Pregare è la cosa più semplice del mondo

Pregare è la cosa più semplice del mondo

Tutte le volte che mi capita di guardarmi le mani mi viene voglia di pregare.
È una cosa che ho ereditato dalla suora dell’asilo, che è pur sempre il posto dove si imparano le cose essenziali per la vita.

Suor Luigia ci diceva:

“Pregare è la cosa più semplice del mondo.
Basta guardarsi le dita della mano.
Il pollice, che è il dito più vicino, ci ricorda di pregare per le persone che ci sono più care e più vicine.

L’indice serve a mostrare.

Rappresenta tutti coloro che ci fanno da maestri e che hanno delle responsabilità nei nostri confronti.
Il medio è il più alto, perciò simboleggia le persone importanti e i leader in ogni settore della vita.
L’anulare è il più debole e rappresenta quindi i malati o coloro che si trovano in difficoltà.
Il mignolo è il più piccolo e sta per quelli che sono piccoli e poco considerati.”

Se mi vedete assorto con le mani in mano,

allora, sappiate che sto pregando.
Fa pregare il tuo corpo e il tuo corpo farà pregare.

Brano tratto dal libro “Ci sarà sempre un altro giorno. Piccole storie per l’anima.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Esiste ancora, almeno, una corda

Esiste ancora, almeno, una corda

C’era una volta un grande violinista di nome Paganini.
Alcuni dicevano che era strano.
Altri che era angelico.
Traeva dal suo violino note magiche.
Una sera, il teatro dove doveva esibirsi era affollatissimo.
Paganini fu accolto da un’ovazione.
Il maestro impugnò il violino e cominciò a suonare nel silenzio assoluto.
Brevi e semibrevi, crome e semicrome, ottave e trilli sembravano avere ali e volare al tocco delle sue mani.
Improvvisamente, un suono diverso sospese l’estasi della platea.
Una delle corde del violino di Paganini si ruppe.

Il direttore si fermò.

L’orchestra che accompagnava il violinista tacque.
Il pubblico ammutolì.
Ma Paganini non smise di suonare.
Guardando la partitura, continuò a intessere melodie deliziose con il suo violino.
Ma dopo qualche istante un’altra corda del violino si spezzò.
Il direttore dell’orchestra si fermò.
L’orchestra tacque nuovamente.
Paganini non si fermò.
Come se niente fosse, ignorò le difficoltà e continuò la sua deliziosa melodia.
Il pubblico non si accorse di niente.
Finché non saltò, con un irritante stridio, un’altra corda del violino.
Tutti, attoniti, esclamarono: “Oh!”

L’orchestra si bloccò.

Il pubblico rimase con il fiato sospeso, ma Paganini continuò.
L’archetto correva agile traendo suoni celestiali dall’unica corda che restava del violino.
Neppure una nota della melodia fu dimenticata.
L’orchestra si riprese e il pubblico divenne euforico per l’ammirazione.
Paganini aggiunse altra gloria a quella che già lo circondava.
Divenne il simbolo dell’uomo che sfida l’impossibile.

Libera il Paganini che c’è dentro di te.
Io non so quali problemi ti affliggano.
Può essere un problema personale, coniugale, familiare, non so che cosa stia demolendo la tua stima o il tuo lavoro.
Una cosa la so:

di sicuro non tutto è perduto.

Esiste ancora, almeno, una corda e puoi continuare a suonare.
Impara a scoprire che la vita ti lascerà sempre un’ultima corda.
Quando sei sconfortato, non ti ritirare.
È rimasta la corda della perseveranza intelligente, del “tentare ancora una volta.”
La vita non ti strapperà mai tutte le corde.
È sempre la corda dimenticata quella che ti darà il miglior risultato:
la tua fede, la tua forza interiore, la tua speranza, coloro che ti amano.

