Tonto Zuccone, gli inizi

Tonto Zuccone, gli inizi
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Difetto di conio

I fiammiferi

La cesta

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“Difetto di conio”

 

Diversi anni fa, quando era ancora un ragazzino, Tonto Zuccone tornò a casa da sua mamma piangendo.
I suoi compagni lo avevano escluso dai giochi poiché non riusciva a capire le regole.
La mamma lo prese in braccio e, dopo avergli dato una carezza, gli disse:
“Tonto, figlio mio caro, tu sei come una moneta con un difetto di conio, quelle che i collezionisti cercano e pagano molto, oltre che per il suo valore nominale per la rarità.
Tu sei, per questo, motivo di grande ed inestimabile valore per i tuoi genitori e per i tuoi veri amici.
Voglia il cielo che un giorno, con grande sforzo e fortuna, anche tu riesca a capire tutto ciò e non ti senta inferiore a nessuno.”

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“I fiammiferi”

 

Qualche mese dopo le rassicurazioni della mamma, Tonto era stato mandato da lei a comperare, nel vicino negozio, i fiammiferi, con la raccomandazione che fossero buoni.
Tonto una volta comprati, strada facendo li accese tutti, uno alla volta, per accertarsi che fossero tutti buoni, come da raccomandazione della mamma.
Alla madre, stupefatta, Tonto consegnò la scatola vuota dicendole:
“Sono contento perché i fiammiferi che ho comprato per te erano tutti buoni e si sono accesi al primo strofinamento!”

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“La cesta”

 

Tonto Zuccone non voleva più andare al pozzo a prendere l’acqua per le esigenze di casa poiché, ogni volta, tornava sudato ed affaticato.
I suoi genitori gli dissero che questo accadeva poiché prendeva sempre il secchio più grande e pesante, mentre in casa abbondavano anche contenitori più leggeri.
Tonto ritornò al pozzo facendo tesoro del suggerimento dei famigliari e si servì del contenitore che gli parve più leggero.
Al ritorno a casa, però, con il nuovo contenitore di acqua non riuscì a portarne a destinazione nemmeno una goccia siccome quella che aveva preso era una cesta di vimini che, ovviamente, non tratteneva l’acqua.
Tonto non smentì se stesso chiedendo ai genitori, meravigliato, il motivo del perché strada facendo il peso e la fatica diventassero più leggeri, contrariamente a ciò che accadeva in passato.

Brani di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione dei racconti a cura di Michele Bruno Salerno

Il signor felicità

Il signor felicità

Won Li era un contadino cinese semplice e generoso.
Un giorno scendeva dalla montagna con un gran fascio di giunchi sulle spalle, quelli che usa la povera gente per ricoprire la propria capanna.
Stanco e sudato si fermò per riposare un po’.
Ad un tratto una bella farfalla, dalle ali ricamate, venne a posarsi sulle foglie della sua fascina.
Won Li cercò di allontanarla.
“Vai, creatura bella, goditi la libertà che Dio ti ha dato!”
Ma per quanto cercasse di allontanarla, la farfalla continuava a tornare sui giunchi del contadino.
Allora la prese delicatamente tra le dita e la legò a un filo d’erba.

“La porterò ai miei bambini!” pensava, “Ne saranno felici,”

La farfalla, che era stanca di volare, se ne stava tutta tranquilla, senza far proprio nulla per riprendere il volo.
Giunto ai piedi della montagna, Won Li incontrò una signora che teneva per mano un bambino.
“Mamma, mamma!” gridò il piccolo, “Guarda che bella farfalla!
Prendila, prendila!”
“Non vedi che quest’uomo l’ha presa per portarla ai suoi bambini?” disse la donna.
Il bambino però era del tipo capriccioso.
E quando si incaponiva a volere una cosa, non rinunciava facilmente:
“La voglio, mamma, voglio la farfalla!”
Won Li aveva il cuore buono e sorrise al bambino.
“Vieni, bambino, prendi pure la farfalla, ma non farle del male.” e gli porse il filo d’erba che teneva prigioniera la farfalla.
“Lei è veramente buono.” disse la donna.
“Mi dispiace di non avere con me il borsellino; ma almeno prenda queste tre arance che ho colte nel mio giardino, serviranno per dissetarsi!”
Erano tre arance veramente belle e succose.

Won Li se le mise in tasca:

“Le porterò ai miei bambini. Non ne hanno mai viste di così grosse!
Ma che farò di tutta questa ricchezza?”
Dopo un pezzo di strada, Won Li si imbatté in un uomo seduto sotto una pianta, con accanto un gran fagotto di pezze di seta:
“E da stamattina che cammino in queste lande deserte.
Ho una sete da morire.
Buon uomo, non avresti qualcosa per dissetarmi?”
L’uomo sotto l’albero era proprio esausto.
“Prendi queste tre arance!” disse Won Li e gliele porse, “Ti toglieranno l’arsura.”
“Grazie, buon uomo.
Ma io voglio ricambiare la tua generosità.
Prendi questo taglio di seta, potrai fare un bel vestito a tua moglie.” disse l’uomo.
Won Li, felice, riprese il cammino verso casa.
Arrivato sulla strada principale si imbatté in una portantina sostenuta da quattro uomini e seguita da sei eleganti cavalieri.

Era la principessa.

“Vieni qui!” disse la principessa appena lo vide.
Come tutte le principesse aveva la voce dolcissima, simile a tanti campanellini d’oro tintinnanti. “Fammi vedere quel pezzo di stoffa che tieni sotto il braccio!”
Won Li si accostò tremante e svolse il rotolo di seta.
Era bellissimo, disegnato a fiori e uccelli multicolori.
“Se vi piace, sarò lieto di regalarvela, gentile principessa!” mormorò Won Li.
“Sei molto buono e generoso.
Voglio anch’io farti un dono!”
E la principessa porse al contadino la sua borsetta.
Won Li corse a casa stringendo il dono della principessa.
Arrivato nella sua povera capanna chiamò la moglie e i figli e, con mani tremanti, aprì la borsetta.
Com’è facile immaginare, come tutte le borsette delle principesse era piena di monete d’oro.
“Ma che farò di tutta questa ricchezza?” si chiese un po’ smarrito Won Li.

Gli venne un’ispirazione:

“Ah, si. Cercherò di far felici i più poveri del paese!”
Comprò una vasta estensione di terra, la suddivise in tanti appezzamenti e la donò ai poveri che non possedevano nulla.
Così tutto il villaggio diventò più ricco e tutti vissero contenti e felici.
Ma il più felice di tutti era Won Li che tutti ormai chiamavano:
“Il signor Felicità!”

Brano tratto dal libro “Tutte storie. Per la catechesi, le omelie e la scuola di religione.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Avere gli occhi scuri

Avere gli occhi scuri

Emy era una bella bimba di tre anni…
Viveva in una cittadina americana sulla costa atlantica!
Amava la sua famiglia e ammirava gli occhi azzurri di suo padre, di sua madre e dei suoi fratelli.
Tutti in casa di Emy avevano occhi azzurri!
Tutti tranne Emy!
Il sogno di Emy era avere occhi azzurri come il mare, e li desiderava più di ogni altra cosa…
Un giorno udì la maestra dire:
“Dio risponde a tutte le preghiere!”
Emy trascorse tutto il giorno a pensarci…

A sera, andando a letto, s’inginocchiò e pregò:

“Papà del Cielo, grazie per aver creato il mare, che è bellissimo!
Grazie per la mia famiglia…
Grazie per la mia vita!
Mi piacciono moltissimo tutte le cose che hai fatto e quelle che stai facendo ma, vorrei chiederti, per favore, quando domattina mi sveglierò, potrei avere degli occhi azzurri come quelli di mamma?
Nel nome di Gesù, Amen!”
Appena sveglia, il giorno dopo, corse allo specchio!
Guardò…
Ma, i suoi occhi erano castano scuro, come sempre!

Perché Dio non l’aveva ascoltata?

Forse per rendere più forte la sua fede?
Quel giorno Emy si rese conto che anche un “No” era una risposta!
Nonostante tutto, la bambina conservò intatta la sua fiducia in Dio…
Diversi anni dopo, Emy partì come missionaria volontaria in India!
Il suo compito era “riscattare” i bambini che le famiglie più povere vendevano ai mercanti come “pezzi di ricambio” per i trapianti…
Però, per entrare nei “giri” del traffico senza essere riconosciuta come straniera, doveva travestirsi da indiana!
Passava polvere di caffè sulla pelle, tingeva i capelli, si vestiva con il “sari”, ed entrava, liberamente, nei luoghi di vendita dei bambini…
Poteva camminare, tranquilla, per tutto il “mercato infantile”, poiché sembrava, in tutto e per tutto, un’indiana!

Un giorno, una sua amica missionaria la guardò travestita e le disse:

“Oh, Emy!
Hai mai pensato a come avresti fatto a travestirti se avessi avuto gli occhi chiari come tutti quelli della tua famiglia?
Siamo proprio al servizio di un Dio intelligente!
Ti ha dato occhi molto scuri perché sapeva che sarebbero stati essenziali per la missione che ti avrebbe affidato nella vita!”

Brano senza Autore

Diventerai una persona straordinaria

Diventerai una persona straordinaria

C’è un vecchio detto dalle mie parti:
“Se a una libellula togli le ali, avrai un brutto insetto.
Ma se a un brutto insetto aggiungi le ali, avrai una libellula.”
Questo detto mi ha fatto tornare in mente la mia maestra delle scuole elementari, la signora Dalla Torre, la quale aveva previsto grandi cose per il mio futuro.
Ora vi racconterò brevemente un fatto che ora che ci penso, ha proprio cambiato in positivo la mia vita.

Ero un ragazzino ordinario da tutti i punti di vista.

Ero di statura normale e provenivo da una famiglia del ceto medio.
Non ero lo studente più brillante, ma non ero nemmeno il peggiore della classe.
Ricordo la signora Dalla Torre come una donna severa sui trentacinque anni.
Aveva un figlio che frequentava la mia stessa scuola:
io lo conoscevo bene perché l’anno precedente giocavamo nella stessa squadra di calcio.
Un giorno, mentre attraversavo il cortile alla fine delle lezioni, il figlio della signora Dalla Torre si avvicinò e mi invitò ad andare a giocare ai videogiochi a casa sua.
L’idea mi tentava, ma avevo paura di imbattermi nella signora Dalla Torre.

Compresa la mia esitazione,

il mio amico mi assicurò che sua mamma rientrava di rado prima delle quattro del pomeriggio.
Acconsentii, facendo presente che me ne sarei andato prima di quell’ora.
Ci divertimmo moltissimo con i suoi videogiochi, che ci rapirono al punto da farci dimenticare l’orario.
Ad un certo punto la porta di casa si spalancò e sentii la signora Dalla Torre entrare.
Mi irrigidii, immaginando che sarei stato sgridato oppure messo in castigo per aver giocato invece di fare i compiti.
Con mia sorpresa, la signora Dalla Torre mi salutò con un gran sorriso.
Si rivolse a me con gentilezza e mi abbracciò come se fossi suo figlio.
Grazie a quell’abbraccio compresi che la mia maestra in realtà era una persona gentile e amorevole, che in classe appariva severa per mantenere il controllo dei suoi scolari.
Preparò una merenda buonissima a base di Nutella, una cosa che accordava a suo figlio soltanto in rare occasioni:

mi fece sentire così un ospite speciale.

Mentre mangiavo mi accarezzò affettuosamente il capo e disse:
“Sarai un buon studente e un autentico modello per i tuoi amici.
Sono sicura che diventerai una persona straordinaria, che porterà saggezza e felicità a tantissima gente.”
Nel mio giovane cuore provai un’emozione difficile da esprimere a parole.
Di fatto, dopo quel giorno, mi misi a studiare sodo e cercai di essere un esempio positivo per gli altri studenti.
Poiché la signora Dalla Torre aveva riposto la sua fiducia in me, ero determinato a non deluderla.
Oggi, ora, penso di essere diventato ciò che sono, grazie alle sue parole di quel pomeriggio.
Senza quel suo incoraggiamento non avrei avuto la fiducia necessaria per eccellere negli studi, né per diventare docente universitario e guida spirituale.
Oggi non manco mai di infondere motivazione nei miei studenti e al prossimo.

Brano senza Autore

L’esempio (Padre e figlio)

L’esempio (Padre e figlio)

“Quand’ero adolescente,” raccontava un uomo ad un amico, “mio padre mi mise in guardia da certi posti in città.”
Mi disse:
“Non andare mai in una discoteca, figlio mio.”

“Perché no, papà?” domandai.

“Perché vedresti cose che non dovresti vedere!” rispose lui.
Questo, ovviamente, suscitò la mia curiosità.
Ed alla prima occasione andai in una discoteca.

“E hai visto qualcosa che non dovevi vedere?”

domandò l’amico.
“Certo!” rispose l’uomo, “Ho visto mio padre.”

Un bambino in piedi sul letto nel suo pigiamino rosso punta il dito contro la mamma e fieramente dichiara:
“Io non voglio essere intelligente.
Io non voglio essere beneducato.

Io voglio essere come papà!”

L’esempio non è uno dei tanti metodi per educare.
È l’unico.

Brano tratto dal libro “Le storie del grillo.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Il muro

Il muro

C’era una volta, ma forse c’è ancora, un paese diviso in due da un muro.
Era un muro alto, massiccio, grigio e minaccioso.
Mai, proprio mai, nessuno aveva osato scavalcarlo.
Nel muro non c’erano passaggi, porte o cose simili.
Neanche un buchetto piccolo piccolo.
Quelli che erano nati da questa parte del muro non avevano mai visto quelli che erano nati dall’altra parte e viceversa.

Gigi abitava da questa parte del muro.

Era un bambino gentile, con gli occhi castani e i capelli biondi.
Ma era stufo di giocare sempre da solo nel cortiletto della sua casa, che era stata costruita proprio contro il famoso e tetro muro.
“Perché non posso andare a giocare dall’altra parte del muro?” chiese Gigi, un giorno, alla mamma.
“Perché di là ci abita della gente molto cattiva!” rispose la mamma, “E se non mi credi chiedilo a tuo padre.”
Gigi andò a trovare il padre nel suo laboratorio:
“Perché non posso andare a giocare dall’altra parte del muro?”
“Perché di là ci abita della gente molto cattiva!” rispose il padre.
Gigi ritornò a giocare da questa parte del muro.
Ma ormai la tentazione di dare almeno una sbirciatina al di là del muro era troppo forte.
Vide che il cemento del cortile era scheggiato proprio contro il muro e, quasi con indifferenza, infilò la sua paletta sotto un grosso frammento.
Il pezzo di cemento si alzò con estrema facilità.

Gigi cominciò a scavare con decisione.

Dall’altra parte del muro, c’era un altro cortile, una casetta, un bambino di otto anni con i capelli biondi e gli occhi castani.
Il Gigi dell’altra parte del muro portò il Gigi di questa parte del muro a visitare il suo nascondiglio segreto.
“Io ho un fratello, una sorella e un cane.” gli disse Gigi.
“Proprio come me.” gli rispose Gigi.
Gigi passeggiò con Gigi in lungo e in largo per la città dall’altra parte del muro.
“Ti comprerei un gelato, ma i miei si sono dimenticati come al solito di darmi la paga della settimana.” gli disse Gigi.
“Anche i miei.” disse Gigi.
“Io non me la cavo troppo bene in aritmetica ed ho un po’ paura del buio!” disse Gigi.
“Proprio come me.” gli rispose Gigi.
I due ragazzi si presero a braccetto e ritornarono presso il muro.
“Bisogna sempre stare attenti, perché ci sono delle persone spaventosamente cattive!” disse il Gigi dell’altra parte del muro.
“Dove sono tutte quelle persone spaventosamente cattive?” chiese il Gigi di questa parte del muro.

“Stanno dall’altra parte del muro!” gli rispose Gigi.

Finalmente Gigi si infilò di nuovo nel buco e ritornò a casa sua da questa parte del muro.
Entrò in casa facendo finta di niente, ma la sua fuga era stata notata.
Papà e mamma erano là che lo aspettavano con le mani sui fianchi e il cipiglio delle grandi sgridate.
“Gigi!” gridarono, “Tu sei stato dall’altra parte del muro?”
“Sì!” rispose Gigi.
“Dalla parte dei cattivi?”
“Sì!” rispose Gigi.
“E allora,” gridarono, “come sono?”
“Proprio come noi!” rispose Gigi.

Brano tratto dal libro “Diciassette (17) storie col nocciolo.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

Peppino e la torre maledetta

Peppino e la torre maledetta

C’era una volta un villaggio costruito in una valle lunga e stretta, in mezzo a montagne alte e rocciose, che si spalancavano qua e là in distese di prati e di pascoli.
Gli abitanti del villaggio erano moderatamente soddisfatti:
le loro mucche e le loro pecore erano ben pasciute, latte e formaggio si vendevano bene, anche se il mercato era lontano.
Ma sulla loro felicità aleggiava un’ombra nera.
L’ombra nera della Torre Maledetta.
La Torre Maledetta era una ruvida formazione rocciosa che chiudeva la valle e incombeva sul villaggio impedendogli di essere illuminato dal sole, se non pochi minuti all’alba e altrettanto pochi al tramonto.
Per il resto del giorno il sole illuminava solo i fianchi più alti della valle.
Così il villaggio passava la sua giornata all’ombra.

Per colpa della Torre Maledetta.

A Peppino, un giovane dall’aria sveglia e dal carattere aperto e deciso, la cosa non andava proprio giù.
Gli sarebbe tanto piaciuto avere un giardino davanti alla casa, con i fiori e un ciliegio e due albicocchi e un melo.
Ma non sbocciavano fiori nel villaggio, né ortaggi, perché c’era troppo poco sole.
Chi voleva un orto doveva andare a coltivarlo lontano dal villaggio.
Per questo molti andavano ad abitare altrove e, piano piano, il villaggio perdeva abitanti.
Il villaggio rischiava di morire per colpa della Torre Maledetta.
Era l’unica cosa che riusciva a guastare il buonumore di Peppino.
Ogni mattino, mentre si stirava sul balcone della sua camera e si lasciava accarezzare dai raggi del sole, prima che fossero inghiottiti dall’ombra, fissava la superba roccia nera con gli occhi che mandavano lampi di dispetto.
“Accidenti, accidentaccio.” Brontolava, “Un villaggio senza fiori, senza farfalle e senza canzoni è un villaggio senza bambini, un villaggio che muore…”
Girava gli occhi sui tetti d’ardesia che avevano riflessi d’argento e sui camini che con il loro fumo facevano propaganda alla fragrante polenta che borbottava nei paioli di rame, pensava agli abitanti che conosceva tutti per nome, cognome e soprannome e si diceva:
“Devo assolutamente fare qualcosa…
Sono il più giovane del villaggio e quindi tocca a me!”
Un mattino, appena il sole si nascose dietro la parete nera della Torre prese la decisione.
Si mise sulle spalle il piccone nuovo che aveva comprato alla fiera e si incamminò, con passo risoluto verso la montagna.

“Dove vai?” gli chiese la mamma.

“Vado a buttare giù la Torre Maledetta!” rispose semplicemente Peppino.
“Ma cosa dici?
Sei diventato matto?
Non ce la farai mai!”
“Qualcuno deve incominciare una buona volta!” ribadì caparbio.
Arrivato ai piedi della Torre, alzò lo sguardo verso l’immensa parete scura che incombeva su di lui con un vago senso di minaccia.
“A noi due!” disse Peppino.
Gli rispose un rombo cupo, come una grassa risata sussultante, che terminò nel sibilo maligno del vento.
“Comincerò dall’alto.” si disse e cominciò a salire.
La vetta della Torre aveva qualche chiazza di neve, ma Peppino non degnò di uno sguardo il panorama.
Alzò il piccone e lo abbatté con tutte le sue forze contro la roccia.
“Tò, beccati questo!”
Con un po’ di sorpresa, si accorse che il suo colpo di piccone aveva staccato un grosso blocco di pietra che lentamente rotolò giù dalla vetta, trascinandosi dietro un corteo di sassi più piccoli.
“Allora si può!” esultò.

Moltiplicò i colpi, con rabbia, con gioia.

“Aprirò la strada al sole!”
Dopo qualche ora si buttò a terra, sudato, spossato.
E guardò il risultato della sua opera.
Aveva buttato giù un bel po’ di sassi, ma non aveva abbassato la Torre neanche di un millimetro. “Dovessi impiegarci tutta la vita ce la farò!” si disse.
Ma gli sembrò di riudire il rombo sussultante che era la risata di scherno della Torre.
Si rialzò e riprese a picchiare con il piccone.
“Beccati questo!
E anche questo!” gridava sbrecciando, scheggiando, frantumando le rocce della vetta.
Passò quel giorno e quello dopo.
Così per un mese.
Ogni mattina, Peppino rinnovava la sua sfida alla Torre Maledetta.
Ma il risultato non era granché: l’immane picco sembrava più alto e saldo che mai.
“Lascia perdere!” gli dicevano i concittadini, che cominciavano a crederlo un po’ matto, “Tanto ci siamo abituati.”
Scuotendo la testa, Peppino insisteva:
“Farò arrivare il sole sul vostro balcone tutto il giorno…
E sbocceranno i fiori nella piazza.”

Tornava lassù e ricominciava a picconare.

Dopo qualche mese, il «pic… pic…» del suo piccone divenne un rumore familiare per le pecore e le mucche degli alti pascoli.
Ma era così grande e solida quella roccia…
Un mattino, però, successe una cosa straordinaria.
Peppino stava spingendo giù dalla Torre un grosso masso che aveva appena staccato, quando udì chiaramente una vocina che lo chiamava:
“Peppino, Peppino!”
Si guardò intorno sorpreso.
La voce riprese a chiamare.
La cosa più strana era che la voce proveniva da dentro la montagna.
“Dove sei?” chiese Peppino.
“Qui, sotto i tuoi piedi, dentro la roccia!” rispose la vocina.
Peppino si inginocchiò e scrutò con attenzione nel buco lasciato dal masso.
Sul fondo si apriva una fessura e, dentro la fessura, piccola piccola si agitava una manina bianca. “Liberami!” implorò la vocina.
Impugnò il piccone e in poco tempo scavò fino ad arrivare alla mano, poi continuò con attenzione e infine si trovò davanti una bambina dagli occhi color lago alpino e vestito color spuma di torrente.
“Grazie!” disse la bambina, mentre Peppino la guardava con l’aria stralunata.
“Sono la fata delle sorgenti, ma il maligno architetto della Torre mi ha imprigionata.
Ma ora che mi hai liberata, il tuo desiderio si avvererà!”

“E come farai?

Sei così piccola e fragile!” chiese Peppino.
“Con la pazienza, un po’ di tempo e la forza dell’acqua!” sorrise la fatina.
Alzò la mano, come fosse il cenno di attacco di un direttore d’orchestra.
Mille gorgoglii, saltelli, risate, sciacquii riempirono l’aria.
Mille sorgenti sbocciarono sulla Torre Maledetta.
Piccole all’inizio, si riunirono a formare ruscelli, torrenti, cascate.
E ognuno di essi incideva, smerigliava, scavava, trasportava a valle ghiaia, sassi, detriti.
“Stanno facendo a pezzi la Maledetta!” gridò Peppino e fece volare in aria il cappello.
Voleva ringraziare la fata delle sorgenti, ma quella non c’era più.
Corse a dare la notizia al villaggio, che adesso era fiancheggiato da un torrente giovane e forte che scendeva dalla Torre Maledetta.
Oggi quel villaggio è inondato dal sole dal mattino alla sera, ed è pieno di fiori, farfalle e bambini.
Al posto della Torre c’è una serie di piccole rocce smozzicate, coperte dal muschio e dai cespugli.
Ci vanno i vecchietti a cercare i funghi.

Brano tratto dal libro “Storie belle e buone.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi

Melodia ed il cuginetto

Melodia ed il cuginetto

C’era una volta una bambina di nome Melodia, che un brutto giorno fu colpita da una strana malattia che le provocò una continua e inesorabile diminuzione della vista.
I migliori professori d’oculistica, nonostante esami approfonditi e consulti, non riuscivano a scoprire la causa della malattia.
I genitori della bambina erano disperati.
Melodia portava ormai un paio di occhiali dalle lenti spesse e pesanti come fondi di bottiglia.
Ogni tanto per riposare un po’ il naso se li toglieva e li appioppava sul naso di Billo, il suo più caro amico.
Billo era un grosso orsacchiotto di peluche marrone che Melodia abbracciava addormentandosi e a cui confidava tutti i suoi segreti.
Ma una sera, quando ebbe i pesanti occhiali sul naso, Billo cominciò a parlare:
“Sono il mago che può guarire i tuoi occhi.

Tu sai perché i tuoi occhi non vogliono più vedere la luce?”

“Non lo so.
Il mago sei tu.
Dimmelo tu!” disse la bambina
“Queste cose le devi scoprire da sola, Melodia.
Sforzati di ricordare:
è successo qualcosa recentemente che può aiutarti a capire il perché della malattia?”
La bambina si concentrò, frugando nella memoria, ma non trovava nulla di significativo.

“Provaci ancora, Melodia!” la incitava Billo.

Dopo qualche ora di intensa riflessione, improvvisamente Melodia si ricordò.
Tre mesi prima, una domenica pomeriggio, durante una visita degli zii giocava con il cuginetto Nicola.
Indispettito da una frase di Melodia, Nicola aveva fatto a pezzi la bambolina di porcellana che la bambina teneva sul tavolo dei compiti.
Melodia ne aveva fatto una tragedia:
lacrime e strilli, brutte parole.
Alla fine, Melodia aveva rabbiosamente gridato al cugino:
“Non voglio vederti mai più!”
Da quel giorno la sua vista aveva incominciato ad abbassarsi.
Lo spiegò a Billo, che concluse:

“Allora sai che cosa devi fare…”

“Sì, lo so.
Devo perdonare, come mi ha insegnato la mamma!” disse la bambina
La bambina si sedette al tavolo e scrisse una lettera al cugino.
Le parole erano corrette solo più o meno, ma il senso era chiaro.
“Caro Nicola, ti perdono con tutto il cuore.
Ho dimenticato quello che è accaduto e ti voglio bene come prima…”
Da quel momento, la vista di Melodia ridivenne perfetta.
E gli occhiali dalle grosse lenti finirono … finirono … E chi si ricorda più dove finirono quegli orribili occhiali?

Brano tratto dal libro “Tante storie per parlare di Dio.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Amiche del cuore

Amiche del cuore

“Per piacere, resta!” imploravo.
Ann era la mia migliore amica, l’unica ragazzina del vicinato, e non volevo che andasse via.
Stava seduta sul mio letto, con gli occhi blu privi di espressione.
“Mi annoio!” disse arrotolandosi gli spessi riccioli rossi intorno a un dito.
Era venuta a giocare solo mezz’ ora prima.
“Per piacere, non andare!” chiesi supplichevole, “Tua mamma ha detto che potevi restare per un’ ora!”
Ann fece per alzarsi, poi vide un paio di mocassini indiani in miniatura sul mio comodino.
Con le loro perline dai colori vivaci sulla morbida pelle, quei mocassini erano la cosa che mi era più preziosa.
“Rimarrò se me li dai!” disse Ann.

Aggrottai le sopracciglia.

Non potevo immaginare di separarmi da quei mocassini.
“Ma me li ha dati la zia Reba!” protestai.
Mia zia era stata una donna bella e gentile, e io l’adoravo.
Non era mai troppo occupata per dedicarmi un po’ di tempo.
Ci inventavamo storie buffe e ridevamo tanto.
Il giorno in cui era morta, avevo pianto per ore sotto una coperta, incapace di credere che non l’avrei più rivista.
In quel momento, mentre tenevo con cura i mocassini nella mano, ero invasa dal dolce ricordo di zia Reba.
“Andiamo.” incitava Ann, “Sono la tua migliore amica!”
Come se ci fosse bisogno di ricordarmelo!
Non so che cosa mi prese, ma desideravo più di ogni altra cosa avere qualcuno che giocasse con me.
Lo volevo così tanto che porsi i mocassini ad Ann!
Dopo che li ebbe riposti in tasca, andammo in bicicletta sul vialetto per diverse volte e presto fu tempo per lei di tornare a casa.
Sconvolta per quello che avevo fatto, non avevo comunque voglia di giocare.

Quella sera sostenni di non avere fame e andai a letto senza cena.

Una volta nella mia stanza, iniziai davvero a sentire la mancanza dei mocassini!
Dopo che la mamma mi ebbe rimboccato le coperte e spento la luce, mi chiese cosa ci fosse che non andasse.
Le raccontai tra le lacrime di come avessi tradito la memoria di zia Reba e di quanto mi sentissi in colpa.
La mamma mi abbracciò con calore, ma tutto quello che mi disse fu:
“Bene, immagino che dovrai decidere cosa fare.”
Le sue parole non mi furono d’aiuto.
Sola nel buio, cercai di chiarirmi le idee.
“La legge dei bambini dice che non devi dare una cosa e poi riprendertela.” mi dicevo, “Ma è stato un affare conveniente?
Perché ho permesso ad Ann di giocare con i miei sentimenti?
Ma soprattutto, Ann è davvero la mia migliore amica?”
Decisi che cosa avrei fatto.
Mi agitai e mi rivoltai per tutta la notte, non vedendo l’ora che si facesse giorno.
A scuola, il giorno seguente, affrontai Ann.
Trassi un profondo respiro e le chiesi di rendermi i mocassini.

Sbarrò gli occhi e mi guardò a lungo.

“Per piacere!” pensavo, “Per piacere!”
“Okay.” disse infine, tirando fuori dalla tasca i mocassini, “Tanto non mi piacevano.”
Fui sopraffatta da una sensazione di sollievo.
Dopo qualche tempo io e Ann smettemmo di giocare insieme.
Scoprii nei dintorni dei bambini che non erano niente male, e spesso mi invitavano a giocare a softball.
Mi feci anche nuove amiche in altri quartieri.
Nel corso degli anni, ho avuto altre amiche del cuore.
Ma non ho più supplicato per la loro compagnia.
Sono arrivata a capire che gli amici sono persone che vogliono trascorrere il tempo con te, senza chiedere niente in cambio.

Brano di Mary Beth Olson

Mamma, ribassa

Mamma, ribassa

Isabella aveva dovuto sostituire suo marito nella gestione della casa e della piccola fattoria.
Il marito era emigrato in Francia a fare il bracciante agricolo stagionale per la raccolta delle barbabietole da zucchero.
Quando non aveva impegni scolastici,

Isabella veniva aiutata da suo figlio maggiore.

Avevano una stalla con diverse mucche da governare, ed Isabella si lamentava con il marito per la carenza di fieno, che doveva comprare a caro prezzo.
Questi acquisti, per lei, stavano diventando davvero onerosi.
Attraverso una fitta corrispondenza attraverso la posta, concordarono di vendere la mucca che avrebbe fruttato più soldi, chiamando il solito commerciante di fiducia.
Isabella aveva più volte assistito alle trattative di suo marito e decise di applicare quanto aveva appreso.

Allo stesso tempo pensò di insegnare al ragazzo come condurre una trattativa vantaggiosa.

Elogiò la salute della mucca, la beltà, la mitezza e l’ottima ed abbondante produzione di latte.
Concordarono un prezzo, che parve equo ad entrambi, e stabilirono la caparra, ma improvvisamente il commerciante ebbe un ripensamento circa la presunta età della bestia.
Isabella ebbe un sussulto di orgoglio e volle mostrare al commerciante che anche lei, sebbene donna, sapesse come si stabilisce l’età di una mucca, dallo stato della dentatura.
Per fermare la testa della bestia, che nel frattempo si era innervosita perché troppo bistrattata, fu costretta ad entrare nella greppia e nel fare questa operazione gli si era alzata, senza che se accorgesse, la gonna.

Il figlio, imbarazzato, disse subito:

“Mamma! Mamma, ribassa!”
Isabella prontamente rispose:
“No che non ribasso, dopo aver guardato e stimato da commerciante del mestiere.”

Brano di Dino De Lucchi
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Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno