L’importante è volersi bene e… dirselo

L’importante è volersi bene e… dirselo

“Stai dritto con la schiena.
Quante volte te lo devo dire?” disse il papà.
“Muoviti o facciamo notte!” gli disse la mamma.
“E piantala di far domande su tutto: sei stressante!” gli disse la sorella.
“Guarda come hai ridotto lo zainetto!
Se lo dovessi pagare tu…” continuò la mamma.
“Sei un mentecatto!” continuò la sorella.
Matteo credeva di essersi abituato alle parole che scandivano le sue giornate.
Si svegliava di solito al suono di:
“Sbrigati, sei in ritardo, lavati bene, hai messo tutto nello zaino?
Ma quanto sei imbranato!”

Finiva le giornate al suono di:

“Hai gli occhi che ti cadono nel piatto: ora te ne vai a dormire e non far storie come tutte le sere!
Quanto hai preso in italiano?
E spegni subito la luce!”
Ma quel giorno tutto prese una cattiva piega.
Alessandro, il suo migliore amico, gli aveva buttato in faccia:
“Ma sei diventato scemo?”
Che poi significa:
“Ti stai comportando come uno scemo!”
Titti, la maestra, l’aveva definito un “poltronaccio” e, durante la partita, Walter l’aveva chiamato “schiappa”.
Così quella sera due grossi lacrimoni gli scesero lungo le guance e finirono nel purè.
“Uh, ué, la lagna…” fece la sorella.
Matteo corse nella sua cameretta e si buttò sul letto.
Almeno lì poteva singhiozzare in pace.
Un discreto picchiettare alla finestra attirò la sua attenzione.
Corse a vedere e si trovò di fronte una creatura stranissima, ma piacevolissima.
Non si capiva bene come era fatta, ma tutto in lei era soffice, morbido, luminoso, sorridente e carezzevole.

“Chi sei?” domandò Matteo.

La risposta sbocciò come un trillo di campanelli, dolce come biscotti e Nutella:
“Sono un coccolone…
E ho visto che hai bisogno di noi.
Dammi la mano e vieni con me.”
Matteo si mosse come in un sogno.
La morbida creatura lo prese per mano e lo fece volare oltre la finestra nel cielo.
“Dove mi porti?” chiese Matteo.
“Nel paese dei coccoloni!” rispose la strana creatura.
“Dov’è?” ribadì il piccolo.
Dopo un volo leggero attraversarono tutti i colori dell’arcobaleno, che hanno un gusto squisito (il verde è alla menta, l’arancione sa di aranciata, l’indaco è tamarindo e così via), atterrarono in un paese fiorito e pieno di allegria.
Matteo vide che c’erano i bambini coccoloni, i nonni coccoloni e perfino i maestri coccoloni, naturalmente nelle scuole coccolone.

I bambini coccoloni furono i primi ad invitarlo a giocare.

Matteo ci si mise d’impegno, anche perché l’atmosfera era piacevole e amichevole.
E decisamente diversa da quella a cui era abituato.
Quando qualcuno sbagliava, c’era sempre qualcun altro che diceva:
“Coraggio. La prossima volta andrà meglio.”
E quando Matteo riuscì a fare gol, perfino il portiere avversario gli disse:
“Bravo!”
Matteo, invece di esultare, constatò amaramente che probabilmente quello era il primo “bravo” della sua vita.
Dopo la partita, i suoi nuovi amici coccoloni fecero a gara per invitarlo nelle loro case.
Matteo accettò l’invito del portiere avversario, quello che gli aveva detto “bravo”.
Era una famiglia come la sua:
mamma, papà, sorella e fratellino.
Solo che questi erano tutti coccoloni.

A tavola, Matteo ebbe il posto d’onore.

La mamma coccolona lo baciò e Matteo si sentì venire le lacrime agli occhi, perché era tanto tempo che la sua mamma non lo baciava più e lui non sapeva come fare a dirglielo.
“Ho anch’io una sorella più grande.” disse Matteo.
“Allora sai anche tu che cos’è una rottura,” disse il piccolo coccolone, “ma è così comoda per i compiti e per giocare-”
Tutti risero.
Poi tutti fecero il gioco “Racconta la tua giornata”.
Il papà, la mamma, la sorella e il fratellino raccontarono quello che avevano fatto, gli avvenimenti belli della loro giornata.
Matteo fu colpito soprattutto da una cosa: nella famiglia coccolona tutti si ascoltavano.
Si ascoltavano davvero, non si interrompevano a vicenda, non dicevano:
“Smettila un po’, mi fai venire il mal di testa!”
Si ascoltavano semplicemente.
Poi tutti gli occhi si puntarono su Matteo.
“E la tua giornata com’è stata?” chiese il papà coccolone.
Matteo raccontò tutto quello che aveva dentro e che fino a quel momento aveva confidato solo al cuscino.
Lo ascoltarono comprensivi.

Alla fine il papà coccolone gli disse:

“Vedi, l’importante è volersi bene e… dirselo”.
Gli diede un sacchetto di polvere rosa.
“Quando sarai a casa prova questa polverina.
Soffiane un po’ qua e là.
È la polvere coccolona!” gli spiegò.
In quel momento Matteo si svegliò.
“Che razza di sogno ho fatto!” pensò.
Ma…
Spalancò gli occhi e si rizzò a sedere sul letto.
Perché il suo pugno stringeva una manciata di polvere rosa.
“Ma allora è vero!” esclamò.
Mise la polverina dentro una scatoletta e poi si alzò:
“Voglio provare se funziona.”
Vide sul tavolo di cucina il caffè del papà.
Furtivamente fece cadere nella tazzina un pizzico di polverina.
Il papà, come al solito, era di corsa.

Bevve il caffè e poi disse soddisfatto:

“Buono!”
Questo non l’aveva mai fatto.
Anche la mamma se ne accorse.
Poi, incredibilmente, prima di uscire il papà fece una carezza affettuosa sulla testa di Matteo:
“Passa una bella giornata, ometto!
E dacci dentro a scuola perché stasera ti sfido a Scarabeo.”
“Urrà, funziona!” pensò Matteo, felice.
“Ne metterò una razione nel caffè della maestra”.

Di quanta polvere coccolona avremmo bisogno anche noi?

Brano tratto dal libro “Novena di Natale per i bambini.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

Caro papà, noi crediamo in te!

Caro papà, noi crediamo in te!

Quando fu assunto come redattore in una importante rivista nazionale, gli sembrò di toccare il cielo con un dito.
Telefonò a mamma, papa e naturalmente alla dolce Monica alla quale disse semplicemente:
“Ho avuto il posto!
Possiamo sposarci!”
Si sposarono e negli anni nacquero tre vispi bimbetti:

Matteo, Marta e Lorenzo.

Sei anni durò la felicità, poi la rivista fu costretta a chiudere.
Il giovane papà si impegnò a trovare un altro posto come redattore in un giornale locale.
Ma anche quel giornale durò poco.
Questa volta la ricerca fu affannosa.
Ogni sera la giovane mamma e i tre bambini guardavano il volto del papà, sempre più rabbuiato.
Una sera, durante la cena, l’uomo si sfogò amareggiato:
“È tutto inutile!

Nel mio settore non c’è più niente:

tutti riducono il personale, licenziano…”
Monica cercava di rincuorarlo, gli parlava dei suoi sogni, delle sue indubbie capacità, di speranza.
Il giorno dopo, il papa si alzò dopo che i bambini erano già usciti per la scuola.
Con un gran peso sul cuore, prese una tazza di caffè e si avvicinò alla scrivania dove di solito lavorava.
Lo sguardo gli cadde sul cestino della carta.
Alcuni grossi cocci di ceramica rosa attirarono la sua attenzione.
Si accorse che erano i pezzi dei tre porcellini rosa che i bambini usavano come salvadanaio.
E sul suo tavolo c’era una manciata di monetine, tanti centesimi e qualche euro e anche alcuni bottoni dorati.
Sotto il mucchietto di monete un foglio di carta sul quale una mano infantile aveva scritto:

“Caro papà, noi crediamo in te.

Matteo, Marta e Lorenzo.”
Gli occhi si inumidirono, i brutti pensieri si cancellarono, il coraggio si infiammò.
Il giovane papa strinse i pugni e promise:
“La vostra fede non sarà delusa!”
Oggi, sulla scrivania di uno dei più importanti editori d’Europa c’è un quadretto con la cornice d’argento.
L’editore la mostra con orgoglio dicendo:
“Questo è il segreto della mia forza!”
È solo un foglio di carta con una scritta incerta e un po’ sbiadita:
“Caro papà, noi crediamo in te!
Matteo, Marta e Lorenzo.”

Brano di Bruno Ferrero

Il seme più piccolo (Il seme di senape)

Il seme più piccolo
(Il seme di senape)

Non si sa come fosse capitato proprio là, ma nella manciata di grossi e lucidi grani di frumento c’era un granellino nero nero, così piccolo che era quasi invisibile.
Il contadino buttò la manciata di semi nella terra aperta dall’aratro.
Con grande dignità e profonda consapevolezza della loro missione, i semi di grano presero posto nelle loro culle di buona e profumata terra.
Ma quando arrivò il semino nero, scoppiò tra le zolle una gran risata.
“Pussa via, sgorbietto inutile!” brontolò stizzito un grosso seme di frumento che si era ricevuto il semino nero proprio sulla pancia.

“Chiedo scusa, signore.” mormorò il granellino, “Sono spiacente!”

“È il seme più ridicolo che mi sia capitato di vedere!” sbraitò il bulbo di una cipolla selvatica.
Le erbe del fossato, vecchie e pettegole, cominciarono a dire malignità di ogni sorta sui semi moderni che ciondolano qua e là e non riescono a combinare niente.
Anche i semi di papavero ridevano e l’avena, già alta, propagò al vento il suo parere:
“Divento gialla se ne uscirà una fogliolina sola!”
Il piccolo seme si sentì avvilito da quelle voci di disprezzo, che il vento, gran chiacchierone, sparpagliava dappertutto.
Si fece ancora più piccolo, in un cantuccio di terreno, ma non si scoraggiò.
Non aveva nessuna intenzione di mancare alla sua missione.
Qualcosa era pur capace di fare!
Sognò di crescere alto fino a sovrastare anche le canne dello stagno…
“Chissà se l’avena diventerà gialla per davvero.” pensò.

Voleva riuscirci a tutti i costi!

Lasciò che i grossi semi di frumento si crogiolassero pigramente deridendolo e facendosi beffe della sua piccolezza.
Egli affondò subito le radici nel terreno umido e pieno di squisito nutrimento.
Fu un inverno faticosissimo per lui.
Gli altri semi si godevano il tepore profumato della terra, facevano le cose con calma.
Giocavano a carte o agli indovinelli per passare il tempo.
Il piccolo seme invece ce la metteva tutta.
Sbuffava, sudava, ma impegnava nella sfida tutte le sue forze.

C’era freddo fuori!

Non importava.
Il piccolo stelo si aprì la strada verso il cielo senza paura.
Venne l’estate.
I viandanti che percorrevano la stradina accanto al campo di grano si fermavano e additavano meravigliati una pianta alta e rigogliosa che dominava la distesa del grano.
Un mattino dorato passò anche il Signore.
Chiacchierava con i suoi apostoli, parlando loro dei gigli del campo e degli uccelli dell’aria.
Giunto davanti alla pianta sì fermò e la guardò con intensità.
I passerotti smisero di far chiasso e anche il vento, che si divertiva a far frusciare gli steli del grano e ad arruffare l’erba del fosso, tacque sospeso.
Gesù sapeva l’enorme fatica del piccolo seme nell’inverno e volle coronare la fiducia che aveva avuto in se stesso.

Disse:

“Guardate il granello di senape.
È il più piccolo di tutti i semi, ma quando è cresciuto, è più grande di tutte le piante dell’orto; diventa un albero, tanto grande che gli uccelli vengono a fare il nido in mezzo ai suoi rami.”
Il frumento, che si aspettava qualche elogio sulla sua importanza, quasi seccò per l’invidia.
Il piccolo seme nero, là sotto, esplodeva di gioia.

Brano tratto dal libro “Tutte storie. Per la catechesi, le omelie e la scuola di religione.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Il maestro, l’allievo ed il sale

Il maestro, l’allievo ed il sale

Si narra che un giorno un vecchio maestro fosse stanco delle continue lamentele del suo allievo.
Perciò un mattino lo spedì a prendere un po’ di sale.
Quando l’allievo tornò, il maestro lo pregò di mescolarne una manciata in un bicchiere d’acqua e di berla.

“Com’è?” domandò il maestro.

“Salata!” rispose l’allievo, facendo una smorfia.
Il maestro rise e invitò il ragazzo a mescolare la stessa manciata di sale nel vicino lago.
I due si recarono in silenzio fino alla riva e dopo che l’allievo ebbe versato la manciata nell’acqua, il maestro disse:
“Adesso bevi dal lago!”
L’allievo obbedì e di nuovo il maestro domandò:
“Com’è?”

“Fresca.” rispose l’allievo.

“Hai sentito il sapore del sale?” domandò il maestro.
“No.” rispose il giovane.
Quando i due si sedettero insieme, il maestro disse all’allievo:
“L’amarezza della vita è, né più e né meno, come il sale puro.

La quantità di amarezza nella vita rimane esattamente la stessa.

Tuttavia la quantità di amarezza che avvertiamo dipende dal contesto in cui la proviamo.
Se avverti amarezza, dunque, l’unica cosa che puoi fare è ampliare il senso delle cose.
Smetti di essere un bicchiere.
Sii un lago!”

Storia Zen
Brano tratto dal libro “Kung-Fu e l’arte di stare calmi: I 7 principi Shaolin per l’autocontrollo.” di Bernhard Moestl

La divisione dei fagioli

La divisione dei fagioli

Correva l’anno bisestile 1948.
Uno dei primi anni in cui l’Italia stava cercando di riprendersi dalla seconda guerra mondiale, con una difficile ricostruzione da cui ripartire, mentre il mondo stava per dividersi in due blocchi geopolitici, quello comunista e quello occidentale, che daranno inizio, nei successivi anni, alla guerra fredda ed alla costruzione del muro di Berlino.
La società veneta era in grande fermento, soprattutto quella contadina, aggravata dall’atavico assetto dell’istituzione patriarcale, che costringeva a vivere e lavorare, sotto lo stesso tetto, fratelli con prole allora numerosa.
A gestire, con le rigide regole di quell’epoca, era di norma il vecchio capofamiglia che, quando veniva a mancare,

rendeva la divisione per i figli quasi obbligatoria.

Erano le donne a proporre maggiormente i propri uomini per la gestione del nucleo famigliare e per la divisione dei beni, sperando di ottenere più autonomia e libertà.
La parola più gettonata era democrazia.
Non sempre la divisione avveniva in un clima sereno.
Risultava sempre difficile ottenere la parte migliore dal poco che si aveva e, nel tirare la coperta troppo corta, qualcuno rimaneva sempre scoperto.
In questo contesto, a Levada, due fratelli decisero di procedere alla spartizione dell’eredità, assoldando un mediatore per dividere casa, terra e bestiame.
Per le cose restanti decisero di fare da soli, per cercare di risparmiare.

Sorsero, però, subito dei problemi.

L’incidente più eclatante avvenne nel granaio dove, dopo essersi strattonati per la divisione di un sacco di mais e uno di preziosi e nutrienti fagioli, fecero cadere per le scale i due sacchi, che si ruppero.
I cereali si mischiarono con i legumi provocando un vero e proprio disastro, anche se l’aspetto cromatico dei vari colori era veramente bello da vedere.
Tutta la famiglia, bambini compresi, fu costretta a separare i due prodotti con una pazienza certosina, ma nel contempo aiutò tutti a riflettere ed a riportare calma e armonia.
La divisione dei beni proseguì.
Grazie a questo episodio nacque una grande e duratura solidarietà, che si perpetuò nel tempo.
Anche oggi, i discendenti diretti beneficiano di quel particolare episodio.
Inoltre ne trae giovamento anche il paese, che li fa operare in armonia per la riuscita della festa patronale.

Emilio Durighello,

testimone bambino di allora, si commuove nell’evocare l’episodio e conserva gelosamente, ancora oggi, una piccola manciata di quei fagioli, riservati per il gioco collettivo della tombola.
Per il proprietario, il tempo trascorso li ha impreziositi di valore, dato che, quei fagioli fanno riaffiorare nella sua mente un vivo ricordo della singolare vicissitudine famigliare.
I fagioli possiedono, come caratteristica magica, la forza di unire e mai quella di dividere, come avviene nel campo, nel baccello, in pentola ed in famiglia.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

La penitenza del chierichetto (Il sacchetto di fagioli)

La penitenza del chierichetto
(Il sacchetto di fagioli)

Anch’io sono stato chierichetto ed anche molto serio.
Mia mamma era rimasta molto colpita ed era orgogliosa dell’invito che mi aveva fatto il Parroco dell’epoca, Don Mario, per fare il chierichetto e ciò perché noi eravamo una famiglia di immigrati e, l’immigrato in genere, non è da subito ben inserito nella vita del paese.
Un tempo era così, ora la mentalità è più aperta, ma al tempo dovevi avere pazienza.
Allora mia mamma mi manda subito da un’amica sarta, che mi prenda le misure e mi confeziona la vestina del chierichetto.
Nella mia Parrocchia allora i chierichetti indossavano una tunica nera con sopra una cotta bianca
corta.
La sarta era brava e mi confezionò la più bella vestina di tutti gli altri ragazzi, che facevano i chierichetti.
Io ero uno dei più piccoli e dovevo ancora imparare molte cose allora il Parroco mi affidò ad uno più vecchio che mi doveva insegnare i compiti del chierichetto nelle varie cerimonie.

Scoprii allora che i chierichetti non sono tutti uguali:

c’era il turiferario in genere più anziano (si fa per dire) degli altri, che portava il turibolo per porgerlo al celebrante nel momento opportuno per incensare.
Il turiferario è assistito da quello che porta l’incenso dentro la navicella, poi ci sono quelli che portano le torce accese, quelli che seguono la messa, il cerimoniere che dà gli ordini, quelli che accendono e spengono le candele, quelli che rispondono alla Messa.
Insomma molti compiti e per ogni compito serviva una specifica istruzione perché il Parroco era severissimo, non bisognava assolutamente parlare tra noi, né litigare, ecc.
Il Parroco ci chiamava a fare l’istruzione dei chierichetti una volta la settimana e durante le vacanze anche due volte alla settimana.
Lui teneva la conferenza, ci raccomandava il silenzio, la meditazione, le buone letture e poi ci lasciava alle istruzioni pratiche affidate al capo chierichetto più anziano.
Io venni destinato a “rispondere alla messa” ossia alla liturgia della messa domenicale o feriale, ero troppo piccolo, infatti per il turibolo, che era più alto di me ed anche per le candele alle quali non arrivavo nemmeno con lo stoppino acceso lungo venti centimetri.
La Santa Messa era in latino ed io il latino non lo sapevo,

ma il Parroco mi diede il libricino della messa in latino scritto in due caratteri.

Le frasi scritte con caratteri normali le diceva il Parroco o Celebrante mentre le risposte in neretto le dovevo dire io.
Ed io in un lampo imparai tutte le risposte al celebrante in latino anche se non sapevo cosa volessero dire.
L’altare non era rivolto verso il pubblico come ora ma rivolto verso il fondo della Chiesa ed il Parroco dava le spalle al pubblico e la fila dei chierichetti si metteva nel presbiterio alle spalle del celebrante su due file.
Si entrava dalla Sagrestia, genuflessione ai piedi dell’altare poi il Parroco saliva all’altare poggiava il calice, quindi scendeva e mi ricordo ancora le prime frasi della Messa.
Dopo aver recitato in ginocchio il tradizionale:
“In nomine Patris et Filii…… ecc”, il celebrante diceva:
“introibo ad altare Dei.” ed io subito pronto, “Ad Deum qui laetificat juventutem meam.”
Il Parroco celebrante rispondeva:
“Adiutorium nostrum in nomine Domini.” ed io pronto e immediato, “Qui fecit caelum et terram….”
Poi veniva il Confiteor e cosi via.
Ma noi piccoli chierichetti non sapevano il latino e quindi le frasi le troncavamo o non eravamo pronti a rispondere ed allora il Parroco ci riprendeva ed anche ci suggeriva.

Io però più che dal latino ero impacciato con la mia bella tunica.

La prima parte della Messa si diceva tutta in ginocchio.
Il pavimento del presbiterio non era mai stato finito e non aveva il marmo come adesso, ma c’era il cemento grezzo.
Avevo i calzoni corti, mi sollevavo allora la tunica per non rovinarla e mi inginocchiavo sul cemento grezzo, che era fatto tutto di piccoli sassolini che sulle ginocchia nude diventavano dolorose.
Dopo un po’ bruciavano, allora per trovare un riparo arrotolavo la tunica sotto le ginocchia così per un po’ il dolore passava.
Il Parroco se ne accorgeva dei vari spostamenti e movimenti e sommessamente ci invitava a stare fermi.
Tra i chierichetti mi feci notare per la serietà ed allora mi chiamavano soprattutto per i funerali, mentre quelli più vecchi e forse anche un tantino più furbi preferivano i matrimoni.
Chissà perché!
Tra i chierichetti c’era sempre qualche monello.
Qualche carboncino destinato al turibolo prendeva qualche altra strada e poi lo si usava per accendere il fuoco o per bruciare le barbe del granoturco o i semi del fenocio che davano un certo aroma di anice.
Il Parroco però ci diceva, che il chierichetto doveva essere sempre irreprensibile e studioso ed allora invece che mandarci in gita premio, ci mandava a fare gli esercizi spirituali a Villa Immacolata a Torreglia.

Ci andai anch’io, ancora molto piccolo così scoprii cosa fossero questi esercizi spirituali:

silenzio, raccoglimento, preghiera, poco gioco, nessun pallone, meditazione al mattino, meditazione al pomeriggio, silenzio assoluto dopo la cena.
La Messa tutti i giorni poi l’istruzione dei chierichetti per gruppi.
Anche se non si poteva parlare tuttavia conobbi lo stesso un mio coetaneo di una Parrocchia vicina e facemmo subito amicizia perché mi era parso subito molto sveglio.
Mi confidò infatti che nella sua Parrocchia dopo la Messa degli sposi lui andava dai compari degli sposi li salutava e tra un saluto e l’altro diceva loro:
“La settimana scorsa abbiamo fatto un bel matrimonio, ma così bello che ci hanno anche dato una mancia per i chierichetti!”
In genere l’allusione funzionava e subito, anche i nuovi compari, gli sganciavano una bella mancia, che lui raccoglieva diligentemente in una musina per fare una bella gita a fine anno.
Dopo la meditazione sul finire degli esercizi spirituali venne anche la confessione.
Andai a confessarmi da un prete che non conoscevo.

Si dimostrò subito molto severo ed austero.

Come penitenza, dopo la confessione, non mi prescrisse come faceva di solito il mio Parroco di recitare delle preghiere, ma di mettere una manciata di fagioli nelle scarpe e di camminare il giorno dopo con i fagioli dentro alle scarpe.
Mi consegnò infatti un sacchettino piccolissimo con dentro una decina di fagiolini bianchi con l’occhio nero.
Misi i fagioli nelle scarpe come mi aveva detto e poi non riuscivo più a correre perché mi facevano male le piante dei piedi lungo le stradine in salita della Villa Immacolata.
Incontrai il mio nuovo amico e vidi che lui camminava invece spedito e correva senza problemi.
Lo chiamai e gli dissi sottovoce, perché si doveva stare in silenzio:
“Sono andato a confessarmi ed il prete mi ha dato un sacchettino di fagioli da mettere come penitenza nelle scarpe!”
“Anche a me ha dato la stessa penitenza,” mi disse l’amico, “ed anch’io ho messo i fagioli nelle scarpe!”

Ed allora io replicai tutto stupito:

“Come mai tu corri senza problemi ed io ho un male boia alle piante dei piedi?” gli chiesi molto stupito.
E Lui mi rispose sorridendo:
“I fasoi non mi fanno male ai piedi, perché io ieri sera li ho messi a bagno in una tazza di acqua calda.
Il confessore non mi ha detto, infatti, che i fagioli dovevano essere secchi o bagnati e io prima di metterli nelle scarpe li ho messi a bagno.”
Rimasi molto colpito dalla furbata e dissi tra me questo amico si toglie facilmente dai problemi.
Beh stenterete a credere, poi ci perdemmo di vista, ma questo compagno di esercizi spirituali divenne in seguito Direttore di Banca e le rare volte, che andavo nella sua agenzia dicevo a gran voce:
“Direttore mi fanno male i piedi!” e lui replicava:
“Acqua calda e fasoi!”

Brano senza Autore, tratto dal Web