Il regalo per Natale (La maestra e Dini)

Il regalo per Natale
(La maestra e Dini)

Poco prima di Natale, la maestra fece due domande:
“Chi considerate povero fra voi?
E chi dovrebbe ricevere un regalo a Natale?”
I bambini che si consideravano poveri alzarono la mano.

La città era piccola e tutti si conoscevano.

Non solo per nome, ma si sapeva anche dove uno viveva, che cosa faceva, chi erano i suoi parenti e quanti soldi aveva.
Dopo la scuola, la maestra chiamò nel suo ufficio Dini, un bambino di otto anni.
I suoi genitori erano arrivati dall’Africa da poco tempo e tutti sapevano che erano poverissimi.
Lo fece sedere e gli chiese come mai non aveva alzato la mano.

Dini spiegò:

“Perché non sono povero!”
“E chi è povero, secondo te?” domandò la maestra.
“I bambini che non hanno i genitori!” rispose semplicemente il bimbo.
Lei lo fissò sbalordita, in totale silenzio, poi lo congedò.
L’indomani, il padre di Dini tornò a casa con un largo sorriso stampato sulla faccia.
Disse che la maestra era andata a fargli visita sul posto di lavoro.
“Dovremmo essere molto fieri di nostro figlio!” aggiunse, e riferì alla mamma che cosa gli aveva detto l’insegnante.

La Vigilia di Natale, Dini ebbe il suo pacco regalo.

Conteneva due paia di scarpe nuove di zecca: uno per lui e uno per la sorellina.
Non avevano mai avuto un paio di scarpe nuove.
Ma anche non fosse arrivato il regalo, Dini sapeva che la sua era la famiglia più ricca del mondo.

Brano tratto dal libro “25 Storie di Natale + una.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

La leggenda della Stella di Natale

La leggenda della Stella di Natale

Anche a Città del Messico, nella lontana America, il Natale è una grande occasione di festa.
Tutti ne approfittano per sfoggiare vestiti nuovi, imbandire le tavole con cibi e bevande abbondanti e diversi dal solito, scambiarsi regali costosi e raffinati.
Che è poi quello che succede in gran parte del mondo.
Ma anche a Città del Messico ci sono persone che non possono permettersi di far festa neppure la Vigilia di Natale.
Una di queste, forse la più povera di tutte, si chiamava Ines.
Era una piccola e graziosa bambina indiana, grandi occhi neri nel visetto scuro, che anche la Vigilia di Natale vagava per il mercato grande a piedi nudi, sgranando gli occhi sulla mercanzia esposta sulle bancarelle:
trionfi di frutta colorata, dolci, tacchini e oche arrostiti, profumate patatine.
Tutte cose proibite per Ines, ricca solo del suo sorriso con cui cercava di intenerire i venditori, che le volevano bene e le regalavano sempre qualcosa.
La mamma le aveva cucito una grossa tasca sul davanti della gonna, e tutto quello che la bambina riceveva finiva in quella tasca.
Ogni giorno la piccola Ines la controllava perché nulla di quanto raccoglieva andasse perduto.

Il contenuto di quella tasca era preziosissimo:

quello era il cibo per i suoi fratellini e la mamma ammalata che aspettavano a casa.
Ines aveva l’occhio allenato a scoprire anche nei mucchi di rifiuti del mercato qualche cosa ancora in buono stato e la sua mano veloce sapeva sceglierlo con cura, ripulirlo, renderlo accettabile.
La sera della Vigilia di Natale, la tasca era colma più del solito.
Anche i suoi fratellini avrebbero fatto festa quella sera.
Ma Ines non era del tutto felice.
Aveva un piccolo ma insistente, segreto, cruccio.
A Città del Messico c’era una simpatica tradizione.
Nella Notte di Natale tutti i bambini della città portavano un fiore a Gesù Bambino nella chiesa della loro parrocchia.
C’era una specie di gara a chi portava il fiore più bello.
Ines desiderava portare anche lei un fiore a Gesù Bambino.
A volte si immaginava nel gesto di offrire, proprio lei, povera piccola bambina indiana, il fiore più bello.
Ma già faticava tanto a procurarsi un po’ di frutta e di verdura, come poteva procurarsi un fiore?
Aveva visto qualche fiore sui balconi più ricchi, altri fiori facevano capolino invitanti da cancelli di ferro battuto.