Brano senza Autore

Il monaco ed il topolino

Il monaco ed il topolino

Tanti anni fa, in una piccola città scoppiò una grave carestia.
Non si trovava più cibo da nessuna parte.
Tutti gli abitanti, da i ricchi signori ai poveri contadini, erano stremati, deboli ed affamati.
Un giorno, un monaco di nome Cadog arrivò a visitare la città.
Cadog era buono, gentile e cordiale.
Amava sinceramente Dio e tutte le sue creature.
Gli piaceva molto leggere, studiare, scrivere e imparare.
E ogni giorno aveva un visitatore, un minuscolo visitatore, con dei magnifici baffi grigi, il naso a punta e una lunga coda rosa.
Saliva sul tavolo di Cadog, scorrazzava in mezzo ai suoi libri, si infilava tra le penne d’oca che gli servivano per scrivere.

Ma Cadog non se ne preoccupava.

Neanche un pò.
Gli piaceva il topolino e non lo cacciava via come facevano tutti gli altri in città, che davano la caccia ai topi e li uccidevano ritenendoli la causa della carestia.
E forse fu per questo che, un giorno, il topolino arrivò con un regalo.
Sette chicchi dorati
Si arrampicò sul tavolo di Cadog, si infilò tra le sue penne d’oca e, nel bel mezzo dei libri del monaco, lasciò cadere un chicco di grano!
“Grazie, amico mio.” disse Cadog al topolino.
Il topo si sedette, fece un grazioso inchino e squittì, come per dire:
“Non si va mai da un amico a mani vuote.”
Mezz’ora dopo, il topolino ritornò con un altro chicco di grano e di nuovo gentilmente Cadog lo ringraziò.

Il topolino ritornò una terza volta.

Poi una quarta.
E una quinta.
E una sesta volta.
Quando alla fine ci furono sette chicchi di grano sul suo libro, Cadog ebbe un’idea.
Prese un filo di seta rossa e con molta attenzione ne legò l’estremità a una zampa del topolino.
“Non ti disturberà più di tanto,” promise il buon monaco, “e potrà fare un mondo di bene.”
Lasciò andare il topolino, guardando bene da che parte andava.
Il topolino correva molto più velocemente di Cadog, ma il monaco poteva seguire il filo di seta che si srotolava attraverso muri, giardini, boschi, fino a un imponente ammasso di terra.
Il topolino si infilò in una stretta apertura.
Un’enorme quantità di grano.
Cadog corse a chiamare il suo maestro e insieme cominciarono a scavare.
Sepolte sotto la terra e detriti c’erano le rovine di un antico palazzo.
E sepolto nei capaci magazzini del palazzo c’era un’enorme quantità di grano!

Cadog e il maestro corsero ad annunciare la notizia ai loro amici.

E ben presto per tutta la città si sparse il fragrante profumo del pane appena sfornato.
Ora c’era nuovamente cibo per tutti, in attesa della nuova stagione!
Il giorno dopo, il topolino venne a trovare il suo amico, come sempre.
Si arrampicò sul tavolo di Cadog e si infilò tra le sue penne d’oca.
Appena si sedette nel bel mezzo del libro di Cadog, con garbo il monaco gli slegò il filo di seta dalla zampa.
“Grazie, amico mio!” disse, “Dio ti ha mandato da me per un motivo, che solo adesso capisco.
Il tuo acuto naso e le tue zampette hanno salvato l’intera città.”
Poi prese una pagnotta di pane fresco e croccante e lo mise davanti alla piccola creatura.
E il topolino e il monaco condivisero il cibo.
Mangiare insieme è un gesto di riconciliazione

Brano tratto dal libro “L’Eucaristia raccontata ai bambini.” di Bruno Ferrero e Anna Peiretti. Edizione ElleDiCi.

Il fazzoletto rosa

Il fazzoletto rosa

Il giovane si era lasciato cadere sulla panchina nel parco e si era preso la testa fra le mani!
Tutta la disperazione degli ultimi tempi gli impediva, quasi, di respirare…
Era arrabbiato e aveva voglia di piangere!
Una ragazza graziosa si sedette sulla panchina accanto a lui…
“Perché sei così triste?” gli chiese all’improvviso.
“La mia vita è una schifezza!” mormorò il giovane, “Tutto è contro di me:

non ho un briciolo di fortuna… Mai!

