Il tempo e le circostanze possono cambiare in qualsiasi momento.

Da un albero si possono produrre un milione di fiammiferi, ma basta un solo fiammifero per bruciare milioni di alberi.
Quando un uccello è vivo, mangia le formiche ma, quando l’uccello è morto, sono le formiche a mangiare l’uccello.
Non sottovalutare e non fare del male a nessuno nella tua vita.

Potresti essere potente oggi, ma ricordati:

il tempo è più potente di te!
Quindi sii buono.
Fai del bene.

Citazione Anonima.

Piatti e vini patriottici

Piatti e vini patriottici

Piccole leggende (o storie) locali, nel corso dei secoli, sono state tramandate oralmente.
Alcune di esse meriterebbero di essere salvate, prima che finiscano in un definitivo oblio.
Come raccontato nei libri di storia, nel marzo del 1848, gli austriaci vennero sconfitti con i noti moti rivoluzionari, con rivolte che interessarono tutto il popolo, da Milano e Venezia.
Daniele Manin riportò in vita la repubblica Serenissima, ma dovette capitolare nello stesso agosto per la pesante controffensiva austriaca.

Il vessillo del Leone di San Marco si arrese per il duro assedio e per la fame.

Gli occupanti austriaci perseguitarono in tutti i modi i patrioti italiani, vietando ogni dissenso e manifestazione, costringendoli alla clandestinità.
Presero di mira, vista la segnalazione di una spia, una locanda con cucina nel trevigiano, dove i patrioti si riunivano dopo il mercato per organizzarsi.
Venivano serviti loro piselli, riso e fragole, che con i loro colori, verde, bianco e rosso, simboleggiavano, in codice, la bandiera italiana.
In quel particolare contesto storico, era proibitissimo esibire, o raffigurare, la nostra bandiera.
In abbinato, in esclusiva per i nostri connazionali, veniva servito il vino Verdiso, in omaggio al compositore patriota Giuseppe Verdi, poiché tale vino ricordava il cognome del musicista e le sue arie.

Gli austriaci, per smascherare i complottisti e poterli punire, fecero un blitz, ordinando tranquillamente da mangiare.

L’oste, che si aspettava la loro visita, gli servì a malincuore seppie in nero e polenta gialla, ma solo per non destare sospetti.
I colori, delle seppie e della polenta, evocarono nelle loro menti la bandiera dell’impero austro-ungarico, che era nera e gialla.
Gli ufficiali furono entusiasti del trattamento e dell’abbinamento del vino.
Non prestarono, però, particolare attenzione al nome del vino.
Difatti, il vino servito era un Raboso del Piave che, per l’oste patriota, significava rabbia e spirito di riscatto.

Ovviamente si trattò di raffinata satira, politica ed enogastronomica.

Si narra che gli austriaci rimasero talmente soddisfatti del piatto che, rientrati in patria, fecero ampia propaganda al piatto mangiato.
Ancora oggi, nei ristoranti veneti che servono specialità di pesce, quando gli austriaci visitano l’Italia da pacifici turisti, chiedono di poter degustare questo determinato piatto.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Le scarpette d’oro della Madonna

Le scarpette d’oro della Madonna

Una vedova, che aveva due figlie, riusciva a mantenere la famiglia filando giorno e notte.
La mattina della festa della Madonna del Rosario, la vedova andò a riportare il filato dalle varie comari sperando che le pagassero il lavoro.
Invece non riuscì a riscuotere neanche un soldo, perché tutti avevano una scusa per non pagare.

La donna, prima di ritornare a casa,

si fermò in Chiesa e si mise a pregare davanti alla statua della Madonna del Rosario.
“Santa Madre di Dio, voi che siete mamma, mi sapete dire che cosa darò oggi da mangiare alle mie povere figlie?
Non ho di che accendere il fuoco, né farina né pane:
aiutatemi voi, perché sono alla disperazione!”
La Madonna ebbe compassione della povera vedova:

allungò il piede e le gettò la sua scarpetta d’oro.

La donna, tremante di gioia, andò sulla piazza dove c’era un’orefice e gli mostrò la scarpetta per vendergliela.
Questi, però, riconobbe subito la scarpetta della Madonna:
chiamò le guardie e la donna fu messa in prigione.
Prima della condanna essa chiese di poter pregare un’ultima volta davanti alla statua della Madonna del Rosario.

