Il Re che non sapeva ascoltare

Il Re che non sapeva ascoltare

C’era una volta un Re che non sapeva ascoltare.
Quando i suoi sudditi si rivolgevano a lui, li interrompeva non appena aprivano bocca e gridava: “Va bene, va bene, ho capito!
Ti credo!
Guardie, dategli mille monete d’oro!”
Oppure:
“Basta, basta, non ti credo!
Guardie, frustatelo e buttatelo fuori di qui!”
Insomma, il Re era un tipo lunatico e agiva secondo il suo umore.
Non voleva saperne di ascoltare, e quindi era buono e generoso con le persone sbagliate, e viceversa.

I sudditi lo sapevano bene, cercavano di girare alla larga dal castello e speravano ardentemente di non aver mai niente a che fare con il re.

Ma quelli che ci rimettevano più degli altri erano la sua povera moglie e i due principini, perché il re non solo non li ascoltava, ma giudicava stupido e senza senso tutto quello che loro dicevano.
Li criticava continuamente e non prestava mai attenzione alle loro parole, neppure quando gli parlava con la voce del cuore e dell’affetto.
Se, per esempio, la principessina Adelaide si avvicinava al regale papà per mostrargli il disegno fatto a scuola, dicendo timidamente:
“Papà, guarda questo…” il re la interrompeva con aria infastidita e borbottava:
“Va bene, va bene eccoti una moneta d’oro…”
Se il principino Roberto osava chiedere:
“Dove vanno quelli che muoiono?” il regale papà lo zittiva dicendo:

“Piantala con queste stupidaggini!”

Un giorno, il re e la regina litigarono furiosamente, e dal momento che la donna ribadiva le sue ragioni, il re la spinse giù dal trono.
Poi si mise a spiegare alla moglie che se le aveva fatto del male era per il suo bene, e che avrebbe dovuto ringraziarlo, per questo.
La regina, profondamente offesa e indignata, con le ossa rotte e doloranti, gli lanciò una terribile maledizione:
“Che te ne fai di due orecchi, dal momento che non ascolti mai nessuno?
Tu non fai che parlare: bla, bla bla e ancora bla!
Vorrei che ti cadessero le orecchie e che ti venissero due bocche!”
Il Mago Cavatorti, lontano parente della regina, si trovava per caso nelle vicinanze e sentì la maledizione della donna.
Conosceva il re, e sapeva di cosa era capace.
Così, impietosito dalla triste sorte della regina, esaudì il suo desiderio.

Il Mago si presentò al re e gli agitò sotto il naso la nodosa bacchetta di legno di nespolo.

Il re che non voleva mai ascoltare cadde in un sonno profondo, e quando si risvegliò si ritrovò con due bocche identiche, una accanto all’altra, e un orecchio minuscolo sulla fronte, vagamente simile a un cece.
Le altre due orecchie, invece, giacevano sul cuscino come foglie secche.
All’inizio, il re ringraziò il Mago per quel bellissimo regalo.
Adesso poteva parlare più velocemente e ad alta voce.
Ma ben presto si rese conto che non riusciva più a stare zitto.
Parlava, parlava sempre, senza un attimo di tregua.
E mentre beveva e mangiava con una bocca, con l’altra continuava a parlare.

Per i poveri sudditi le cose peggiorarono.

Se prima non ascoltava, adesso il re non faceva che straparlare e interrompere gli altri.
E la moglie che già non sopportava una bocca del marito, con la seconda non ce la faceva proprio più.
Inoltre, il re ora russava il doppio, e la notte non le faceva chiudere occhio.
Con il passare del tempo, il re cominciò ad ascoltare solo le sue due voci, ed amici e nemici presero ad evitarlo come la peste.
Insomma, era insopportabile.
Anche gli affari di stato peggiorarono.
Quando arrivavano gli ambasciatori dei regni vicini con i messaggi dei loro sovrani, il re non prestava la minima attenzione alle loro parole, anzi se quelli parlavano di “terra” capiva “guerra”, se dicevano “doni” pensava ai “cannoni.”
Così, poco alla volta, tutti lo abbandonarono.

Il re fu avvolto da una terribile solitudine e cominciò a rendersi conto dei suoi errori.

Decise che da allora in poi avrebbe tenuto sempre conto della dura lezione che il Mago gli aveva impartito.
Adesso teneva la bocca, anzi le due bocche chiuse, e con il suo piccolo orecchio si sforzava di ascoltare meglio di quando ne aveva due.
In cuor suo, anzi, sperava che il Mago tornasse con la sua bacchetta di nespolo per ridargli le sue due orecchie, che ora rimpiangeva con tutte le sue forze.
Passarono gli anni e la regina cominciò a provare una gran pena per il marito.
Persino i sudditi e i sovrani dei regni vicini avevano dimenticato l’astio che avevano sempre provato nei suoi confronti e si auguravano che venisse perdonato.
Ma trascorsero parecchi anni prima che il Mago Cavatorti si decidesse a tornare da lui.
“Riconosci i tuoi errori?” gli chiese, scuro in volto.

Il re annuì.

“E faresti qualsiasi cosa pur di avere due orecchi e una bocca?”
Il re era pronto a tutto.
Il Mago agitò la sua bacchetta al contrario e il re si ritrovò con una bocca sola e due splendidi orecchi nuovi.
Invece di ricominciare come prima, si fermò ad ascoltare il canto degli uccelli, la musica del vento, le voci dei bambini.
Era la prima volta e gli vennero le lacrime agli occhi per la commozione.
La regina, il principe Roberto e la principessa Adelaide lo abbracciarono e gli dissero:
“Ti vogliamo bene!”
Il re pensò che non aveva mai sentito niente di più bello in tutta la sua vita e che era stato proprio stupido a non accorgersene prima.

Brano di Bruno Ferrero

Il sultano e il contabile

Il sultano e il contabile

C’era un Sultano a cui era morto il fedele contabile, e quindi dopo aver preso consiglio dai ministri, mandò i banditori in giro per cercare un nuovo amministratore della sua ricchezza.
Si presentarono diverse persone, e furono condotte alla presenza del Sultano, il quale li condusse alla camera del tesoro, e li lasciò per qualche minuto da soli.

Successivamente, il Sultano richiamò gli aspiranti, e dopo aver battuto le mani, fece venire i musicisti, quindi disse a loro:

“Su, ballate!”
Tutti gli aspiranti ballavano male, con le braccia strette al petto, e lentamente:
solo uno di essi saltava e danzava con vigore e piacere di ciò che faceva.

Visto ciò, il Sultano chiamò i ministri e le guardie, e disse a quello che ballava:

“Tu sarai il mio nuovo contabile, in quanto a loro,” indicando gli altri aspiranti “vengano decapitati!”
Il vizir del Sultano chiese allora: “Come mai è questa la vostra scelta, mio Sultano?” ed egli rispose:
“Vedi, mio fedele vizir, questi uomini hanno rubato l’oro dalla camera dove li ho lasciati, e così quando ballavano avevano paura che le monete nascoste cadessero,”

poi indicando il nuovo contabile,

“ma quest’uomo invece è stato fedele ed onesto, e non ha rubato: infatti lui ballava sciolto, poiché non aveva niente che lo impedisse!”
Così andò che quell’uomo divenne il nuovo contabile del Sultano, e visse sempre onorato e benvoluto.

Brano senza Autore, tratto dal Web

La festa degli animali

La festa degli animali

In un paese lontano abitato solo da animali, era tradizione che una volta ogni dieci anni ci fosse la festa delle pecore e degli animali più indifesi e piccoli.
Da immemorabile tempo in quel giorno si sospendeva la ferrea legge della giungla e ogni animale, specialmente quelli delle categorie più pericolose, faceva del suo meglio per assumere un aspetto più mansueto:
i leoni andavano dal barbiere a tagliarsi un po’ la folta criniera,

i montoni a radersi la barba e le tigri si dipingevano gli occhi per apparire più dolci.

Solo alcuni lupi non facevano niente per favorire la festa; rimanevano ai lati apparentemente indifferenti, emarginati dagli altri, guardati a vista dai tutori dell’ordine perché erano sempre pronti ad approfittare della confusione per fare qualche ruberia o peggio ancora per azzannare qualcuno.
Nel giorno della festa, gli uccelli, le pecore, gli animali più mansueti, le scimmie e persino molti innocui serpenti e soprattutto i cuccioli di tutte le razze, anche quelle più feroci, erano i veri protagonisti delle danze e dei giochi.
Potevi trovare il cucciolo di leopardo giocherellare con la piccola antilope e anche i piccoli lupi tentare di scherzare con alcune ritrose e timide agnelline.

Sembrava un paradiso!

Però se qualcuno fosse stato capace di scendere fino al cuore di ogni animale durante la festa, avrebbe percepito per esempio che la leonessa si annoiava da morire:
aveva portato i cuccioli a divertirsi, però guardava gli altri animali giudicandoli secondo il suo istinto e le veniva una voglia matta di dare un’artigliata al primo capretto che le fosse capitato tra le zampe, tuttavia si tratteneva dal farlo, ritenendosi in ciò un po’ eroica, pensando che in fondo era solo questione di ore e che bastava attendere il termine del giorno per ritornare alla normalità della vita.
La gazzella, animale grazioso ma anche civettuolo, era desiderosa di sfuggire dal gruppo per brucare la sua erba preferita in solitudine e in santa pace.

Persino la pecorella ormai adulta,

aveva sentimenti di superiorità, sentendosi anche lei un po’ forte e potente solo perché poteva stare accanto, senza pericolo, al possente re della foresta, e guardava con occhi golosi di invidia il leone che sembrava vivere la vita più di lei piena di complessi e moralismi.
Solo i cuccioli spensierati, non avevano problemi; li avrebbero avuti ben presto!
Quando il giorno dopo vollero andare a continuare la festa, ignari delle differenze e delle distinzioni, i genitori nelle loro tane o covi, si studiarono bene di raccomandare loro con estrema serietà che la pecora non deve andare col lupo e che il leone deve sempre avere ragione e dominare…
E tante cose di questo genere e che l’obbedienza a tutto ciò è una grande virtù, perché fa stare ognuno al suo posto.

Così va il mondo!

Il bene è una povera eccezione in confronto del male che viene fatto passare per concretezza e saggezza di vita:
chi dice il contrario è sempre giudicato un illuso! (Pensare bene per credere!)

Brano senza Autore, tratto dal Web

Il cavallo e il saggio


Il cavallo e il saggio

Si racconta che il bel cavallo di un saggio un giorno sfondò la porta della stalla e fuggì via.
Ai vicini di casa che andarono da lui per compatirlo rispose con un dolce sorriso:

“Magari è un bene.”

Sei mesi dopo il cavallo fece ritorno insieme a dieci cavalli selvaggi che lo avevano eletto a capo branco.
Quando i vicini di casa accorsero a congratularsi con lui, il saggio rispose:

“Magari è un male.”

Il figlio del saggio cercò di domare uno di quei cavalli.
Ma il cavallo indomito lo scaraventò per terra.
Il giovane si ruppe una gamba e rimase zoppo per tutta la vita.

Il saggio disse ai vicini venuti a consolarlo:

“Magari è un bene.”
Scoppiò la guerra e tutti i ragazzi del villaggio furono costretti ad arruolarsi nell’esercito, tutti tranne il figlio del saggio, perché era zoppo.

Storia Zen
Brano senza Autore, tratto dal Web

Il nibbio e il serpente


Il nibbio e il serpente

In una calda giornata primaverile, un giovane serpente strisciava sereno tra le pietre godendosi i raggi solari.
L’aria era tiepida e carica di un buon profumo floreale, ogni animale si sentiva in pace in quel clima piacevole.
Il piccolo serpente si muoveva piano nel prato quando all’improvviso una spaventosa ombra si proiettò sul suo cammino.

L’animale preoccupato alzò la testa per guardare da dove provenisse la macchia scura e scoprì che un terribile nibbio stava puntando dritto dritto su di lui!

Il poverino non ebbe nemmeno il tempo di scappare perché in un lampo il volatile gli piombò addosso afferrandolo con il becco.
Il serpente fu sollevato in cielo da rapace, il quale, senza pietà per le sue grida, volò via il più velocemente possibile.
“Lasciami andare!” implorava lo sfortunato rettile, “Non ti ho fatto niente!”

Ma il nibbio non gli prestò ascoltò.

A quel punto il piccolo serpente si rivoltò su se stesso e con un’abile mossa diede un morso al suo nemico.
Il volatile fu colpito dal veleno della sua preda e fu costretto ad aprire il becco liberando il serpente, che cadde a terra, senza però farsi male.
Il nibbio rimase con la vista annebbiata e, senza più forze a causa del morso velenoso, precipitò sul terreno a peso morto riportando parecchie ferite.

Il serpente si avvicinò al nibbio, ancora stordito, e gli disse:

“Ben ti sta! Io non volevo farti del male ma tu mi ci hai costretto e adesso ne paghi le conseguenze!”
Trascorsero due giorni interi prima che il nibbio potesse riprendere a volare ma, da allora, si tenne sempre ad una certa distanza da tutti i serpenti.

Brano di Esopo

L’importanza di Papà


L’importanza di Papà

Quando ero piccola un padre era per me come la luce nel frigorifero.
Ogni casa ne aveva uno, ma nessuno sapeva realmente cosa facevano sia l’uno che l’altro, dopo che la porta era stata chiusa.
Mio padre usciva di casa ogni mattina e ogni sera, quando tornava, sembrava felice di rivederci.
Lui solo era capace di aprire il vasetto dei sottaceti, quando gli altri non riuscivano.

Era l’unico che non aveva paura di andare in cantina da solo.

Si tagliava facendosi la barba, ma nessuno gli dava il bacino o si impressionava per questo.
Quando pioveva, ovviamente, era lui che andava a prendere la macchina e la portava davanti all’ingresso.
Se qualcuno era ammalato, lui usciva a comperare le medicine.
Metteva le trappole per i topi, potava le rose in modo che ci si potesse affacciare alla porta d’ingresso senza rischiare di pungersi.
Quando mi regalarono la mia prima bicicletta, pedalò per chilometri accanto a me, finché non fui in grado di cavarmela da sola.

Avevo paura di tutti gli altri padri, ma non del mio.

Una volta gli preparai il tè.
Era solo acqua zuccherata, ma lui era seduto su una seggiolina e lo sorbiva dicendo che era squisito.
Ogni volta che giocavo con le bambole, la bambola mamma aveva un sacco di cose da fare.
Non sapevo invece che cosa far fare alla bambola papà, così gli facevo dire:
“Bene, adesso esco e vado a lavorare!” poi la buttavo sotto il letto.
Quando avevo nove anni, un mattino mio padre non si alzò per andare a lavorare.

Andò all’ospedale e morì il giorno dopo.

Allora andai in camera mia e cercai la bambola papà sotto il letto.
La trovai, la spolverai e la posai sul mio letto.
Mio padre non fece mai nulla.
Non immaginavo che la sua scomparsa mi avrebbe fatto tanto male.
Ancora oggi non so perché.

Brano di Erma Bombek

Una signora confidò:
“E’ qualche anno che è morto mio padre e ancora sento fortemente il rimorso di non avergli mai detto: Papà, ti voglio bene!”

La gazzella ed il cespuglio



La gazzella ed il cespuglio

Una gazzella era inseguita dai cacciatori.
Passando vicino a un cespuglio verde, si raccomandò:

“Nascondimi per carità. Vogliono la mia morte.”

Il cespuglio la lasciò entrare, poi si richiuse, in modo che la gazzella scomparisse dalla vista dei cacciatori.
Passò qualche minuto.
La gazzella aveva il cuore in tumulto.
Poi si quietò e incominciò a brucare le foglie del cespuglio.

“Ahi!” fece il cespuglio “Mi fai male!”

“Ho corso tanto e mi è venuto appetito.” rispose la gazzella ingrata.
“Io ti ho nascosto volentieri, e tu ora mi strappi le foglie!” esclamò il cespuglio.
“Così è la vita.” rispose la gazzella, dando un morso più violento al cespuglio.

Ma fu subito punita della sua ingratitudine.

I cacciatori, che erano ancora nei dintorni, vedendo il cespuglio muoversi, intuirono la presenza della gazzella.
Spararono e l’uccisero.

Brano di Paolo Bargellini

Il bambino cattivo e la staccionata


Il bambino cattivo e la staccionata

C’era una volta un bambino che faceva tante cose cattive; questo bambino faceva arrabbiare tutti e a chiunque arrecava dei gran dolori con misfatti e insulti.
Un giorno però il bambino cominciò a capire il male che stava facendo e ne provò dolore anch’egli, così decise di diventare “buono.”
Andò dal nonno e gli chiese:
“Nonno come posso fare per diventare più buono?”
Il nonno, saggia persona, gli rispose:

“Vedi quella staccionata laggiù?

Ogni volta che fai un’azione cattiva andrai presso quella staccionata e con un martello ci metterai un chiodo.”
Il bambino all’inizio fu un po’ sorpreso da questo consiglio, poi però fece come gli disse il nonno.
Nonostante le buone intenzioni del bambino, i chiodi nella staccionata furono molti!
Ma cominciava a diminuire la frequenza con cui il bambino inchiodava, fino ad arrivare al giorno in cui il bambino non ne mise neppure uno!
Allora il bambino andò dal nonno e disse:
“Nonno finalmente non faccio più cattive azioni, ma ancora non mi sento buono!”

Il nonno disse:

“Bene, ora vai alla staccionata e con questo cacciavite comincia a togliere tutti i chiodi che hai messo.”
Il bambino fece come gli disse il nonno.
Ci volle un po’ di tempo ma i chiodi furono tutti rimossi, il bambino tornò dal nonno che gli chiese:
“Cosa noti?”
Il bambino gli rispose:
“Ora al posto dei chiodi ci sono tanti buchi!”

Il nonno aggiunse:

“Ecco, quello è il male che hai causato, a volte non basta non fare cattive azioni per sentirci buoni, dovremmo cominciare a togliere i “chiodi” dalla nostra staccionata e vedere quanto profondi sono i “buchi lasciati”, a volte capita che il tempo otturi quei buchi, altre volte quei buchi sono talmente profondi che nemmeno il tempo riesce a chiudere, altre volte ancora lasciamo lì quei chiodi senza volerli rimuovere.”

Brano senza Autore, tratto dal Web

La storia di una perla


La storia di una perla

C’era una volta una conchiglia.
Se ne stava in fondo al mare cullata dalle onde, sfiorata dal passaggio sinuoso di pesci colorati e cavallucci marini.
Fino a quando una tempesta giunse fino a lei sconvolgendole la vita.
La violenza delle onde la capovolse più e più volte facendola girare, rotolare, urtare, trasportandola lontano fino a che, ammaccata e dolorante si fermò.
Stava cercando di capire dov’era finita quando, improvvisa, una fitta lancinante la trapassò!
Che cosa stava succedendo ancora?

Ecco!

Attraverso le valve, nello stravolgimento di prima, era riuscito a intrufolarsi un sassolino che, pur piccolo, aveva contorni spigolosi e appuntiti.
Sulla carne viva faceva proprio male!
La conchiglia provò a muoversi e ad espellerlo, ma senza risultato.
Tentò e ritentò anche nei giorni seguenti.
Il dolore non passava!
Pianse, e pian piano le sue lacrime ricoprirono il sassolino.

Strano, il dolore iniziava ad attenuarsi.

Cercò ancora di eliminarlo ma ormai faceva parte di lei.
Tra le maglie della rete, assieme ai pesci, in pescatore vide una conchiglia.
La aprì e, meraviglia, si trovò tra le mani ruvide e callose una perla bellissima, brillante.
La girò e rigirò: perfetta!
I pescatori sanno che ogni perla ha una storia da raccontare e l’accostò all’orecchio.

Ascoltando, ripensò alla sua vita.

Quante tempeste aveva attraversato, quante solitudini, quanto dolore e rabbia e ribellione!
Quante lacrime si erano mescolate alle gocce del mare !
Ma proprio quelle lacrime erano riuscite a compiere il miracolo anche dentro di lui.
Una perla frutto del dolore, della rinuncia, della pazienza, di quel “sassolino” che ti entra dentro e non riesci più a buttare fuori; una perla capace di donare luce a chi si avvicina!
Il pescatore guardò quel miracolo racchiuso nella mano, fissò la sua luce, alzò il viso al cielo terso, e sorrise.

Brano senza Autore, tratto dal Web