Due racconti brevi sull’indifferenza

Due racconti brevi sull’indifferenza
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La favola e la bambina

La malattia più grave: l’indifferenza

 

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“La favola e la bambina”

La mia bambina più piccola pretendeva che le leggessi una favola ogni sera prima di andare a dormire.
Un giorno mi venne l’idea di acquistare una serie di audio­cassette con delle fiabe già registrate.
La bimbetta imparò a far funzionare il registratore e tutto andò bene per qualche giorno,

finché una sera non mi cacciò in mano un libro di fiabe.

“Ma cara,” dissi, “lo sai come si accende il registratore!”
“Sì, ma non posso sedermici in braccio!” rispose la bambina.

Brano senza Autore.
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“La malattia più grave: l’indifferenza”

Un giorno, ad un luminare della medicina venne chiesto quale fosse la più grave malattia del secolo.
I presenti si aspettavano che dicesse il cancro o l’infarto.
Grande fu lo stupore generale quando lo scienziato rispose:

“L’indifferenza!”

Tutti allora si guardarono negli occhi e ognuno si accorse di essere gravemente ammalato.
Infine gli domandarono quale ne fosse la cura.
E lo scienziato disse:
“Accorgersene!”

Brano senza Autore.

Il bimbo che curava il padre

Il bimbo che curava il padre

Il signor Cesare era molto abitudinario.
Ogni domenica mattina si alzava tardi, girellava per casa in pigiama e alle undici si radeva la barba, lasciando aperta la porta del bagno.
Quello era il momento atteso da Francesco, che aveva solo sei anni, ma mostrava già molta inclinazione per la medicina e la chirurgia.
Francesco prendeva il pacchetto del cotone idrofilo, la bottiglietta dell’alcool denaturato, la busta dei cerotti, entrava in bagno e si sedeva sullo sgabello ad aspettare.

“Che c’è?” domandava il signor Cesare, insaponandosi la faccia.

Gli altri giorni della settimana si radeva col rasoio elettrico, ma la domenica usava ancora, come una volta, il sapone e le lamette. “Che c’è?”
Francesco si torceva sul seggiolino, serio serio, senza rispondere.
“Dunque?” chiedeva ancora il padre.
“Beh,” diceva Francesco, “può darsi che ti tagli; e io ti farò la medicazione!”

“Già!” diceva il signor Cesare.

“Ma non tagliarti apposta come domenica scorsa,” diceva Francesco, severamente, “altrimenti non vale!”
“Sicuro!” diceva il signor Cesare.
Ma a tagliarsi senza farlo apposta non ci riusciva.
Tentava di sbagliare senza volerlo, ma è difficile e quasi impossibile.

Faceva di tutto per essere disattento, ma non poteva.

Finalmente, qui o là, il taglietto arrivava e Francesco poteva entrare in azione.
Asciugava la stilla di sangue, disinfettava, attaccava il cerotto.
Così ogni domenica il signor Cesare regalava una stilla di sangue a suo figlio, e Francesco era sempre più convinto di avere un padre distratto.

Brano tratto dal libro “Sono un bullo, quindi esisto. I volti della violenza nella ricerca della felicità.” di Margherita Chiarugi e Sergio Anichini

Giosuè e la luce dalla finestra

Giosuè e la luce dalla finestra

Una strana epidemia si abbatté sulla città all’improvviso.
Iniziava come un raffreddore:
i colpiti cominciavano a starnutire, poi prendevano uno strano colore grigiastro, finché la malattia esplodeva in tutta la sua virulenza e i colpiti diventavano prima avidi, poi prepotenti e arraffatori, perfino ladri e tremendamente sospettosi gli uni degli altri.
Il pensiero del denaro intaccava e annullava tutti gli altri pensieri.
“Ciò che conta sono i soldi.
Con i soldi si fa tutto.” sostenevano.
Insieme al pensiero dei soldi arrivava anche la paura.
I venditori di casseforti e porte blindate non riuscivano a star dietro agli ordini.
In certi alloggi la porta d’ingresso arrivava ad avere diciotto serrature a prova di tutto, anche di bazooka.
Nelle famiglie, i papà e le mamme rubavano i soldi dai salvadanai dei bambini.

I bambini chiedevano:

“Quanto mi date per sparecchiare?”
Non solo per asciugare i piatti o per fare i compiti; anche per andare nei giardinetti a giocare.
Un sabato pomeriggio, nella via principale, scoppiò un tremendo tafferuglio per una moneta da cinque centesimi.
Perfino il dottore fu contagiato e cominciò a vendere le medicine scadute, che prima buttava via con molta attenzione.
La vita in città divenne insopportabile.
Il sindaco e i suoi consiglieri decisero di recarsi per un consulto dal famoso Barbadoro, che era un eremita, per chiedere una medicina o almeno un consiglio.
L’eremita dalla lunga barba bianca li ascoltò con attenzione, poi lisciandosi la barba disse: “Conosco la malattia che ha colpito il vostro villaggio.
È dovuta ad un virus che si chiama “sgrinfiacchiappa” ed è terribile, perché chi è colpito diventa sempre più insensibile, il suo cuore si indurisce fino a diventare di pietra.
Si può sfuggire al contagio per un po’ di tempo compiendo atti di bontà e di generosità, ma per debellare veramente la malattia c’è un solo rimedio: l’acqua della “Montagna che canta.”
Dovete trovare un giovane forte e coraggioso, completamente disinteressato.
Deve affrontare questo impegno solo per amore della gente.
Perché l’acqua della generosità funziona solo se è veramente voluta, aspettata, accolta.

Logico, no?

Perciò se troverete il giovane adatto in grado di affrontare le difficoltà dell’impresa (e non è cosa da poco) la medicina farà effetto solo se ci sarà qualcuno ad aspettarla!”
“Noi aspetteremo. Tutti!” giurarono il sindaco e i consiglieri, “Dobbiamo assolutamente uscire da questa epidemia che rende infelice la nostra città!”
“…e vuota le casse comunali!” aggiunse l’assessore alle finanze, che aveva la pelle grigia di chi veniva colpito dalla malattia del virus “sgrinfiacchiappa.”
Il giorno dopo su tutti i muri della città era affisso un bando:
“Cercasi giovane coraggioso per impresa eroica!”
Si presentarono in duemila.
Ma appena gli aspiranti eroi venivano a sapere che non ci avrebbero guadagnato niente, si ritiravano.
Tutti, meno uno.
Era un giovane robusto e simpatico, preoccupato dalla malattia che colpiva i suoi concittadini e che rendeva infelici tante persone.
Si chiamava Giosuè.
Il sindaco e i consiglieri gli spiegarono quello che doveva fare, anche se non avevano alcuna idea di dove si trovasse la “Montagna che canta.”
“La cercherò.” disse tranquillamente Giosuè.

“Noi ti aspetteremo.” promise la gente.

“Metteremo una luce sulla finestra tutte le notti, così saprai che ti aspettiamo!”
Giosuè mise un po’ di biancheria e pane e formaggio in una bisaccia, baciò la mamma ed il papà, abbracciò Mariarosa, la sua fidanzata, che gli sussurrò:
“Anch’io ti aspetterò!”
Salutò tutti e partì.
Per tre giorni Giosuè camminò risolutamente verso le montagne, che tremolavano nella luce azzurrina dell’orizzonte.
“Una volta là, mi basterà cercare la “Montagna che canta.”
Non deve essere difficile.” pensava.
Ma si illudeva.
Dopo dieci giorni di marcia, le montagne continuavano ad apparire lontane, come profili di giganti dormienti, all’orizzonte.
Ma Giosuè non si fermava.
Pensava agli abitanti della città che certamente si ricordavano di lui e lo aspettavano, ai suoi genitori e a Mariarosa e, ogni mattina, anche se i piedi gli dolevano ricominciava la marcia.

Passarono altri dieci giorni, poi dieci mesi.

Nella città, le prime notti erano state un vero spettacolo.
Sui davanzali di quasi tutte le finestre brillava una luce.
Era il segno della speranza:
aspettavano l’acqua della generosità portata da Giosuè.
Ma con il passare del tempo, molte lampade si spensero.
Alcuni se ne dimenticarono semplicemente, altri, colpiti dalla malattia, si affrettarono a spegnerle per risparmiare.
La maggioranza dei cittadini, dopo qualche mese, scuoteva la testa dicendo:
“Non ce la ha fatta.
Non tornerà più!”
Ogni notte, c’era qualche luce in meno alle finestre.
Ma Giosuè, dopo un anno, arrivò alle montagne.
Le prime erano montagnole da poco e le valli che le dividevano larghe e facili.

Poi si fecero sempre più aspre, rocciose, disseminate di ostacoli.

Giosuè stava con le orecchie tese per individuare la “Montagna che canta.”
Qualche picco, grazie al vento, fischiava.
Qualche montagna, grazie ai ghiacciai e ai torrenti, rombava.
Ma nessuna cantava.
In una piccola baita, aggrappata al fianco di una montagna, incontrò un vecchio pastore e gli chiese qualche informazione.
Il pastore gli regalò una scodella di latte fresco e poi gli disse:
“La “Montagna che canta.”?
Certo che so dov’è.
Non mi fa dormire quando porto le mie pecore a pascolare da quelle parti.
Ma è un accidenti di montagna!
Ripida e levigata come un obelisco e con il gigante Soffione!”

“Chi è?” domandò Giosuè.

“Un gigante burlone che si diverte a soffiare giù chi cerca di salire sulla montagna!”
“Pazienza, ma io devo salire lassù!” disse Giosuè.
Il vecchio pastore lo accompagnò fino ai piedi della montagna e lo salutò:
“Buona fortuna!”
La montagna cantava davvero, con un vocione allegro e un po’ stonato.
Giosuè cominciò subito ad arrampicarsi.
Le pareti della montagna avevano pochi appigli e il povero giovane si ritrovò presto con le mani rovinate dalla roccia.
Era quasi a metà della salita, quando un soffio di vento violento lo staccò dalla parete e lo fece rimbalzare in giù per parecchi metri.
Mentre cadeva sentiva la risata del gigante Soffione, felice per lo scherzo che gli aveva giocato.

Neanche questa volta Giosuè si scoraggiò.

Si riempì le tasche e la camicia di sassi e ricominciò a salire.
Pesante com’era, ogni centimetro gli costava una fatica terribile, ma il gigante Soffione aveva un bel soffiare.
Non riusciva neanche a farlo vacillare.
Dopo un po’ il gigante cominciò a tossire e infine smise di soffiare.
Così Giosuè arrivò sulla vetta e vide la sorgente cristallina dell’acqua della generosità.
Aveva compiuto la missione che gli era stata affidata e il suo cuore era leggero e lieto:
la gente della città sarebbe tornata felice come prima.
Portava sulle spalle una botticella della preziosa acqua.
Se non fosse bastata per tutti, ormai sapeva la strada.
Una notte senza luna e senza stelle, Giosuè arrivò sulla collina da cui si vedeva la città.
Guardò giù ansimando perché aveva fatto di corsa gli ultimi metri.
Quello che vide gli riempì gli occhi di lacrime e il cuore di amarezza.

La città era completamente avvolta dal buio.

Non c’erano luci sui davanzali delle finestre.
Nessuno lo aveva aspettato.
“È stato tutto inutile…
Se nessuno mi ha aspettato, l’acqua non farà effetto…
Tutta la mia fatica è stata inutile!”
Si avviò mestamente.
Aveva voglia di buttar via l’acqua che gli era costata tanto.
Stava per farlo, quando qualcosa lo fermò.
C’era una luce, laggiù!
Un lumino, piccolo, tremante, lottava con la notte, in mezzo ai muri neri delle case.
“Qualcuno mi ha aspettato!” disse.
Giosuè rise forte per la felicità e partì di corsa.
Riconobbe la finestra e la casa.
In fondo al cuore non ne aveva mai dubitato.
Mariarosa e i suoi genitori lo avevano aspettato!

Brano tratto dal libro “Storie belle e buone.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Sorridi…

Sorridi…

… al sole che illumina la terra e fa germogliare la vita.
… al passero che si posa sul tuo davanzale in cerca di poche briciole.
… al vecchio che ti regala i suoi saggi consigli e aiuta la sua mano tremante, ti benedirà.

Sorridi…

… all’amico quando cerca il tuo sguardo, ti chiede aiuto e sicurezza.
… all’ammalato senza speranza, il tuo sorriso sarà per lui la medicina più preziosa.
… al sorgere di ogni nuovo giorno perché è un dono di Dio.

Sorridi…

… al timido bocciolo di un fiore, anch’esso ti annuncia il miracolo della vita.
… al frastuono dei bimbi, essi sono la speranza di un mondo migliore.
… all’amore in qualunque forma si manifesti, esso vince il tempo e lo spazio.

Sorridi…

… davanti alle meschinità della gente senz’anima, il tuo sorriso forse le farà ricredere.
… quando ascolti note armoniose, la musica è linguaggio universale.
… al tuo fratello dalla pelle più colorata, è in tutto simile a te.
… e troverai la pace nel tuo cuore e in quello degli altri.

Brano di Ishak Alioui

Titta bella vita

Titta bella vita

Capita di sentire, ai nostri giorni, che non ci sono più gli uomini di una volta, ma nemmeno i personaggi simpaticissimi che popolavano i nostri paesi e contrade.
In uno di questi, nell’alto Trevigiano, abitava “Titta bella vita”, chiamato così per una singolare disavventura di cui si era fatto suo malgrado protagonista.

Non più giovane gli era stata diagnosticata,

da un luminare della medicina, una grave patologia con esito certo e fatale.
Dovendo morire presto, il nostro protagonista pensò di vivere i suoi ultimi giorni alla grande,

vendette la sua casa e andò a vivere in un albergo di lusso.

Si comprò bastone, capello e frac con tanto di fiore all’occhiello ed elargiva laute mance.
Più spendeva facendo bella vita, più acquistava salute tanto da guarire del tutto.
Però, allo stesso tempo, i soldi finirono e si trovò nella più assoluta indigenza e non potendo lavorare,

fu costretto a chiedere la carità di casa in casa in frac.

A tutti raccontava la sua storia e ripeteva:
“Se la morte non mi avesse ingannato, quello che possedevo mi sarebbe bastato!”

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Ditelo prima

Ditelo prima
(“Perché io ho bisogno di te!”)

Lui era un omone robusto, dalla voce tonante e i modi bruschi.
Lei era una donna dolce e delicata. Si erano sposati.
Lui non le faceva mancare nulla, lei accudiva la casa ed educava i figli.
I figli crebbero, si sposarono, se ne andarono.
Una storia come tante.
Ma, quando tutti i figli furono sistemati, la donna perse il sorriso, divenne sempre più esile, non riusciva più a mangiare e in breve non si alzò più dal letto.

Preoccupato, il marito la fece ricoverare in ospedale.

Vennero al suo capezzale medici e specialisti famosi.
Nessuno riusciva a scoprire il genere di malattia.
Scuotevano la testa e dicevano: “Mah!”
L’ultimo specialista prese da parte l’omone e gli disse:
“Direi semplicemente che sua moglie non ha più voglia di vivere!”.
Senza dire una parola, l’omone si sedette accanto al letto della moglie e le prese la mano.

Una manina sottile che scomparve nella manona dell’uomo.

Poi, con la sua voce tonante, disse deciso: “Tu non morirai!”
“Perché?” chiese lei, in un soffio lieve.
“Perché io ho bisogno di te!” rispose lui.
“E perché non me l’hai detto prima?” domandò lei.
Da quel momento la donna cominciò a migliorare.
E oggi sta benissimo. Mentre medici e specialisti continuano a chiedersi che razza di malattia avesse e quale straordinaria medicina l’avesse fatta guarire così in fretta.

Non aspettare mai domani per dire a qualcuno che l’ami.

Fallo subito.
Non pensare:
“Ma mia madre, mio figlio, mia moglie lo sa già!”
Forse lo sa.
Ma tu ti stancheresti mai di sentirtelo ripetere?
Non guardare l’ora, prendi il telefono:
“Sono io, voglio dirti che ti voglio bene!”
Stringi la mano della persona che ami e dillo:
“Ho bisogno di te!
Ti voglio bene, ti voglio bene, ti voglio bene!”
L’amore è la vita.
Vi è una terra dei morti e una terra dei vivi.
Chi li distingue è l’amore.

Brano tratto dal libro “Quaranta Storie nel Deserto.” di Bruno Ferrrero. Edizione ElleDiCi.

Il dottore e l’avvocato

Il dottore e l’avvocato

Finalmente laureato, un giovane dottore desidera lavorare in ospedale, ma non riesce a trovare lavoro, quindi con un po’ di fatica decide di aprire un suo studio medico privato.
Alla porta di ingresso mette un grande cartello arrecante la seguente scritta:
“La cura costa 25 euro, se non dovesse funzionare, vi saranno restituiti 100 euro.”
Un avvocato vede il cartello, e pensa subito che sia una buona occasione per intascare 100 euro facilmente, e dice:
“Dottore, ho perso il senso del gusto…”

Il dottore si rivolge alla sua infermiera:

“Prendi la medicina della scatola 12 e somministrane 3 gocce sulla lingua.”
L’infermiera esegue e l’avvocato comincia a tossire per espellere quanto ha ingerito:
“Sput, sput, sput, ma è benzina!”
Dottore:
“Esatto, complimenti!
Ha funzionato, ha riacquistato il gusto, sono 25 euro, grazie.”
Irritatissimo l’avvocato paga e se ne va meditando vendetta…

Infatti il giorno dopo si ripresenta allo studio medico.

Avvocato:
“Dottore, ho perso la memoria, non mi ricordo più nulla…”
Di nuovo, il dottore si rivolge alla sua infermiera:
“Prendi la medicina della scatola 12 e somministrane 3 gocce sulla lingua.”
L’avvocato, più irritato che mai:
“No! Lì c’è la benzina, me l’avete data ieri!”
Dottore:
“Complimenti! La sua memoria è tornata, sono 25 euro, grazie.”
L’avvocato è furioso, ma paga tramando sempre più una vendetta esemplare.

Il giorno dopo quindi si ripresenta.

Avvocato:
“Dottore, la mia vista è debole e annebbiata, non riesco a distinguere le cose…”
Dottore:
“Mi dispiace, sono desolato ma per questo non ho una cura da darle.
La prego, accetti i 100 euro.”
Gli occhi dell’avvocato iniziano a brillare, finalmente ce l’ha fatta, ma mentre allunga la mano per prendere la banconota che gli sta porgendo il dottore esclama:
“Ma questi non sono 100 euro, sono 20 euro!”
E il dottore:
“Complimenti, la sua vista non ha più problemi! Sono 25 euro, grazie!”

Brano senza Autore, tratto dal Web