Il favore le fu accordato.

“Santa Madre di Dio!” supplicò la vedova quando fu davanti alla statua, “È vero o no che la scarpetta me l’avete data voi e non sono stata io a rubarvela?”
Tutti stavano muti a guardare, ed ecco che la statua cominciò a muoversi, il viso piano piano prese colore, la Madonna sollevò il piede e gettò l’altra scarpetta verso la vedova.
Allora la gente gridò al miracolo.
Chi piangeva, chi rideva.
La vedova se ne tornò libera dalle sue figlie con le scarpette d’oro della Madonna.

Brano tratto dal libro “Mese di maggio per i bambini.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

La serva fortunata

La serva fortunata

Una nobildonna, ricca proprietaria terriera, amava frequentare il bel mondo, recandosi a teatro e alle opere liriche.
Si faceva accompagnare da una ragazza, più dama di compagnia che serva, figlia di un suo mezzadro.
Scelta per la sua rara bellezza, per il comportamento distinto e per sapere recitare a memoria le arie e i brani del teatro una volta rientrate a casa,

con grande diletto della padrona.

Per essere persona alla pari, veniva vestita con abiti all’ultima moda e veniva esibita come un trofeo alle feste mondane.
Un giorno la nobildonna la vide pensierosa e triste quindi le chiese il motivo, ottenendo questa risposta:
“Io vengo trattata bene e sono vestita come una regina, mentre i miei fratelli vanno in giro con le pezze ai pantaloni!”

Poi continuò:

“Vane sono state le preghiere che i miei genitori hanno fatto recitare ai miei fratelli da piccoli, dopo quelle ufficiali.
Queste recitavano così:
“Santa Madre, fate che le braghe del padrone vadino bene al servitore!” e per ironia della sorte le braghe dismesse di vostro marito sono di due taglie più piccole.

Mentre a me facevano pregare in questo modo:

“Signore aiutatemi, quello che mi mancherà nel mangiare e nel vestire, donatemi!”
Tutti i miei desideri sono stati esauditi, al di sopra di ogni più rosea aspettativa e, in più, mi sono anche fidanzata!”

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Tonto Zuccone ed il periodo del lockdown

Tonto Zuccone ed il periodo del lockdown
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Il giapponese

Fuori dal comune

Il vaccino anti-covid

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“Il giapponese”

Tonto Zuccone, fino a quando non siamo stati costretti a rimanere a casa per paura del covid-19 (coronavirus), saltuariamente si recava a mangiare in una tipica osteria, dove proponevano, con successo, una frittata con le cipolle di Tropea.
Il prezzo elevato non scoraggiava i tanti turisti che facevano la fila per un posto a sedere.
Tonto vi entro con le mani in tasca, essendo di casa e, per averlo visto fare nei film, aprì con lo sterno del torace la porta, la quale si apriva a libro con una lieve spinta e si richiudeva veloce in automatico, con il sistema delle molle.

Dietro di lui, ad una distanza ravvicinata, c’era un giapponese, che prese in piena faccia la porta che Tonto aveva fatto basculare.

Il giapponese nascose le lacrime portandosi le mani al viso, anche se il suo piagnucolare attirò l’attenzione dell’oste che chiese a Tonto:
“Come sei riuscito a far piangere il giapponese, se avevi le mani in tasca, la bocca chiusa e gli voltavi le spalle?
Hai forse mangiato il solito pentolone di fagioli?”
Tonto non aveva capito di aver colpito, involontariamente, il signore giapponese, quindi replicò:
“Io non centro; lo avrai spaventato tu con il prezzo spropositato della frittata appeso nella porta, dove trasformi le normali uova di corte che ti fornisco io in quelle d’oro e, certamente non piange per le cipolle di Tropea, che sono di una delicatezza infinita!”

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“Fuori dal comune”

Tonto Zuccone, come tutti in tempo di covid, per via delle restrizioni imposte in seguito al periodo di lockdown, è stato costretto a cambiare le sue abitudini di vita, rinunciando, per esempio, a frequentare il bar del paese, dove incontrava gli amici, per evitare assembramenti.
Nonostante la zona rossa imposta dal governo, nel quale erano vietati gli spostamenti da un comune all’altro, se non motivati da questioni urgenti o di lavoro, Tonto, per smaltire il mal da frigo, causato dalle troppe aperture e dalle esagerazioni, non aveva rinunciato alla sua passeggiata quotidiana, sconfinando, però, in un comune limitrofo.