Non ce la faccio più a continuare!”
“Uhm!” sospirò la ragazza.
“Dove tieni il tuo fazzoletto rosa?
Mostramelo!
Voglio dargli un’occhiata!”
“Che cos’è il fazzoletto rosa?” domandò il giovane, “Io ho solo un fazzoletto nero!”

In silenzio glielo consegnò…

La ragazza guardò il fazzoletto e fu scossa da un brivido:
“È pieno di incubi, di cupa infelicità e di orribili esperienze!”
“È quello che ti ho detto…
Che ci posso fare?
Non posso cambiare la vita!”
“Prendi questo!” disse la ragazza porgendogli un fazzoletto rosa, “Guardaci dentro!”
Con mani esitanti il giovane lo aprì e vide che era pieno di ricordi gioiosi e dolci momenti!

“E dov’è, il tuo fazzoletto nero?” chiese il giovane incuriosito.

“Lo butto ogni giorno nella spazzatura e non ci penso più!” rispose la ragazza, “Metto tutti i momenti più belli della vita nel mio fazzoletto rosa.
Così, quando sento arrivare un po’ di tristezza, o mi sento scoraggiata, apro il fazzoletto e mi dico: “Questa è la mia vera vita!”.”
Il giovane non fece in tempo a replicare!
La ragazza gli schioccò un bacio, sulla guancia, e scomparve…
Al suo posto, sulla panchina, c’era un fazzoletto rosa con la scritta:
“Per te!”
Lo aprì e vide che era vuoto, tranne il piccolo, tenero bacio che la ragazza gli aveva dato…
A quel pensiero sorrise, e si sentì il cuore più caldo e una gran voglia di ricominciare!

“Se cerchi bene, anche tu, hai un fazzoletto rosa…”

Brano senza Autore

Il regno dei fagioli

Il regno dei fagioli

Un re di un potente e prospero regno doveva la sua fortuna alla corona che portava in testa.
La indossava esclusivamente nelle cerimonie ufficiali.
I sudditi non avevano mai saputo da dove provenisse la corona e, per questa ragione, fantasticavano sulle origini della stessa.
La leggenda maggiormente tramandata era riferita ad un ordine cavalleresco, il quale aveva forgiato la corona con tutti i metalli della terra, provenienti dai quattro poli e, per questo, carica di magnetismo.

Questa leggenda era, inoltre,

alimentata da due differenti tabù, quello di non essere mai stata toccata dalle mani del volgo e quello di essere sempre tenuta ben dritta in capo dal regnante, pena la decadenza dei suoi effetti taumaturgici.
Avvenne che le cose del regno non andassero bene, con guerra e carestia all’orizzonte.
I dignitari di corte intuirono che era colpa del re che, ormai vecchio, non portava la corona in modo coretto; o troppo a destra o a sinistra del capo.
Per via degli atavici tabù e della superstizione, il re non tollerava alcuna illazione verbale su di essa, né che la corona venisse toccata da altre mani diverse dalle sue, essendone morbosamente legato.
Per questa ragione nessuno aveva il coraggio di segnalare e correggere l’anomalia di come venisse portata.

Neppure il giullare di corte osava tanto,

nonostante scherzasse pubblicamente sull’obesità del re.
I dignitari allarmati fecero un consiglio segreto per trovare una soluzione, ma non ne vennero a capo.
Decisero, quindi, di consultare l’ortolano di corte, nonché speziale, considerato uomo saggio e avveduto, chiedendogli se avesse qualche rimedio.
Questi propose, come unico espediente capace di raddrizzare la postura del re, di fargli mangiare in abbondanza fagioli alla vigilia delle cerimonie.
Una difficoltà era rappresentata dal fatto che i legumi non fossero previsti nella cucina reale, siccome da poco presenti nelle coltivazioni di quel regno.
Nonostante ciò, al re piacquero tantissimo i nuovi piatti a base di fagioli.
Non intuì mai che la flatulenza che sopraggiungeva in seguito ai pasti consumati era causata dagli zuccheri nobili contenuti in essi, noti per provocare fastidiosi gas intestinali con l’imbarazzante effetto collaterale del soffio dei peti.

