquillamente il moscerino.
“Chi l’ha detto?…” ruggì il leone, “Io lo dico, perché io sono il più forte e tutti hanno paura di me.”
“Ma io, tanto per fare un esempio, non ho paura di voi, quindi voi non siete re.”
“Non sono re? Ripetilo se hai coraggio!”.
“Certo, lo ripeto. E non sarete re se non vi battete contro di me e non vincete.”
“Battermi con te?” sbuffò il leone calmandosi un po’.

“Chi ha mai sentito niente di simile?

Un leone contro un moscerino?
Piccolo atomo insignificante, con un soffio ti mando in capo al mondo!”
Ma non mandò niente da nessuna parte.
Ebbe un bel soffiare e sforzarsi con tutta la forza dei polmoni.
Tutto quel che ottenne fu un moscerino che faceva l’altalena sullo stelo d’erba e gridava:
“Sono più forte di voi!
Sono io il re!”
Allora il leone perse definitivamente il senso delle proporzioni e si buttò avanti a fauci spalancate per inghiottire il moscerino, ma inghìotti solo una zolla d’erba.
E l’astuto insettino dov’era?
Proprio in una narice del leone e là cominciò a solleticarlo e punzecchiarlo.
Il leone sbatteva la testa contro gli alberi, si graffiava con i suoi unghioni, strepitava, ruggiva…
“Oh! Il mio naso!
Il mio povero naso!
Pietà!
Esci di lì!
Sei tu il re della foresta, sei tutto quello che vuoi…

Ma esci dal mio naso!” piagnucolò infine il leone.

Allora il moscerino volò fuori dalla narice del leone, che mortificato e umiliato sparì nel profondo della foresta.
Il moscerino cominciò a danzare di gioia:
“Sono il re, re, re, re!
Ho battuto un leone!
L’ho fatto scappare!
Sono il più forte e il più furbo, io!”.
A forza di saltellare, esultando, qua e là, il moscerino non si accorse di essersi avvoltolato in qualche cosa di fine, e di leggero e di forte… dei lunghi fili bianchi, quasi invisibili tra i fili d’erba e che si attorcigliavano intorno al corpo dell’insetto, legando le sue zampe e le sue ali.
Il ragno arrivò sulle sue otto zampe, borbottando:
“Che bello stuzzichino per la cena…”

Grossi o piccoli, i superbi sono sempre stupidi.

Brano tratto dal libro “Ma noi abbiamo le ali.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Il cappellino

Il cappellino

“Se non me lo lasci fare non potrò andare a scuola!
Mi vergognerei troppo…
È terribilmente importante, mamma!”
Elena scoppiò a piangere.
Era la sua arma più efficace.
“Uffa, fa’ come vuoi…” brontolò la madre, sbattendo il cucchiaino nel lavello, “Sembrerai un mostro. Peggio per te!”
In altre 23 famiglie stava avvenendo una scenetta più o meno simile.
Erano i ragazzi della Seconda B della Scuola Media “Carlo Alberto di Savoia.”
Per quel giorno avevano preso una decisione importante.

Ma gli allievi della Seconda B erano 25.

In effetti, solo nella venticinquesima famiglia, le cose stavano andando in un modo diverso. Elisabetta era un concentrato di apprensione, la mamma e il papà cercavano di incoraggiarla.
Era la quindicesima volta che la ragazzina correva a guardarsi allo specchio.
“Mi prenderanno in giro, lo so.
Pensa a Marisa che non mi sopporta o a Paolo che mi chiama canna da pesca!
Non aspetteranno altro!”
Grossi lacrimoni salati ricominciarono a scorrere sulle guance della ragazzina.
Cercò di sistemarsi il cappellino sportivo che le stava un po’ largo.
Il papà la guardò con la sua aria tranquilla:
“Coraggio Elisabetta.

Ti ricresceranno presto.

Stai reagendo molto bene alla cura e fra qualche mese starai benissimo!”
“Sì, ma guarda!” Elisabetta indicò con aria affranta la sua testa che si rifletteva nello specchio, lucida e rosea.
La cura contro il tumore che l’aveva colpita due mesi prima le aveva fatto cadere tutti i capelli.
La mamma la abbracciò:
“Forza Elisabetta!
Si abitueranno presto, vedrai…”
Elisabetta tirò su con il naso, si infilò il cappellino, prese lo zainetto e si avviò.
Davanti alla porta della Seconda B, il cuore le martellava forte.

Chiuse gli occhi ed entrò.

Quando riaprì gli occhi per cercare il suo banco, vide qualcosa di strano.
Tutti, ma proprio tutti, i suoi compagni avevano un cappellino in testa!
Si voltarono verso di lei e sorridendo si tolsero il cappello esclamando:
“Bentornata Elisabetta!”
Erano tutti rasati a zero, anche Marisa così fiera dei suoi riccioli, anche Paolo, anche Elena e Giangi e Francesca…
Tutti!
Ma proprio tutti!
Si alzarono e abbracciarono Elisabetta che non sapeva se piangere o ridere e mormorava soltanto: “Grazie…”
Dalla cattedra, sorrideva anche il professor Donati, che non si era rasato i capelli, semplicemente perché era pelato di suo e aveva la testa come una palla da biliardo.

Brano tratto dal libro “Ma noi abbiamo le ali.” di Bruno Ferrero

Il club del novantanove

Il club del novantanove

C’era una volta un re molto triste che aveva un servo molto felice che circolava sempre con un grande sorriso sul volto.
“Paggio,” gli chiese un giorno il re, “qual è il segreto della tua allegria?”
“Non ho nessun segreto.
Signore, non ho motivo di essere triste.
Sono felice di servirvi.
Con mia moglie e i miei figli vivo nella casa che ci è stata assegnata dalla corte.
Ho cibo e vestiti e qualche moneta di mancia ogni tanto.”
Il re chiamò il più saggio dei suoi consiglieri:
“Voglio il segreto della felicità del paggio!”
“Non puoi capire il segreto della sua felicità.
Ma se vuoi, puoi sottrargliela!” esclamò il saggio.

“Come?” chiese il re.

“Facendo entrare il tuo paggio nel giro del novantanove.” rispose il saggio.
“Che cosa significa?” domandò il sovrano.
“Fa’ quello che ti dico…” concluse il saggio
Seguendo le indicazioni del consigliere, il re preparò una borsa che conteneva novantanove monete d’oro e la fece dare al paggio con un messaggio che diceva:
“Questo tesoro è tuo.
Goditelo e non dire a nessuno come lo hai trovato!”
Il paggio non aveva mai visto tanto denaro e pieno di eccitazione cominciò a contarle:
dieci, venti, trenta, quaranta, cinquanta, sessanta… novantanove!
Deluso, indugiò con lo sguardo sopra il tavolo, alla ricerca della moneta mancante.

“Sono stato derubato!” gridò, “Sono stato derubato! Maledetti!”

Cercò di nuovo sopra il tavolo, per terra, nella borsa, tra i vestiti, nelle tasche, sotto i mobili…
Ma non trovò quello che cercava.
Sopra il tavolo, quasi a prendersi gioco di lui, un mucchietto di monete splendenti gli ricordava che aveva novantanove monete d’oro.
Soltanto novantanove.
“Novantanove monete.
Sono tanti soldi,” pensò, “ma mi manca una moneta.
Novantanove non è un numero completo!” pensava, “Cento è un numero completo, novantanove no!”

La faccia del paggio non era più la stessa.

Aveva la fonte corrugata e i lineamenti irrigiditi.
Stringeva gli occhi e la bocca gli si contraeva in una orribile smorfia, mostrando i denti.
Calcolò quanto tempo avrebbe dovuto lavorare per guadagnare la centesima moneta, avrebbe fatto lavorare sua moglie e i suoi figli.
Dieci dodici anni, ma ce l’avrebbe fatta!
Il paggio era entrato nel giro del novantanove…
Non passò molto tempo che il re lo licenziò.
Non era piacevole avere un paggio sempre di cattivo umore.

Se ci rendessimo conto, così di colpo, che le nostre novantanove monete sono il cento per cento del tesoro?
E che non ci manca nulla, nessuno ci ha portato via nulla, il numero cento non è più rotondo del novantanove.
È soltanto un tranello, una carota che ci hanno messo davanti al naso per renderci stupidi, per farci tirare il carretto, stanchi, di malumore, infelici e rassegnati.
Un tranello per non farci mai smettere di spingere.

Brano tratto dal libro “Ma noi abbiamo le ali.” di Bruno Ferrero

Dov’è il mio bacio?


Dov’è il mio bacio?

C’era una volta una bambina che si chiamava Cecilia.
Il papà e la mamma della bambina lavoravano tanto.
La loro era una bella famiglia e vivevano felici.
Mancava solo una cosa, ma Cecilia non se ne era mai accorta.
Un giorno, quando aveva nove anni, andò per la prima volta a dormire a casa della sua amica Adele.
Quando fu ora di dormire, la mamma di Adele rimboccò loro le coperte e diede a ognuna il bacio della buonanotte.

“Ti voglio bene!” disse la mamma ad Adele.

“Anch’io!” sussurrò la bambina.
Cecilia era così sconvolta che non riuscì a chiudere occhio.
Nessuno le aveva mai dato il bacio della buonanotte o le aveva detto di volerle bene.
Rimase sveglia tutta la notte, pensando e ripensando:
“È così che dovrebbe essere!”
Quando tornò a casa, non salutò i genitori e corse in camera sua.
Li odiava.
Perché non l’avevano mai baciata?
Perché non l’abbracciavano e non le dicevano che le volevano bene?

Forse non gliene volevano?

Cecilia pianse fino ad addormentarsi e rimase arrabbiata per diversi giorni.
Alla fine decise di scappare di casa.
Preparò il suo zainetto, ma non sapeva dove andare!
Era bloccata per sempre con i genitori più freddi e peggiori del mondo.
All’improvviso, trovò una soluzione.
Andò dritta da sua madre e le stampò un bacio sulla guancia:
“Ti voglio bene!”
Poi corse dal papà, lo abbracciò e gli disse:
“Buonanotte papà!
Ti voglio bene!”

Quindi andò a letto, lasciando i genitori ammutoliti in cucina.

Il mattino seguente, quando scese per colazione, diede un bacio alla mamma e uno al papà.
Alla fermata dell’autobus si sollevò in punta di piedi e diede ancora un bacio alla mamma:
“Ciao, mamma.
Ti voglio bene!”
Cecilia andò avanti così giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, mese dopo mese.
A volte, i suoi genitori si scostavano, rigidi e impacciati.
A volte ne ridevano.
Ma Cecilia non smise.
Aveva il suo piano e lo seguiva alla lettera.
Poi, una sera, si dimenticò di dare il bacio alla mamma prima di andare a letto.
Poco dopo, la porta della sua camera si aprì e sua madre entrò.
“Allora, dov’è il mio bacio?” chiese, fingendo di essere contrariata.
Cecilia si sollevò a sedere:
“Oh, l’avevo scordato!”

La baciò e poi:

“Ti voglio bene, mamma!”
Quindi tornò a coricarsi e chiuse gli occhi.
Ma la mamma rimase lì e alla fine disse:
“Anch’io ti voglio bene!”
Poi si chinò e baciò Cecilia proprio sulla guancia.
Poi aggiunse con finta severità:
“E non ti dimenticare più di darmi il bacio della buonanotte!”
Cecilia rise e promise:
“No mamma, non succederà più!”

Brano tratto dal libro “Ma noi abbiamo le ali.” di Bruno Ferrero. Casa editrice ElleDici.