L’ultimo “Ti Amo”

L’ultimo “Ti Amo”

Il marito di Carol è morto in un incidente d’auto l’anno scorso.
Jim, che aveva soltanto cinquantadue anni, stava tornando a casa dal lavoro.
Il conducente dell’altra auto coinvolta era un adolescente e, dopo gli accertamenti del caso, venne appurato che aveva un elevato tasso alcolico nel sangue.

Jim morì sul colpo.

Il ragazzo rimase al pronto soccorso meno di due ore.
Altra ironia del caso, Jim aveva in tasca due biglietti aerei per le Hawaii.
Era il cinquantesimo compleanno di Carol e voleva farle una sorpresa.
Ma invece venne ucciso da un ragazzo ubriaco.
“Come sei sopravvissuta?” chiesi un giorno a Carol, circa un anno dopo quel tragico incidente.
I suoi occhi si riempirono di lacrime.
Pensavo di averle fatto la domanda sbagliata ma lei mi prese delicatamente la mano e disse:
“Non c’è problema, voglio dirtelo.
Il giorno che ho sposato Jim gli promisi che non l’avrei mai lasciato uscire di casa senza dirgli che l’amavo.

E lui mi promise la stessa cosa.

Così quell’abitudine diventò una specie di gioco tra di noi e dopo che arrivarono i bambini diventò piuttosto difficile mantenere quella promessa.
Mi ricordo che a volte correvo giù per il vialetto davanti a casa dicendo “Ti Amo” a denti stretti quando ero arrabbiata, oppure qualche volta andavo fino al suo ufficio per lasciargli un bigliettino nell’auto.
Era come un gioco il nostro, curioso e divertente.
Così creammo molti ricordi con quel dirci “Ti Amo” prima di mezzogiorno, ogni giorno della nostra vita da sposati.
Il giorno in cui morì, Jim lasciò un biglietto di auguri per il mio compleanno in cucina e poi sgattaiolò fuori da casa.

Sentii il motore dell’auto che partiva e pensai:

“Oh, no!
Non fare il furbo!”
Poi mi precipitai fuori e tempestai di pugni il finestrino finché Jim fu costretto ad abbassarlo.
Allora gli dissi:
“Oggi è il giorno del mio cinquantesimo compleanno, signor James E. Garet, voglio passare alla storia dicendoti “Ti Amo”.
Ecco come sono sopravvissuta, sapendo che le ultime parole che ho detto a Jim sono state:
“Ti Amo”!”

Brano tratto dal libro “L’ultima foglia.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

I tre cugini e l’eredità

I tre cugini e l’eredità

Tre vignaioli avevano in comune, oltre che una lontana parentela, anche tre appezzamenti di terra pianeggiante pressoché uguali, per estensione e forma, frutto di un’eredità.
Facevano parte di un immenso terreno appartenente ad uno stesso avo, il quale aveva equamente diviso lo stesso ai rispettivi figli, tanti anni prima.

Zolle molto ambite nella fertile e vocata terra di produzione del mitico vino Prosecco.

Terra dalle molte ed ataviche tentazioni di possesso, con confini che si concordavano faticosamente di giorno e si spostavano di notte, come i nanetti da giardino, a seconda delle fasi lunari.
Due dei tre proprietari portavano avanti un contenzioso legale da molto tempo per la definizione dei rispettivi confini.

I geometri a cui si erano rivolti, usavano due diversi tipi di catasto (mappa e registro dei terreni).

Uno usava quello Napoleonico (1807-1816) e l’altro quello Austriaco (1807-1852), in auge in Veneto in quel periodo.
Un’alternanza dettata dalla convenienza, rimandando all’infinito il contenzioso, con la motivazione, non tanto segreta, che avevano figli da mantenere all’università con conseguenti laute parcelle da riscuotere.
Insistevano anche con il terzo, affinché partecipasse alla disputa per i confini, ma questo, essendo saggio, alla maniera di re Salomone, sentenziò:

“Se in origine le parti erano uguali,

per verificare i confini basta tirare un semplice spago di recupero e fare due nodi equidistanti per definire le tre parti, una stretta di mano per finirla per sempre e un brindisi conciliatore!”
Alcune volte, la vita, vuoi per ignoranza e/o per avarizia, è un cinema che costa caro!

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Il denaro restituito

Il denaro restituito

Un anziano signore, prossimo al termine dello scorrere della clessidra che segna il tempo terreno, chiamò al proprio capezzale i suoi sette figli, per esprimere le sue ultime volontà e dare le giuste raccomandazioni.
Chiese di portare con sé, dentro la cassa, una cifra in denaro.

Spiegò che non era importante la cifra che avrebbero inserito.

Voleva che facessero questo gesto poiché da loro non aveva mai ricevuto nulla, nonostante avesse costruito ad ognuno una casa.
Spiegò che i soldi li avrebbe restituiti tutti, a cassa chiusa, ma solo a chi di loro si fosse dimostrato più generoso ma anche più furbo.
Recitò un proverbio nel quale veniva spiegato che un padre mantiene sette figli, ma che sette figli non riescono a mantenere un padre.
Passato a miglior vita, i figli fecero una riunione di famiglia su come esaudire le volontà del padre e il più giovane, l’unico che per l’insistenza del padre aveva studiato, propose:

“Date a me i sodi in contanti da mettere nella cassa.

Per semplificare il tutto, li tramuterò in un assegno, attestante la nostra unità.
Sarà anche più semplice evitare furti in questo modo, dato che, come sappiamo, ci possono essere dei malintenzionati tombaroli che potrebbero approfittare della nostra generosità!”

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Le scarpette d’oro della Madonna

Le scarpette d’oro della Madonna

Una vedova, che aveva due figlie, riusciva a mantenere la famiglia filando giorno e notte.
La mattina della festa della Madonna del Rosario, la vedova andò a riportare il filato dalle varie comari sperando che le pagassero il lavoro.
Invece non riuscì a riscuotere neanche un soldo, perché tutti avevano una scusa per non pagare.

La donna, prima di ritornare a casa,

si fermò in Chiesa e si mise a pregare davanti alla statua della Madonna del Rosario.
“Santa Madre di Dio, voi che siete mamma, mi sapete dire che cosa darò oggi da mangiare alle mie povere figlie?
Non ho di che accendere il fuoco, né farina né pane:
aiutatemi voi, perché sono alla disperazione!”
La Madonna ebbe compassione della povera vedova:

allungò il piede e le gettò la sua scarpetta d’oro.

La donna, tremante di gioia, andò sulla piazza dove c’era un’orefice e gli mostrò la scarpetta per vendergliela.
Questi, però, riconobbe subito la scarpetta della Madonna:
chiamò le guardie e la donna fu messa in prigione.
Prima della condanna essa chiese di poter pregare un’ultima volta davanti alla statua della Madonna del Rosario.

Il favore le fu accordato.

“Santa Madre di Dio!” supplicò la vedova quando fu davanti alla statua, “È vero o no che la scarpetta me l’avete data voi e non sono stata io a rubarvela?”
Tutti stavano muti a guardare, ed ecco che la statua cominciò a muoversi, il viso piano piano prese colore, la Madonna sollevò il piede e gettò l’altra scarpetta verso la vedova.
Allora la gente gridò al miracolo.
Chi piangeva, chi rideva.
La vedova se ne tornò libera dalle sue figlie con le scarpette d’oro della Madonna.

Brano tratto dal libro “Mese di maggio per i bambini.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

La brava moglie

La brava moglie

Un blasonato conte, proprietario di numerosi poderi, aveva dato lo sfratto ad un suo mezzadro addicendo a varie motivazioni.
Una tra queste era stata quella di non avergli dato abbastanza onoranze e regalie, come d’uso nei contratti di un tempo, entro l’11 novembre, giorno di san Martino.
In realtà, il povero mezzadro non aveva potuto dargli quasi nulla poiché aveva una “nidiata” di figli in tenera età da sfamare,

che sottraevano, a dire dell’avaro conte, troppo alla proprietà.

Il fondo era chiamato “Carestia” poiché, per l’infelice ubicazione su un terreno sassoso e impervio, rendeva realmente poco.
Paradossalmente si presentarono all’appello per condurlo solamente tre aspiranti mezzadri.
Ognuno fu sottoposto ad un minuzioso interrogatorio circa la capacità e volontà di condurre il problematico fondo.
Il terzo aspirante si presentò dal conte e da sua moglie, assistiti a loro volta dal castaldo, preposto a sorvegliare e a mantenere in ordine i conti di gestione, mostrando le proprie grandi mani callose come prova di laboriosità.

Cercò di balbettare qualcosa ma, imbarazzato per l’emozione, non riuscì quasi a parlare.

Dopo un breve lasso di tempo che parve una eternità, la contessa, squadrandolo da cima a fondo e facendolo agitare, al povero esaminando, disse:
“I calli sulle mani non sono sufficienti a farti avere un nostro giudizio favorevole!”
La contessa lo fece avvicinare ed osservò, minuziosamente, la sua giacca, la quale mostrava il suo tempo, la camicia, che nonostante fosse logora, era pulita e profumava di lavanda, ed i pantaloni, i quali, nonostante fossero tutti rattoppati, erano ben stirati.

Il contadino si stava riprendendo per parlare, quando la nobildonna lo interruppe, dicendo:

“Devi avere una brava e laboriosa moglie, e per questa ragione la terra la diamo a te, principalmente per i meriti di lei!”
Valentino, così si chiamava, tornò a casa con le ali ai piedi, attendendo con ansia il momento in cui avrebbe potuto baciare, romanticamente, sua moglie, per ringraziarla del suo lavoro e del suo amore, emulando, così, i principi delle favole.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Le oche in formazione a V (Incoraggiarsi)

Le oche in formazione a V (Incoraggiarsi)

Gli stormi di oche selvatiche hanno ripreso, come in passato, ad apparire anche nei nostri cieli!
Le oche volano in formazione triangolare, una formazione a “V”.
Si dispongono in modo che allo sbattere delle ali di ognuna si crei una spinta,

dal basso verso l’alto, per quella subito dietro!

In questo modo l’intero stormo aumenta l’autonomia di volo del settantun per cento, rispetto ad un uccello che voli, invece, da solo.
Così le oche percorrono migliaia di chilometri!
Quando la prima oca si stanca si sposta lateralmente ed un’altra oca prende il suo posto alla guida.

Gli stormi in volo fanno un chiasso terribile:

volando le oche gridano per incoraggiare quelle davanti a mantenere la velocità!
C’è anche un particolare importante, anzi fondamentale.
Quando un’oca esce dalla formazione perché si ammala o viene ferita, altre due oche escono insieme a lei e la seguono fino a terra,

per prestarle aiuto e protezione!

Rimangono con l’oca caduta finché non è in grado di riprendere il volo, oppure, finché non muore.
Soltanto allora riprendono il volo per raggiungere, di nuovo, il loro stormo!

Brano senza Autore

Diventerai una persona straordinaria

Diventerai una persona straordinaria

C’è un vecchio detto dalle mie parti:
“Se a una libellula togli le ali, avrai un brutto insetto.
Ma se a un brutto insetto aggiungi le ali, avrai una libellula.”
Questo detto mi ha fatto tornare in mente la mia maestra delle scuole elementari, la signora Dalla Torre, la quale aveva previsto grandi cose per il mio futuro.
Ora vi racconterò brevemente un fatto che ora che ci penso, ha proprio cambiato in positivo la mia vita.

Ero un ragazzino ordinario da tutti i punti di vista.

Ero di statura normale e provenivo da una famiglia del ceto medio.
Non ero lo studente più brillante, ma non ero nemmeno il peggiore della classe.
Ricordo la signora Dalla Torre come una donna severa sui trentacinque anni.
Aveva un figlio che frequentava la mia stessa scuola:
io lo conoscevo bene perché l’anno precedente giocavamo nella stessa squadra di calcio.
Un giorno, mentre attraversavo il cortile alla fine delle lezioni, il figlio della signora Dalla Torre si avvicinò e mi invitò ad andare a giocare ai videogiochi a casa sua.
L’idea mi tentava, ma avevo paura di imbattermi nella signora Dalla Torre.

Compresa la mia esitazione,

il mio amico mi assicurò che sua mamma rientrava di rado prima delle quattro del pomeriggio.
Acconsentii, facendo presente che me ne sarei andato prima di quell’ora.
Ci divertimmo moltissimo con i suoi videogiochi, che ci rapirono al punto da farci dimenticare l’orario.
Ad un certo punto la porta di casa si spalancò e sentii la signora Dalla Torre entrare.
Mi irrigidii, immaginando che sarei stato sgridato oppure messo in castigo per aver giocato invece di fare i compiti.
Con mia sorpresa, la signora Dalla Torre mi salutò con un gran sorriso.
Si rivolse a me con gentilezza e mi abbracciò come se fossi suo figlio.
Grazie a quell’abbraccio compresi che la mia maestra in realtà era una persona gentile e amorevole, che in classe appariva severa per mantenere il controllo dei suoi scolari.
Preparò una merenda buonissima a base di Nutella, una cosa che accordava a suo figlio soltanto in rare occasioni:

mi fece sentire così un ospite speciale.

Mentre mangiavo mi accarezzò affettuosamente il capo e disse:
“Sarai un buon studente e un autentico modello per i tuoi amici.
Sono sicura che diventerai una persona straordinaria, che porterà saggezza e felicità a tantissima gente.”
Nel mio giovane cuore provai un’emozione difficile da esprimere a parole.
Di fatto, dopo quel giorno, mi misi a studiare sodo e cercai di essere un esempio positivo per gli altri studenti.
Poiché la signora Dalla Torre aveva riposto la sua fiducia in me, ero determinato a non deluderla.
Oggi, ora, penso di essere diventato ciò che sono, grazie alle sue parole di quel pomeriggio.
Senza quel suo incoraggiamento non avrei avuto la fiducia necessaria per eccellere negli studi, né per diventare docente universitario e guida spirituale.
Oggi non manco mai di infondere motivazione nei miei studenti e al prossimo.

Brano senza Autore

I tre spaccapietre


I tre spaccapietre

Durante il Medioevo, un pellegrino aveva fatto voto di raggiungere un lontano santuario, come si usava a quei tempi.
Dopo alcuni giorni di cammino, si trovò a passare per una stradina che si inerpicava per il fianco desolato di una collina brulla e bruciata dal sole.
Sul sentiero spalancavano la bocca grigia tante cave di pietra.
Qua e là degli uomini, seduti per terra, scalpellavano grossi frammenti di roccia per ricavare degli squadrati blocchi di pietra da costruzione.
Il pellegrino si avvicinò al primo degli uomini.
Polvere e sudore lo rendevano irriconoscibile, negli occhi feriti dalla polvere di pietra si leggeva una fatica terribile.
Il suo braccio sembrava una cosa unica con il pesante martello che continuava a sollevare ed abbattere ritmicamente.

“Che cosa fai?” chiese il pellegrino.

“Non lo vedi?” rispose l’uomo, sgarbato, senza neanche sollevare il capo.
“Mi sto ammazzando di fatica”.
Il pellegrino non disse nulla e riprese il cammino
S’imbatté presto in un secondo spaccapietre.
Era altrettanto stanco, ferito, impolverato.

“Che cosa fai?” chiese anche a lui il pellegrino.

“Non lo vedi? Lavoro da mattino a sera per mantenere mia moglie e i miei bambini.”, rispose l’uomo.
In silenzio, il pellegrino riprese a camminare.
Giunse quasi in cima alla collina.
Là c’era un terzo spaccapietre.
Era mortalmente affaticato, come gli altri.
Aveva anche lui una crosta di polvere e sudore sul volto, ma gli occhi feriti dalle schegge di pietra avevano una strana serenità.

“Che cosa fai?” chiese il pellegrino.

“Non lo vedi?” rispose l’uomo, sorridendo con fierezza, “Sto costruendo una cattedrale.”
E con il braccio indicò la valle dove si stava innalzando una grande costruzione, ricca di colonne, di archi e di ardite guglie di pietra grigia, puntate verso il cielo.

Brano senza Autore, tratto dal Web