I fagioli venivano fatti consumare al grasso re prima delle cerimonie ufficiali che,

trovandosi puntualmente in imbarazzo durante le stesse, era costretto ad assumere una posizione confacente al suo ruolo sul trono, raddrizzando la postura del corpo ed evitando così la caduta della corona, sistemata tempestivamente da lui stesso.
Fortuna e prosperità tornarono in quel regno, nel quale i fagioli divennero pietanza ufficiale apprezzata a corte e dai sudditi, tanto da chiamarsi in seguito “Fagiolandia”.
Il fastidioso disturbo dei legumi fu chiamato per scaramanzia “aria di festa”, dato che, in quel momento di difficoltà, i fagioli salvarono il regno.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

L’aeroplanino di carta

L’aeroplanino di carta

Qualche mese fa un ingegnere in pensione trovò un aeroplanino di carta planato nel suo terrazzo.
Sulle sue ali avevano scritto la parola “ciao” e disegnato, anche, un arcobaleno.
Lo ritrovò in pieno lockdown, quando a causa del coronavirus che ha fermato l’Italia,

tutti erano stati costretti a vivere “reclusi” dentro casa.

L’uomo pensò che il ritrovamento di questo aeroplanino fosse di buon auspicio e lo portò dentro casa.
Il giorno dopo ne trovò un altro, quello successivo un altro ancora.
Ogni aeroplanino aveva scritte ben auguranti e bei disegni.
Incuriosito, si appostò sul terrazzo per scoprire da dove provenissero gli aereoplanini e chi fosse il costruttore.
Essendo appassionato di aeromodellismo, li trovava particolarmente originali ed ingegnosi.

Fu fortunato poiché, dalla palazzina di fronte, vide un ragazzino lanciarlo.

I loro sguardi si incrociarono e, immediatamente dopo, si scambiarono un reciproco saluto con le mani.
I lanci divennero una costante, con relativi messaggi.
Il ragazzino comunicò all’anziano signore, tra l’altro, di essere un profugo Siriano, orfano di padre, aiutato dalla Caritas.
Un altro giorno gli scrisse:
“No computer, no scuola.”

L’ingegnere, leggendo, si commosse.

Non appena fu possibile uscire di casa, regalò al ragazzino un computer con una pennetta per collegarsi ad internet che, in questo modo, riuscì a seguire le lezioni con tutti suoi compagni.
Durante i primi giorni di giugno, a causa del traffico e dello smog, gli aeroplanini di carta non planavo più con la consueta precisione finché il ragazzo smise definitivamente.
L’ingegnere, orgoglioso della singolare esperienza con il ragazzino, segnalò la cosa alla scuola.
Al termine degli esami di terza media, il ragazzo fu promosso con il massimo dei voti.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

La rete da pesca

La rete da pesca

Il fiordo era immerso nella profonda tranquillità della notte artica.
L’acqua sciabordava leggera sulla spiaggia.
Avvolto dal profumato tepore della sua casa di legno, Hans il pescatore tesseva la rete della sua prossima stagione di pesca.
Era solo nell’angolo del camino.
La sua dolce sposa Ingrid riposava nel piccolo cimitero di fianco alla chiesa.

Improvvisamente però risuonarono fresche risate gioiose.

La porta si aprì per lasciar passare la bionda Guendalina, la sua carissima figlia, che teneva per mano il fratellino Eric.
“Guendalina, ora sei in vacanza.
Vuoi prendere il mio posto a intrecciare la rete da pesca nuova mentre io vado a riparare la barca?” chiese il padre.
“Oh sì, papà!” rispose allegramente la bambina.
Le ore passavano.
Guendalina lavorava di buona lena, maglia dopo maglia, nodo dopo nodo.
Ma i giorni si aggiungevano ai giorni.
La corda era scabra.
L’appretto per impermeabilizzarla era ruvido e le mani facevano male.