Era tentata di coglierli, ma non si può donare a Gesù un fiore rubato.

La piccola pensava con soddisfazione alle cose buone che portava ai fratellini, alla gioia con cui l’avrebbero accolta, ma non si decideva a tornare a casa.
Vagava inquieta, alla ricerca di un fiore, il più bello, quello che aveva visto solo nella sua fantasia.
La stradina tortuosa che portava al suo quartiere attraversava una zona di ruderi antichi.
Altre volte aveva visto tra le rovine ciuffi di foglie verdi con qualche fiore colorato.
Forse là avrebbe potuto trovare qualche fiore speciale da portare a Gesù Bambino.
Cautamente si addentrò tra i ruderi.
Girò, cercò, frugò attentamente tra le vecchie pietre, ma non c’era niente da fare.
Non c’era neppure un fiorellino.
Era quasi buio.
La mamma e i fratellini la stavano certo aspettando con impazienza.
Doveva tornare a casa.
Gettò un ultimo sguardo intorno e vide, in un angolo, un ciuffo di piantine che avevano foglie verdi, lucide, disposte come i petali di un fiore.
Si chinò e in fretta ne raccolse alcuni rametti; li mise insieme nel modo più gradevole possibile e formò un piccolo mazzo.

Mancava ugualmente qualcosa.

Con un sospiro, la bambina si tolse la cosa più bella che possedeva:
il nastro rosso che le serviva a legare i capelli.
Con il nastro fece una coccarda intorno alle foglie verdi.
Fu soddisfatta del risultato.
“Gesù Bambino gradirà i miei fiori verdi.” pensò, “E poi li ho legati con il nastro rosso!”
Era buio ormai e Ines si diresse verso casa.
Passò davanti alla chiesa:
il portone principale era spalancato.
“A quest’ora non ci sarà nessuno in chiesa!” pensò, “È l’ora di cena.
Verranno più tardi a portare i fiori a Gesù!”
Entrò furtivamente, con i suoi piedini nudi, il grembiulone sporco con la tasca piena di frutta e verdura.
Sgattaiolò, leggera come un’ombra, dietro le colonne della navata verso l’angolo pieno di luce dove su un cuscino ricamato avevano posto la statua di Gesù Bambino.
Con le lacrime agli occhi, Ines guardò il suo mazzo di foglie verdi e poi, rivolta alla statua del Bambino Gesù disse:
“Te li lascio adesso.
Non posso venire dopo con gli altri bambini.
Mi vergognerei troppo.
Spero ti piacciano lo stesso!”

Un “Oh!” di meraviglia la fece trasalire.

C’era un gruppo di gente intorno a lei.
Tutti fissavano meravigliati il mazzo che stringeva in mano.
“Che bei fiori…
Dove li hai trovati?
Non ho mai visto dei fiori così!”
Ines abbassò gli occhi sul suo mazzo di foglie e rimase senza fiato per la sorpresa.
Le foglie erano diventate di un bel rosso vivo.
Al centro della corolla le bacche avevano formato come un cuore d’oro.
Timidamente, la bambina depose il suo prezioso mazzo di stelle rosso-oro au piedi della statua del Bambino Gesù e poi corse a casa.
Non le sembrava neanche di toccare il terreno per la felicità.
Ora sapeva che Gesù aveva gradito il suo dono e aveva trasformato delle semplici foglie nel fiore più bello del Messico:
la stella di Natale.
Ancora oggi, a Natale, in tutto il mondo, le rosse stelle dal cuore d’oro ricordano il miracolo della fede di una povera bambina indiana.

Brano senza Autore

Tobia e la preghiera dell’alfabeto

Tobia e la preghiera dell’alfabeto

La giornata di Tobia, come accade a tutti i bambini, aveva molti più impegni di quella del Presidente della Repubblica.
Il mattino alle sette, la mamma arrivava ronzando come un implacabile elicottero: “
Tobia, pigrone, fuori dal letto, giù i piedoni!”
Il bambino fingeva di riaddormentarsi e la mamma gli faceva il solletico dappertutto.

Subito dopo, arrivavano le cose serie:

“Le orecchie, tutte e due!
I denti!
Non ti accorgi che i calzini sono scompagnati?
No e poi no!
A scuola con le scarpe da ginnastica non ci vai!
Non me ne importa un fico secco se sono comode!
Attento che scivoli…
Te l’avevo detto che scivolavi!”
In cucina, il ronzio ripartiva:
“Mangia con calma!
Niente brioche!
Pane e marmellata!
Non sorbire il latte come un’idrovora.
Non ti sporcare!
Ti sei sporcato!
Intanto la sorellina gli faceva le boccacce e lui non poteva reagire perché la mamma stava sempre dalla parte della più piccola.
Quando finalmente si sedeva sul bus, tirava un grosso sospiro di sollievo.
Un sollievo che durava poco.

Le maestre ronzano come la mamma:

“State fermi!
Oggi impariamo il passato remoto del verbo “crogiolarsi”.
Tobia, prova tu!”
Poi c’era l’inglese:
“Toby, can you speak more slowly, please?”
E l’aritmetica:
“Se ho cinque pere, due mele, quattro kiwi, ma perdo una pera e due kiwi, che mi resta?”
Fino all’ora di tornare a casa.
Qui tutto ricominciava:
“Tobia, lascia stare tua sorella!”
“Mi ha sporcato il quaderno apposta!” replicava il bimbo.
“Tobia, lavati le mani!
Tobia, non mettere i gomiti sul tavolo!
Tobia, mangia la verdura!” gridava la mamma.
Finalmente dopo il rito del pigiamino, dei piedi, dei denti, Tobia poteva andare a letto.
Il rito della buonanotte era il migliore della giornata.
Il papà lo abbracciava, la sorellina fingeva di baciarlo e gli morsicava l’orecchio, la mamma lo stringeva forte.

Per Tobia l’odore di mamma era la cosa più bella del mondo.

“II mio ometto.
Ti voglio tanto bene, Tobia!” gli sussurrava la mamma.
“Anch’io, mamma!” rispondeva Tobia.
“E prima di addormentarti ricordati la preghiera!” gli ricordò la mamma.
“Sì, mamma!” esclamò Tobia.
Le lenzuola sapevano di fiori e di mamma.
Tobia affondò nel letto e chiuse gli occhi.
Si ricordò della preghiera.
Allora pregò in questo modo:
“Sono veramente stanco, Signore.
E non mi ricordo neanche una preghiera.
Facciamo così: reciterò molto lentamente tutto l’alfabeto e tu, che conosci ogni preghiera, potrai mettere insieme le lettere in modo da formare le preghiere che ti piacciono di più!”
Quella sera, il buon Dio disse ai suoi angeli:
“Di tutte le preghiere che oggi ho sentito, questa è senz’altro la più bella, perché è nata da un cuore semplice e sincero!”

Brano senza Autore

L’angelo e le preghiere della sera

L’angelo e le preghiere della sera

Nel cuore di una vallata di campi, prati e boschi, in una casetta a due piani, viveva una famigliola felice.
Erano in tre per il momento:
una mamma, un papà e un bambino biondo di sei anni.
Al centro della valle scorreva un torrente “allegro” e “tortuoso”.
La casetta sorgeva un po’ isolata dal paese e così, la domenica, la famigliola saliva in un’auto piccolina e andava a Messa nella Chiesa parrocchiale.
La sera, prima di addormentarsi, tutti insieme pregavano.
Un Angelo del Signore, tutte le sere, raccoglieva le preghiere e le portava in cielo.
Un inverno piovve per molti giorni.
Il torrente si gonfiò di acqua scura.
La valle cominciò ad essere sommersa dall’acqua.

Il papà svegliò la mamma e il bambino.

Si strinsero spaventati perché l’acqua aveva invaso il pian terreno della casetta.
E continuava a salire.
Sempre più scura, sempre più veloce.
“Saliamo sul tetto!” esclamò il papà.
Prese il bambino e salì in soffitta e di là sul tetto, mentre la mamma li seguiva.
Sul tetto si sentirono come naufraghi su un’isoletta che diventava sempre più piccola.
Perché l’acqua che continuava a salire arrivò implacabile fino alle ginocchia del papà.
Il papà si sistemò ben saldo sul tetto, abbracciò la mamma e le disse:
“Prendi il bambino in braccio e sali sulle mie spalle!”
Mamma e bambino salirono sulle spalle del papà, che continuò:
“Mettiti in piedi sulle mie spalle e alza il bambino sulle tue, non avere paura!
Qualunque cosa capiti, io non ti lascerò!”

La mamma baciò il bambino e disse:

“Sali sulle mie spalle e non avere paura.
Qualunque cosa capiti, io non ti lascerò!”
L’acqua continuava ad alzarsi.
Sommerse il papà e le sue braccia tese a tenere la mamma, poi inghiottì la mamma e le sue braccia tese a tenere il bambino.
Ma il papà non mollò la presa e neanche la mamma.
L’acqua continuò a salire.
Arrivò alla bocca del bambino, agli occhi ed infine alla fronte.
L’Angelo del Signore, che era venuto a prendere le preghiere della sera, vide solo un ciuffetto biondo spuntare dall’acqua torbida.
Con mossa leggera afferrò il ciuffo biondo e tirò.
Attaccato ai capelli biondi venne su il bambino e, attaccata al bambino, venne su la mamma e, attaccato alla mamma, venne su il papà.
Nessuno aveva mollato la presa!
L’Angelo spiccò il volo e posò con dolcezza l’originale “catena” sulla collina più alta dove l’acqua non sarebbe mai arrivata.

Papà, mamma e bambino “ruzzolarono” sull’erba:

poi si abbracciarono, piangendo e ridendo.
Invece delle preghiere, quella sera, l’Angelo portò in cielo il loro amore.
E tutte le “schiere celesti” scoppiarono in un fragoroso applauso!

Brano senza Autore

La famiglia di rospi

La famiglia di rospi

In un angolo del grande parco, in una macchia di alberi e cespugli carichi di fiori e bacche colorate, c’era un piccolo stagno, coperto di ninfee bianche e rosate.
Nello stagno viveva una famiglia di rospi.
Papà, mamma e un vispo piccoletto.

Era una famiglia felice.

“Sei il bambino più bello del mondo.” sussurrava mamma rospo al suo piccolo, che gorgogliava soddisfatto, e poi lo copriva di baci.
“Tu sei la più buona mamma del mondo.” le rispondeva il piccolo e poi correva a tuffarsi nella fresca acqua dello stagno.
Papà rospo guardava con orgoglio la sua famiglia, i bordi fioriti dello stagno, l’acqua scura e fresca e diceva:
“Viviamo nel luogo più incantevole dell’universo.”
Un giorno, la vita tranquilla della famigliola fu messa a soqquadro da una serie di strilli.
Provenivano da un gruppo di ragazzine che passeggiavano sul sentiero che fiancheggiava lo stagno:

“Iiih! Che puzza!”

“Sembra un letamaio… Andiamo via di qui.”
“Che acqua putrida!”
“Ehi! Guarda quegli orribili rospi!”“Che schifo!”
“E quello piccolo, tutto bitorzoluto, che creature orrende!”

Papà e mamma rospo si rincantucciarono nel fango, pieni di vergogna.

Il piccolo si nascose sotto una foglia di ninfea, avvilito e mortificato.
Nello stagno la felicità era finita per sempre.

Brano senza Autore

Aspetta, papà… aspetta

Aspetta, papà… aspetta
(L’appuntamento padre-figlia)

Un papà aveva imparato che molti conflitti con i figli si risolvevano in pizzeria.
Per qualche anno aveva portato fuori ogni tanto la figlia più grande, per una specie di appuntamento padre-figlia.
Decise di fare lo stesso anche con la più piccola.
Per il primo appuntamento la portò a cena in una pizzeria vicino a casa.

Gli avevano appena servito la pizza quando decise che

era il momento giusto per dire alla bambina quanto lui le volesse bene e quanto la apprezzasse.
“Giulia,” disse, “voglio che tu sappia che ti voglio bene e che, per me e la mamma, tu sei davvero speciale.
Preghiamo sempre per te, e ora che stai crescendo e diventi ogni giorno che passa un ragazzina in gamba, non potremmo essere più orgogliosi.”
Non appena ebbe terminato di pronunciare quelle parole, rimase in silenzio e fece per prendere la forchetta così da iniziare a mangiare, ma non riuscì a portare la forchetta alla bocca.
La bambina allungò la mano appoggiandola su quella del padre.
Gli occhi di lui incontrarono i suoi e, con una vocina dolce, la bambina disse:

“Aspetta, papà… aspetta.”

Il papà appoggiò la forchetta e spiegò di nuovo alla figlia perché lui e la mamma la amavano e la stimavano.
Poi, di nuovo, afferrò la forchetta.
Ma per la seconda volta, e poi per la terza, e la quarta, fu fermato sempre dalle stesse parole: “Aspetta, papà… aspetta.”
Quella sera il padre non riuscì a mangiare molto e, non appena rientrarono,

la bambina corse dalla mamma e le disse:

“Sono una figlia davvero speciale, mamma.
Me l’ha detto papà.
Mi ha fatto tanto bene sentirmelo dire che gliel’ho fatto ripetere tante volte.”

Brano senza Autore

La pioggia e Dio (Il perdono)

La pioggia e Dio
(Il perdono)

Era un pomeriggio piovoso e una signora stava percorrendo in auto una delle strade principali della città, facendo particolare attenzione poiché la strada era bagnata e scivolosa.
All’improvviso il figlio, seduto sul sedile accanto, disse:

“Sai mamma, sto pensando ad una cosa.”

La donna era curiosa di sapere quello che aveva scoperto con la sua testolina il bambino di sette anni:
“Cosa hai pensato?”

“La pioggia,” iniziò a spiegare,

“è come il peccato e i tergicristalli sono come Dio, che spazza via i nostri peccati.”
Superato lo stupore, la mamma chiese:
“Hai notato che la pioggia continua a cadere?

Cosa significa secondo te?”

Il bambino non esitò un attimo a rispondere:
“Noi continuiamo a peccare e Dio continua a perdonarci”.

Brano tratto dal libro “La vita è tutto quello che abbiamo.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Il bambino goloso e Dio

Il bambino goloso e Dio

Una mamma si preoccupò di fondare le basi della vita morale del suo bambino, approfittando della “sparizione” di alcuni dolci conservati nella credenza del salotto.
“Lo sapevi che quando hai rubato la tortina, Dio era lì con te, anche se io non vedevo?” chiese la mamma.

“Certo!” fece il bambino annuendo vigorosamente.

Ma i dolci continuarono a sparire.
Pazientemente la mamma riprese:
“Lo sapevi che in quel momento Dio ti vedeva?”

“Certo!” replicò il bambino.

“E che cosa pensi che ti abbia detto, mentre tu rubavi il dolce?” domandò allora la mamma.
Mi ha detto:
“Qui ci siamo soltanto io e te, prendine due!”

Brano senza Autore

L’eremita e l’uomo perduto

L’eremita e l’uomo perduto

C’era una volta un uomo perduto.
Da anni viveva di razzie, rapine, massacri e furti.
Era ferocemente crudele, senza pietà, divorato da una rabbia folle.

Era un uomo perduto, un uomo maledetto.

Un giorno, mentre vagabondava in preda a pensieri di cenere e tormento, gli venne l’idea di far visita all’eremita che viveva in una baracca in cima alla pietraia.
Là non c’era nulla da rubare se non un pagliericcio di foglie secche, ma l’uomo perduto cercava una speranza, un perdono.
Il vecchio eremita lo ascoltò.
Infine gli sorrise e gli mostrò un albero morto dal tronco contorto e calcinato da un fulmine e gli disse:
“Vedi quell’albero morto?
Sarai perdonato quando rifiorirà!”
“Sarebbe come dire mai!” esclamò l’uomo, “Allora a che serve, sant’uomo?

Tanto vale che io torni alle mie rapine.”

Il malvivente ridiscese, imprecando, verso il piano, prendendo a calci le pietre.
Ricominciò la vita di saccheggi e violenze, perché era l’unica cosa che sapeva fare.
Per anni ancora seminò paura, odio e disperazione.
Una sera, mentre cercava un luogo isolato e nascosto per consumare la cena, vide una baracca malandata.
Si affacciò cautamente ad una finestrucola e vide una donna che aveva raccolto i suoi bambini intorno ad una pentolaccia.
La donna cantava una specie di ninna-nanna:
“Dormite, piccoli miei.
Dormite fino a domani.
Mamma vi fa la zuppa.
Dormite ancora un po’.
Dormite fino a domani.”

Il bandito entrò e sollevò il coperchio della pentola.

C’erano solo radici e foglie che bollivano nell’acqua.
L’uomo scosse le spalle poderose, afferrò la pentola e buttò tutto il contenuto dalla finestra.
Tagliò a pezzi la tenera carne dell’agnello che aveva rubato proprio quel giorno.
Ravvivò ben bene la fiamma sotto la pentola e se ne andò, piangendo su tanta miseria.
Quel giorno, l’albero morto fiorì.

Brano tratto dal libro “365 piccole storie per l’anima.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

L’amicizia in istituto

L’amicizia in istituto

Il piccolo e zoppo Leonardo (detto Leo) e Tommaso erano arrivati all’istituto per bambini senza famiglia lo stesso giorno, pochi mesi dopo la nascita.
Le volontarie erano molto buone con loro, un po’ meno i bambini della scuola pubblica che frequentavano.
Erano crudeli spesso con il timido Leo, ma Tommaso sapeva metterli a posto, perché era un bambino robusto e intelligente:

il più bravo a scuola e il più svelto in cortile.

Era Tommaso che aiutava Leo, gli stava sempre vicino.
Lo consolava quando aveva paura, lo aspettava durante le passeggiate, giocava con lui perché non sentisse la malinconia del suo handicap, lo faceva ridere raccontandogli le storie buffe.
All’istituto venivano spesso le coppie che facevano conoscenza con i bambini e li portavano fuori a mangiare in vista di una possibile adozione.
Nessuno si interessava a Leo e Tommaso inventava sempre una scusa o si metteva a fare mattane per non uscire.
Lo aveva fatto solo due volte, con il dottor Turrini e sua moglie Anna.
Una domenica, il dottor Turrini chiamò Tommaso e lo guardò negli occhi:
“Sei un bambino veramente in gamba!

Ti piacerebbe venire a vivere con noi?

Saresti in affidamento per un po’, ma noi ti vorremmo adottare.
Come un vero figlio.
Che ne dici?”
Tommaso rimase senza parole.
Avere una mamma e un papà, come tutti.
“Oh, oh s-s-sì, signore!” mormorò.
Improvvisamente la gioia svanì dai suoi occhi.
Se Tommaso se ne andava, chi si sarebbe preso cura del piccolo e zoppo Leo?
“lo … vi ringrazio tanto, signore!” disse, “Ma non posso venire, signore!”

E prima che il dottore scorgesse le sue lacrime, corse via.

Poco dopo, il dottore lo andò a cercare con una delle volontarie.
Tommaso stava aiutando Leo a infilarsi la scarpa speciale.
Il dottore lanciò uno sguardo penetrante a Tommaso:
“È per lui che non sei voluto venire a stare con noi, figliolo?”
“Beh, io … io sono tutto quello che lui ha.” rispose il bambino.

Brano tratto dal libro “Ma noi abbiamo le ali.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.