Fermato per un controllo dalle forze dell’ordine si sentì dire:

“Dobbiamo sanzionarti perché sei fuori comune!”
Tonto, rimasto quasi senza parole, replicò:
“È una vita che mi sento dire che sono un tipo fuori dal comune, ma non mi hanno mai sanzionato prima per questo, se mai aiutato!”

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“Il vaccino anti-covid”

Tonto Zuccone aspettava con ansia il momento in cui si sarebbe potuto vaccinare contro il covid19 (coronavirus).
Bramava il momento in cui sarebbe potuto tornare ad una vita normale, soprattutto per riprendere le relazioni interpersonali, di cui aveva tanto bisogno.
Arrivò il giorno in cui si dovette recare al centro vaccinale e, una volta espletate le formalità dell’accettazione e del giudizio medico, fu indirizzato dai volontari in divisa a fare una breve fila per l’inoculazione del siero.
Arrivato il suo turno, tentennò per la paura improvvisa dell’ago.
L’infermiera, intanto, lo squadrò da cima a fondo, trovandolo alquanto folcloristico e singolare.
Fissandolo, gli disse:
“Avanti un altro!”

Tonto intrepretò male questa frase.

Capì, infatti, che si sarebbe dovuto mettere da parte, come gli era capitato tante altre volte nella sua vita, suo malgrado.
Non riusciva a capire il motivo di questa richiesta nel contesto in cui si trovava e, invece di fare i due passi avanti per il vaccino, si girò e riprese la fila dall’ultimo posto.
La cosa fu notata da un addetto allo smistamento che gli chiese:
“Perché hai rifatto la fila se era il tuo turno?”
Tonto rispose:
“Perché l’infermiera ha detto avanti un altro, e quell’altro non ero certo io, ma quello che veniva dopo di me!”
“Ma allora sei proprio tonto a non capire come funzionano le cose semplici?” domandò l’addetto. “Certo che sono proprio io!
Tonto Zuccone in persona.
È scritto anche nei miei documenti di identità!” e sorridendo, lasciò l’addetto senza parole.

Brani di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione dei racconti a cura di Michele Bruno Salerno

Cittalavoro, un tempo Cittallegra

Cittalavoro, un tempo Cittallegra

C’era una volta una città che si chiamava Cittallegra.
In quella città alla gente piaceva ridere, parlare e riunirsi per fare festa.

I giorni più belli erano le domeniche.

La gente trovava bello riunirsi in chiesa, ascoltare il sacerdote, cantare i canti religiosi e poi tornare a casa per mangiare insieme l’arrosto.
Cittallegra era una cittadina molto carina, solo che la gente non riusciva a diventare ricca!
Le loro case erano più piccole delle case di altre città e le stradine più strette.
Quando andavano a visitare altre città, i cittallegrini si vergognavano.
“Qualcosa deve cambiare!” decisero i cittadini, e si riunirono per stabilire da dove cominciare.
“Aboliamo le domeniche e le feste, ci saranno giorni in più per lavorare!” fu la prima proposta che incontrò il favore di tutti.
“Ci servono più lavoratori!” e perciò si decise di mandare nelle fabbriche anche le donne.
Ma le donne avevano già tanto da fare a casa per la famiglia e per la cura dei genitori o dei nonni.

Allora i cittadini decisero:

“I bambini vanno all’asilo, i vecchi all’ospizio e i malati all’ospedale!”
Cittallegra diventò un grande cantiere e le imprese edili crescevano sempre di più; esse demolivano, ricostruivano, spianavano piazze, allargavano le strade!
“Perché la nostra città si chiama Cittallegra?” chiese un cittadino, “Sarebbe molto meglio chiamarla Cittalavoro!”
Questa proposta piacque tanto che venne subito accolta.
Cittalavoro cresceva sempre di più:
divenne grande, grigia, rumorosa, noiosa, pericolosa.
Sulle strade correvano le macchine e i pedoni avevano paura.
La gente non si incontrava più come una volta, anzi le persone non si conoscevano più, non si salutavano più.
La domenica era un giorno come gli altri.
Un giorno, i bambini dell’asilo andarono nell’ospizio dei nonni.
“È vero che Cittalavoro prima si chiamava Cittallegra?” chiesero i piccoli.

“Sì, questo è vero!” risposero i nonni.

“Ed era anche una città più allegra?” chiesero allora i bambini.
“Molto più allegra!” spiegarono i nonnini.
“Come mai, poi, tutto è cambiato?” proseguirono i bambini.
“Tutto cominciò quando tolsero le domeniche e le feste!” conclusero i nonni.
I bambini spalancarono gli occhi e domandarono:
“Feste?
Che cosa sono le feste?”

Brano tratto dal libro “I dieci comandamenti raccontati ai bambini.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

Aspetta un attimo, tesoro! (Samuele e la mamma)

Aspetta un attimo, tesoro! (Samuele e la mamma)

Ultimamente la fretta ha preso il sopravvento e la mia frase più frequente è:
“Aspetta un attimo, tesoro!”
Lo dico a mio figlio mentre accudisco la sua sorellina; lo dico a mia figlia mentre aiuta suo fratello e lo dico persino al mio paziente marito.
Mi ritrovo a pronunciare questa frase in una serie infinita di circostanze.
Alcune settimane fa, mio figlio mi ha chiesto di preparargli la merenda e io, naturalmente, gli ho risposto:

“Aspetta un attimo, tesoro!”

Mi sono affrettata a finire quello che stavo facendo e poi sono corsa a preparargli la merenda.
Lui si è seduto al tavolo e ha cominciato a mangiare di gusto mentre io già pensavo di tornare a occuparmi delle mie faccende, ma poi ho deciso di prendermi una pausa e di sedermi insieme a lui.
“Grazie per avere aspettato che finissi di riporre i piatti, prima di prepararti la merenda.
Sei stato davvero molto paziente!”
Lui annuì e continuò a riempirsi la bocca di Nutella.
“Sai una cosa, Samuele, ultimamente sono davvero molto indaffarata.
Ti devo chiedere sempre di aspettare un minuto prima di soddisfare le tue richieste.
Capisci, vero, perché qualche volta devi aspettare?”

Lui mi guardò con un’espressione buffa sul viso:

“Sì!” mi dici, “Un secondo, Samuele!” così mi puoi ascoltare con tutti e due le orecchie.
Se ti parlo mentre stai facendo qualcos’altro, mi puoi sentire soltanto con un orecchio.
Ma se aspetto con pazienza poi tu mi puoi sentire meglio!” mi disse annuendo solennemente.
Rimasi di stucco.
Il mio bambino, che non aveva ancora compiuto i cinque anni, aveva già trovato una spiegazione più che plausibile alla situazione.
Capii che quando gli dicevo:
“Aspetta un secondo!” lui interpretava quella frase come una dimostrazione d’affetto.
Era come se io gli dicessi:
“Aspetta un secondo, così ti potrò rivolgere tutta la mia attenzione!” o “Quello che stai dicendo è molto importante per me, voglio sentirlo con entrambe le orecchie!”
“Samuele, hai assolutamente ragione!” gli risposi, “Ti voglio tanto bene e mi piace tanto trascorrere il mio tempo con te.
Voglio sentire quello che mi dici con entrambe le orecchie perché tu sei molto importante nella mia vita!” aggiunsi abbracciandolo forte.
Quella sera, mentre rimboccavo le coperte a Samuele, lui mi prese la faccia fra le mani e cominciò a soffiarmi prima dentro un orecchio poi dentro l’altro.
Non capii che cosa stesse facendo e gli chiesi spiegazione del suo comportamento.
“Voglio essere sicuro che le tue orecchie siano pulite, mamma!”

Mi tirò a sé e mi sussurrò:

“Volevo essere certo che mi sentissi con tutti e due le orecchie mentre ti dicevo che ti voglio bene più del mondo intero!”
Sentii le lacrime salirmi agli occhi mentre gli rispondevo:
“Oh, tesoro, ti voglio tanto bene, anch’io più del mondo intero!”
“Ed io ancora un briciolo di più!” confermò lui con la sua adorabile vocina.

Brano senza Autore

Dire grazie (Madre e figlio)

Dire grazie (Madre e figlio)

Confessione di un figlio, al di sopra di ogni sospetto…
“Ieri sono stato a mangiare in un ristorante!
Un pranzo passabile, ma che prezzi!
Ci serviva una cameriera, né bella, né gentile…
In tutto il pranzo le avrò detto cento volte:

“Grazie!”

Lei neanche ci faceva caso e aveva ragione:
è pagata per fare quel lavoro!
Oggi, mia madre, come sempre, si è alzata per prendermi un bicchiere d’acqua…
Non so come, mi è sfuggito un:
“Grazie!”
Non l’avevo mai fatto!
Mia madre si è messa seduta e mi è sembrato che, quasi, piangesse…

Conclusione:

per far piangere mia madre basta poco;
basta dire un “Grazie!” ogni tredici anni!”

Confessione di una madre, piena di sospetti…
“Oggi, mio figlio mi ha detto: “Grazie!”
Ho pianto…
Che scema!

Spero non se ne sia accorto:

altrimenti non me lo dice più per non farmi piangere…
Se, invece, si fosse accorto che io, “la madre”, sono Lucia, che ho quarant’anni, che spesso sono stanca, che a volte mi sento sola, che spesso desidero parlare, uscire, che a volte sto male…”
Conclusione:
“Se volete imparare la crescita, il progresso personale e la dignità, per incominciare non c’è un posto migliore della vostra famiglia!”

Brano senza Autore

L’allodola e le tartarughe

L’allodola e le tartarughe

Un re dei tempi antichi aveva, intorno al suo palazzo, un immenso giardino, in cui viveva e prosperava una popolazione di grosse tartarughe.
Un giorno nel giardino delle tartarughe scese un’allodola.
Le tartarughe la trovarono così graziosa che cominciarono a coprirla di complimenti.
“Che belle piume!
Che graziose zampette!
Che beccuccio delicato!
Certo questo uccellino è tra i più belli che esistono!”
L’allodola, confusa, per ringraziarle cantò la canzone più dolce e brillante del suo repertorio.

Le lente tartarughe andarono in visibilio.

“È un’artista!
Che talento!
Che gorgheggi e che senso dello spettacolo!
Stupendo!
Magnifico!”
Gli applausi si sprecarono.
“Chiediamole di fermarsi a vivere con noi!” propose una tartaruga.
Al tramonto, quando l’uccello calò giù in picchiata una furba tartaruga gli disse:
“Cara la mia allodola, per tutte noi sei come una figlia, lo sai.
Ti vogliamo tanto bene che abbiamo chiesto al Re delle tartarughe come farti felice, e lui ci ha risposto che la felicità massima, sulla terra, è starsene con i piedi ben piantati al suolo.

Che ne diresti di non lasciarci più e rinunciare a volare?

Al mondo sono i fatti che contano, e camminare è un fatto, non puoi negarlo!”
“Se lo dici, sarà così!” rispose l’allodola, “Solo che io sono un uccello, e non posso fare diversamente.
Tutti quelli che hanno le ali vogliono andare in alto, verso la luce!”
“Però volare è così faticoso!” proseguì la tartaruga, “Tutti gli animali, tranne voi, non desiderano altro che riposare e avere la pancia piena.
E poi, non hai mai pensato al falco o ai cacciatori?”
L’allodola, pensierosa, finì per rispondere:
“Credo che tu abbia ragione, amica mia.
Che debbo fare per restare sempre qui con voi?”
La tartaruga, tutta contenta, le suggerì di strapparsi ogni giorno una piuma dalle ali:
“A poco a poco volare ti sarà sempre più difficile, e alla fine smetterai senza neppure accorgertene.
E poi vivrai insieme a noi nel giardino, potrai bere l’acqua fresca e mangiare la frutta e l’insalata che gli uomini ci regalano ogni giorno.

Come saremo felici, senza ansie, senza preoccupazioni!”

Da quel giorno, l’allodola badò a strapparsi una piccola penna ogni mattina e alla fine si ritrovò con le ali completamente spennate.
Ora non poteva alzarsi in volo, ma in compenso che pace, e che belle mangiate!
L’allodola razzolava e becchettava nel terreno come un pollo, ingrassava e si divertiva a giocare con le tartarughe.
Erano finite, finalmente, le fatiche mattutine per volare verso il sole in cerchi concentrici, trillando come tutte le altre brave allodole.
Non inventava più canzoni nuove, ma alle sue amiche, in fondo, piacevano anche quelle vecchie.
Finché un giorno, nel giardino capitò una donnola affamata.
Quando vide una grassa allodola che saltellava tra le tartarughe, non credette ai suoi occhi e si preparò ad azzannarla.
Le tartarughe, terrorizzate, si nascosero ciascuna nel proprio guscio.

“Aiutatemi!” gridò l’allodola.

“Cara figlia, la donnola è più veloce di noi, e ha i denti aguzzi!
Non possiamo aiutarti!” risposero quelle, in coro.
“Mi sta bene!” disse allora l’allodola, “Per vanagloria mi sono fatta tartaruga e ho rinunciato alla mia unica salvezza, le ali!”
Nascose la testa sotto l’ala e si rassegnò alla sua sorte.

Brano tratto dal libro “L’allodola e le tartarughe.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

La casa più grande del mondo

La casa più grande del mondo

Una numerosa famiglia di lumache viveva su un cavolo splendido e saporito.
Camminavano lentamente da foglia a foglia con la casa sulle spalle in cerca di teneri germogli da rosicchiare.
Un giorno una piccola lumaca disse a suo padre:
“Quando sarò grande voglio avere la casa più grande del mondo!”
“Quello che dici è molto sciocco!” gli rispose suo padre, che era la lumaca più saggia del gruppo, “Certe cose sono meglio piccole!”

e le raccontò questa storia:

“C’era una volta una piccola lumaca che un giorno, proprio come te, disse a suo padre:
“Quando sarò grande voglio avere la casa più grande del mondo!”
“Certe cose sono meglio piccole!” le rispose suo padre, “Fai sempre in modo che la tua casa sia piccola e leggera da portare!”
Ma la lumachina non volle dargli ascolto, e nascosta all’ombra di una grande foglia cominciò a torcersi e a stirarsi da una parte e dall’altra fino a che non riuscì a scoprire come far crescere la propria casa.
E così la casa cominciò a crescere e a crescere, e tutte le chiocciole che vivevano su quel cavolo dicevano:
“Tu hai certamente la casa più grande del mondo!”
La chioccioletta continuò a spingere e a sforzarsi fino a che la sua casa fu grande come un melone.
Quindi con rapidi movimenti della coda a destra e a sinistra imparò a far crescere delle grandi cupole appuntite.
E non ancora contenta, schiacciando e spingendo con tutte le sue forze riuscì persino ad aggiungervi vivaci colori e magnifici disegni.
Ora la lumaca era proprio sicura di avere la più grande e la più bella casa del mondo.

Ne era orgogliosa e felice.

Un giorno uno sciame di farfalle passò di lì volando:
“Guardate!” disse una di loro, “Una cattedrale!”
“No!” disse un’altra, “È un grande circo!”
E non sospettarono neppure che quella che vedevano era la casa di una chiocciola.
Una famigliola di rane in viaggio verso uno stagno lontano, si fermò attonita e stupita.
Non avevamo mai visto, raccontarono più tardi a dei cugini, qualcosa di tanto sorprendente.
Una piccola lumaca qualunque con una casa grande come una torta di gelato.
Un giorno le lumache finirono di mangiare tutte le foglie del cavolo.
Non rimasero che pochi gambi nodosi e decisero di trasferirsi su un altro cavolo.
Ma, ahimè, la piccola lumaca non poteva più muoversi.

La sua casa era ormai troppo pesante.

Fu lasciata indietro e abbandonata a se stessa, e poiché non c’era più niente da mangiare la piccola lumaca lentamente deperì e scomparve.
Non rimase altro che la grande casa.
Ma anch’essa a poco a poco si sgretolò e non restò più nulla!”

La piccola lumaca aveva gli occhi pieni di lacrime.
Poi si ricordò della propria casa.
“Io la terrò sempre piccola!” pensò con decisione, “E quando sarò grande andrò dove vorrò!”
E così un giorno, andò a vedere il mondo.
Alcune foglie ondeggiavano lievi nella brezza mentre altre pendevano pesantemente al suolo.
I teneri germogli erano dolci e freschi nella rugiada del mattino.
La piccola lumaca era molto felice.
E quando qualcuno le chiedeva:
“Come mai hai una casa così piccola?”, lei raccontava la storia della casa più grande del mondo.

Brano senza Autore