Le sue piccole amiche si sporgevano dalla porta:

“Guendalina, vieni a giocare con noi!”
E le maglie si allentavano sempre di più, i nodi erano sempre meno stretti, la corda sempre meno impermeabilizzata.
Arrivò la primavera.
Il fiordo s’illuminò ai primi raggi del sole.
La pesca riprese.
Tutto fiero del lavoro della sua figlia carissima, Hans il pescatore imbarcò la sua rete da pesca nuova sul suo fidato vecchio battello.
“Vieni con me, piccolo Eric, per la nostra prima uscita!”
Pieno di gioia il ragazzino saltò a bordo.
La barca scivolò nell’acqua.
La rete affondò nelle onde verdazzurre.
Eric batteva le mani vedendo i pesci argentati saltare e guizzare nella rete ben piena.
“Una pesca fantastica!
Aiutami a tirare su la rete, figliolo!”

Ed Eric tirava, tirava con tutte le sue forze.

Ma vinto dal peso, pluf! piombò in acqua, proprio in mezzo alla rete.
“Non è niente!” pensò papà Hans, issando velocemente la rete a bordo.
“La mia rete è solida!
E la mia Guendalina che l’ha tessuta con le sue mani:
Eric verrà su con i pesci!”
La rete uscì dall’acqua leggera.
Ahimé, al fondo aveva solo un grande squarcio…
I nodi stretti male si erano allentati.
Le maglie mal fissate si erano aperte.
E il piccolo Eric riposava ormai in fondo al fiordo.
“Ah, se avessi intrecciato ogni maglia con amore!” piangeva Guendalina.

Brano tratto dal libro “Il canto del grillo.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

La lampada del minatore

La lampada del minatore

Un uomo scendeva ogni giorno nelle viscere della terra a scavare sale.
Portava con sé il piccone ed una lampada.
Una sera, mentre tornava verso la superficie, in una galleria tortuosa e scomoda, la lampada gli cadde di mano e si infranse sul suolo.

Inizialmente il minatore ne fu quasi contento:

“Finalmente!
Non ne potevo più di questa lampada.
Dovevo portarla sempre con me, fare attenzione a dove metterla, pensare a lei anche durante il lavoro.
Adesso ho un ingombro di meno.
Mi sento molto più libero!
E poi… faccio questa strada da anni, non posso certo perdermi!”
Ma la strada ben presto lo tradì.

Al buio era tutta un’altra cosa.

Fece alcuni passi, ma urtò contro una parete.
Si meravigliò:
non era quella la galleria giusta?
Come aveva fatto a sbagliarsi così presto?
Tentò di tornare indietro, ma finì sulla riva del laghetto che raccoglieva le acque di scolo.
“Non è molto profondo,” pensò, “ma se ci finisco dentro, così al buio, annegherò di certo!”
Si gettò a terra e cominciò a camminare carponi.

Si ferì le mani e le ginocchia.

Gli vennero le lacrime agli occhi quando si accorse che in realtà era riuscito a fare solo pochi metri ritrovandosi sempre al punto di partenza.
E gli venne un’infinita nostalgia della sua lampada.
Attese umiliato che qualcuno scendesse per andare a cercarlo e lo portasse su facendogli strada con qualche mozzicone di candela.

Brano senza Autore

Il giocoliere di Notre Dame

Il giocoliere di Notre Dame

C’era un giocoliere, nativo di Compiègne, paesino nel nord-est della Francia, che tanti secoli fa girava le piazze dei paesi divertendo la gente con i suoi giochi di destrezza.
Un suo pezzo forte era quello di mettersi con la testa all’ingiù e, sostenendosi sulle mani, buttare in aria sei palle di rame e prenderle con i piedi.
Un altro numero rinomato era quello di arrotolarsi come una palla in modo che i suoi piedi toccassero la nuca e in quella posizione maneggiare dodici coltelli.
La gente sbarrava gli occhi per la meraviglia e volentieri sganciava qualche monetina.
Durante la buona stagione, la cosa funzionava discretamente e Barnabé, questo era il nome dell’uomo, viveva dignitosamente.
La situazione, invece, diventava molto difficile con l’arrivo dell’autunno e dell’inverno, quando,

a causa del freddo, non si poteva esibire.

Il nostro amico pativa la fame, ma lui era timorato di Dio e molto devoto della Vergine Maria, perciò non si lamentava, tantomeno imprecava o bestemmiava come invece facevano altri giocolieri.
Un giorno, nel suo vagabondare da un paese all’altro, incontrò un monaco, a cui aprì il cuore:
gli disse che il suo sarebbe stato il più bel mestiere del mondo, se non fosse stato per le ristrettezze e la fame che tante volte era costretto a sopportare.
Al che il suo compagno di strada ribatté che il più bello stato di vita era quello dei monaci, perché in convento essi potevano celebrare ogni giorno le lodi a Dio, alla Vergine ed ai Santi, sicché la loro vita era un continuo cantico al Signore.
Nella semplicità del suo cuore, Barnabé restò ammaliato dal racconto e chiese di entrare in convento.
Quando arrivò in convento, vide che tutti i monaci, secondo le loro doti e capacità,

servivano Dio e veneravano la Vergine:

alcuni scrivendo dei libri e degli inni, altri dipingendo o facendo delle miniature, altri ancora scolpendo o svolgendo i lavori più umili…
Barnabé, ignorante com’era, si rese conto di non saper fare nulla di tutto questo e si senti immediatamente molto triste ed umiliato.
Ad un certo punto, però, i suoi confratelli si accorsero che il suo umore era cambiato:
non era più triste e non si lamentava più.
Incuriositi ed insospettiti, lo pedinarono e, un giorno, lo scoprirono in cappella, dove davanti all’altare della Vergine stava eseguendo in suo onore i numeri che un tempo erano i più ammirati nelle piazze dei paesi:
quello con le sei palle di rame e quello con i dodici coltelli.

Che cosa gli era venuto in mente?

Di lodare la Vergine con le uniche cose che sapeva fare.
I monaci gridarono allo scandalo ed il priore, pur conoscendo la sua semplicità d’animo, lo considerò matto e tentò di trascinarlo a forza fuori dalla cappella, ma a quel punto successe qualcosa che fece rimanere tutti di stucco:
miracolosamente la Vergine scese dall’altare, si avvicinò a Barnabé e con il manto gli asciugò il sudore che gli rigava la fronte.

Favola medioevale.
Brano di Daniele Cunial

La bacchetta della maestra Pia

La bacchetta della maestra Pia

Una volta la scuola primaria era molto diversa da quella odierna.
Alcuni insegnanti usavano metodi didattici molto discutibili, oggi da codice penale.
Colpivano con una bacchetta le mani degli alunni che avevano errato nello scrivere o che copiavano da altri.

In alternativa gli alunni venivano fatti inginocchiare in castigo dietro la lavagna

o venivano obbligati ad indossare delle orecchie da asino di carta.
Un giorno, in classe arrivò una giovane maestra supplente che si fece apprezzare subito dai ragazzi per la sua solarità e per la competenza didattica.
Dopo i saluti di rito, per prima cosa prese la bacchetta di legno da sopra la scrivania e la spezzò in varie parti, facendo gioire i ragazzi che la temevano.

Domandò:

“Chi ha portato in classe questo strumento di tortura?”
Dall’ultimo banco si alzò la mano dell’allievo più robusto, solo perché ripetente, che con orgoglio disse:
“Sono stato io su richiesta della nostra maestra Pia!”
La supplente sorrise ed aggiunse:
“Scommetto che questa bacchetta è stata usata maggiormente con te.
Certamente non è stata pia nei tuoi riguardi e non occorre che guardi il registro!”

Lo scolaro chiese:

“Come fa a saperlo?”
La risposta dell’insegnante fu:
“Perché sei il meno furbo di tutti.
Hai portato a scuola lo strumento che ti punisce ed addirittura ne sei fiero.
Fino a quando io sarò in questa classe userò il metodo Montessori che non prevede bacchettate.
Questo metodo vi farà amare di più la scuola e le sue materie, ed arriveremo al punto che le vacanze vi annoieranno!”

Ricordi, ricordi di un tempo passato, oggi nuovamente attuali.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno